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Imperi e Stati al tempo di Carlo di Borbone*
di Aurelio Musi
Il pluralismo delle forme di organizzazione politica caratterizza quella che può essere definita “età carolina” e che coincide con i decenni centrali del Settecento. Non si è trattato certo di una coesistenza pacifica. Il passaggio da un’Europa unipolare a un’Europa multipolare, tra le paci di metà Seicento e la pace di Aquisgrana che chiude le guerre di successione, ha reso più complesso il sistema delle relazioni internazionali, ha esteso la competizione fra le potenze alle sfere di influenza extraeuropee, ha ridisegnato la mappa delle gerarchie mondiali.
Quando parlo di forma-impero, mi riferisco a tre elementi che ne definiscono i caratteri distintivi nel corso del Settecento ma che sono già ben identificabili nel sistema imperiale spagnolo della prima età moderna: le basi politiche e non giuridiche della sua organizzazione, anche se il diritto resta la fonte determinante di legittimazione del potere; la spazialità complessa; la maggiore articolazione del rapporto centro-periferia che, nel pluralismo delle componenti dell’impero, rende assai problematica la realizzazione dell’equilibrio fra centralizzazione e autonomia.
Gli imperi, dunque, sono forme politiche che associano un comando universale al mantenimento di una varietà di realtà politiche subordinate.
Universalismo/particolarismo, unità / differenza sono coppie costitutive degli imperi.
Essi si distinguono dagli Stati per la vocazione universale, la tendenziale infinità temporale, la legittimazione fondata non solo sul principio legale/razionale, ma su quello più auctoritas/meno potestas, su una spazialità internamente complessa.
Il sistema imperiale borbonico, l’impero inglese, l’impero asburgico e l’impero ottomano, pur tra notevoli differenze di contesto, vivono una condizione fortemente determinata dal complesso delle tre caratteristiche indicate.
Quanto alla forma-stato, anche se, pur nella sua fisionomia assoluta durante il Settecento, deve ancora fare i conti dappertutto col pluralismo giurisdizionale e coesistere con poteri concorrenti sul territorio, essa presenta una condizione assai più evoluta rispetto a quella della prima età moderna, caratterizzata dalla capacità di svolgere e realizzare funzioni di governo più complesse, elaborate e articolate rispetto allo stadio embrionale del suo sviluppo. È in questo senso che si è potuto parlare di una “età delle preriforme” nell’Europa di fine Seicento e di primo Settecento, e che l’assolutismo illuminato è potuto intervenire nei settori cruciali dell’amministrazione, del diritto e del fisco, promuovendo e realizzando un’idea più centralizzata dei suoi poteri. Ed è grazie al loro consolidamento all’interno del territorio che è stato possibile a queste formazioni politiche “mediane”, come le avrebbe chiamate Fernand Braudel, competere nello scenario internazionale con i grandi imperi. Ma “età delle preriforme” significa anche il periodo in cui viene incubando una nuova classe dirigente che avrà un peso notevole nella politica dell’assolutismo illuminato.
Torniamo alle forme-impero. Il passaggio dal sistema imperiale spagnolo al sistema imperiale borbonico consente di individuare alcune analogie di fondo. All’unità politico-dinastica dell’impero asburgico corrisponde la tendenza alla concentrazione del potere da parte di Carlo di Borbone sia a Napoli che in Spagna attraverso la ristrutturazione amministrativa e le riforme dell’assolutismo illuminato. Se nel sistema asburgico la regione-guida è la Castiglia, nel sistema borbonico la Spagna conferma la sua centralità. Nella prima formazione politica i sottosistemi, cioè sistemi di potenza regionale formati da reinos tra loro interdipendenti, svolgono una funzione strategico-militare decisiva per la conservazione dell’intero sistema e anche un ruolo di relativa integrazione economica. Nella formazione borbonica il sottosistema americano diventa più centrale rispetto al passato, tanto che il regno di Carlo III in Spagna (1759-1788) potrebbe essere definito un “sistema imperiale borbonico su base coloniale extraeuropea”. La verifica di tale definizione è nella politica estera di Carlo. Dalla neutralità all’entrata in guerra contro l’Inghilterra sono registrati insuccessi spagnoli in Europa, ma successi nelle terre d’oltremare. Durante gli anni di Carlo è progettata e realizzata la massima espansione territoriale in America: conquista della Louisiana nel 1763, costituzione di un nuovo viceregno, il Rio de la Plata, oltre a quelli precedenti. Nel 1783 la Spagna perde l’Inghilterra, ma recupera Minorca e la Florida. Nel confronto con la Francia il ventennio successivo alla guerra dei Sette Anni si mostra assai più favorevole alla potenza imperiale coloniale della Spagna. Con Carlo il contesto è sicuramente cambiato rispetto al XVI e alla prima metà del XVII secolo, quando il sistema imperiale spagnolo come grande potenza imponeva l’egemonia nelle relazioni internazionali in un mondo unipolare. La divisione in sfere di influenza nel corso del XVIII secolo e l’affermazione del nuovo principio dell’equilibrio multipolare hanno sensibilmente ridimensionato il potere di arbitraggio della corona borbonica che, tuttavia, ha ancora modo di manifestarsi nelle contese tra le potenze europee.
