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Dopo l'elezione di Macron
di G. G.
L’elezione del presidente della Repubblica in Francia, pochi giorni dopo la conferma, in Italia, di Matteo Renzi a segretario del partito democratico, si è conclusa come la maggior parte degli osservatori aveva pronosticato, ossia con la vittoria di Emmanuel Macron. Se, per caso, il risultato fosse stato diverso e avesse vinto la Le Pen, neppure questo avrebbe costituito una novità. È accaduto altre volte nella storia delle democrazie occidentali che, alla prova dei fatti, i sondaggi risultassero largamente infondati.
Ciò ci riporta a un dato di fatto di cui spesso ci si dimentica, malgrado sia di non recente acquisizione; e, cioè, che dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, non c’è ormai quasi più alcun evento politico di un paese occidentale che non riguardi da vicino tutto l’Occidente. Se, ad esempio, avesse vinto la Le Pen, ci sarebbe stato il fondato timore di un disimpegno francese dall’Unione Europea, con conseguenze alquanto più