Il secondo impero che qui prendo in considerazione è quello inglese. Non vi sono dubbi che per questa formazione politica i tre caratteri prima indicati come distintivi dell’impero – l’unità politico-dinastica, la spazialità complessa, il rapporto centro-periferia come difficile equilibrio fra centralizzazione e autonomia – entrino in una sorta di circolo vizioso a partire dalla guerra dei Sette Anni. Essa costituisce uno spartiacque nella relazione fra la madrepatria inglese e le colonie americane. Se l’unità politico-dinastica dell’impero non entra ancora in crisi e non si lacera a metà Settecento, il sempre più difficile governo dello spazio imperiale euroamericano e la questione della rappresentanza politica dei coloni – no taxation without representation – iniziano ad incrinare lo stesso principio di legittimità del potere della corona inglese. Il “sistema atlantico angloamericano tra XVII e XVIII secolo”, per riprendere la formula che John Elliott ha usato nella sua opera Imperi dell’Atlantico, si avvia dunque ad esaurirsi come formazione politica negli anni Settanta del Settecento. Ma se si osservano i rapporti fra Stato ed economia, possiamo tuttavia rilevare la continuità di lunga durata delle basi su cui sono stati costruiti quei rapporti ben oltre la rivoluzione americana e le differenze sostanziali rispetto al sistema imperiale spagnolo. In questo secondo caso la centralizzazione statuale riesce nel breve periodo, ma è essa stessa fattore del fallimento dello sfruttamento delle risorse nel lungo periodo. Nel caso inglese, invece, la centralizzazione fallisce nel breve periodo, ma questo fallimento costituisce la premessa per il successo del libero gioco delle imprese. Elliott argomenta in modo convincente questa sua tesi, come meglio cercherò di illustrare nella redazione del mio contributo per gli atti del congresso. Qui vorrei solo ricordare che Elliott usa la categoria di sistema imperiale spagnolo solo per rappresentare la parte extraeuropea coloniale dell’impero americano, riferendosi ad una serie di procedure e strumenti di tipo sistemico e la esclude per i secoli XVI e XVII. È come se solo nel tardo Settecento la conservazione dell’impero americano sia vitale per la stessa Spagna: e proprio su questa tesi Elliott fonda la differenza tra l’America spagnola e le colonie inglesi in America.
Al centro dell’Europa del Settecento è l’impero asburgico. Il sogno di unire i due imperi, quello spagnolo e quello austriaco, è sfumato. Ma giustamente Leopold von Ranke ha proposto una valutazione positiva del sogno sfumato, secondo una logica dell’eterogenesi dei fini. Fu una fortuna, perché consentì la formazione di una monarchia unitaria: Milano vicina al centro della Monarchia dal 1714 e, a partire dallo stesso anno, la conservazione dei Paesi Bassi significarono per gli Asburgo una chance in più per conquistare la preponderanza sulle altre potenze. Ad essa contribuirono anche il prestigio conquistato nella guerra contro i Turchi e la cessione definitiva dell’Ungheria. Certo la perdita della Slesia, la provincia più prospera e industrializzata al centro dell’impero, a favore della Prussia fu un grave colpo per gli Asburgo.
Ma qui si tocca un punto della massima importanza. Nel corso del XVIII secolo nessun impero riuscì a conservare la propria integrità territoriale, a gestire cioè quella spazialità complessa che ne costituiva uno degli elementi maggiormente caratterizzanti. Non ci riuscì l’impero spagnolo, che già dopo la prima guerra di successione aveva perso pezzi importanti dei suoi territori europei e venne sempre più configurandosi ormai come formazione imperiale su basi extraeuropee, cioè coloniali. Non ci riuscì la formazione politica inglese che, pur espandendosi in misura rilevante e con modalità efficaci verso l’Asia, perse la parte più importante del sistema atlantico. Non ci riuscì l’impero asburgico che, pur consolidandosi come formazione politica complessa ma tendenzialmente unitaria, perse il cuore della sua economia. E a maggior ragione non ci riuscì l’impero ottomano, su cui qui non posso soffermarmi, che perse gran parte dei territori che avevano contribuito allo sviluppo della sua potenza. La realizzazione del principio dell’equilibrio si mostrò così a due facce, per così dire. La prima era quella della tendenziale conservazione del sistema europeo multipolare, che non consentiva l’affermazione egemonica di una sola grande potenza. La seconda faccia era quella di una conflittualità, di una competizione permanente intraimperiale, per così dire, e fra imperi e stati, tesa a ridisegnare e destabilizzare le diverse sfere di influenza.
E proprio questo – il concetto di sfera di influenza – è decisivo per capire le tendenze comuni degli Stati nell’Europa multipolare del Settecento. In sostanza esse si configurano secondo quattro linee:
1) consolidare il processo di unificazione territoriale che aveva caratterizzato gli Stati moderni nel loro stadio nascente;
2) garantire e stabilizzare le basi sociali delle monarchie;
3) affrontare le guerre europee nella consapevolezza, nella logica dell’equilibrio e assumere coscienza piena del peso della congiuntura politica internazionale nella formazione e sviluppo delle potenze;
4) procedere, attraverso ulteriori tappe, nel consolidamento di quegli Stati-nazione che avrebbero assunto più decisa centralità nel sistema delle relazioni internazionali nel corso dell’Ottocento.
L’emergenza di nuovi soggetti come la Prussia, la Svezia e la Russia, nuovi come protagonisti nello scenario internazionale, è meglio colto se si tiene conto delle quattro linee indicate.
In sostanza coglie ancora nel segno Leopold von Ranke quando scrive: «Si può dire che nella seconda metà del secolo XVIII le tendenze monarchiche prevalsero totalmente in Europa. Ciò provenne – continua Ranke – da quelle potenze nelle quali la monarchia aveva una certa forza, e quanto più decisamente essa si era affermata tanto maggiori erano diventati la sua autorità e il suo potere». Il principio della legittimazione dinastica, il sistema efficiente di governo del territorio, l’equilibrio costituzionale tra monarchia centralizzata e Parlamento nel caso inglese, la capacità della monarchia di trasformare i ceti privilegiati da potenze antagoniste della sovranità a poteri ad essa sottomessi e cointeressati alle sue sorti avevano costituito i fattori di forza nello sviluppo dello Stato moderno in Europa. Il caso olandese era stato una “anomalia nello schema europeo”, secondo il celebre giudizio di Huizinga. E il modello federale germanico, con la sua politerritorialità e la singolare costituzione per ceti (Standetum), se nella prima età moderna aveva favorito, attraverso l’alternanza di collisione e collusione fra i principi e i ceti territoriali, una dialettica politica non in opposizione al più moderno sviluppo delle strutture statuali, tra Seicento e Settecento aveva rivelato tutta la sua fragilità consentendo al Brandeburgo-Prussia di emergere come potenza sovrana fra gli Stati germanici proprio grazie alla maggiore forza della dinastia Hohenzollern.
Il Settecento fu la realizzazione di un nuovo ordine dell’antico regime. L’assolutismo, anche quello illuminato, perfezionò attributi e poteri del primo periodo dello Stato moderno: dichiarare guerra, stabilire relazioni diplomatiche, intervenire sull’amministrazione, sulla giustizia, sul fisco. La gestione e l’esercizio concreto di tali poteri furono direttamente proporzionali, quanto alla loro efficacia, all’espansione dello Stato assoluto, di una più ampia e complessa articolazione sociale, dei rapporti internazionali.
Il nuovo ordine fu, in sostanza, il completamento dell’antico regime. Anche le riforme delle monarchie illuminate, sia nella versione dell’assolutismo come quelle di Carlo di Borbone, sia nella versione del dispotismo autocratico russo, come quelle di Caterina II, furono promosse per realizzare una più efficace centralizzazione del potere sovrano, privilegiando soprattutto quella che oggi chiameremmo l’ingegneria istituzionale.
Tuttavia non può sfuggire il fatto che proprio l’età carolina rappresentò il perfezionamento di quel nuovo ordine politico nato dopo Vestfalia e, pur entro i limiti dell’antico regime, segnò un’ulteriore tappa nella distinzione fra assolutismo e dispotismo. La prima forma caratterizzava lo Stato come insieme organico formato dal principe e dalla comunità dei sudditi, a differenza della seconda forma che vedeva il sovrano come padrone e signore del suo territorio.
Giunse pure a compimento un’ulteriore conseguenza di Vestfalia: la progressiva differenziazione, cioè, tra état e puissance. Col primo termine si intendeva la sovranità statale come condizione del riconoscimento e della legittimazione giuridico-politica nei rapporti internazionali e diplomatici. Stati grandi, medi e piccoli erano tutti perfettamente uguali in linea di diritto, tutti egualmente sovrani. Puissance andrà sempre più associandosi invece alla potenza reale delle formazioni politiche.
Da questo punto di vista, dunque, la distinzione fra Imperi e Stati sarà meno decisiva rispetto al passato nella determinazione reale della potenza.






NOTE
* Testo della relazione presentata al congresso internazionale Le vite di Carlo di Borbone. Napoli, Spagna e America (Caserta-Napoli 3-5 novembre 2016).^
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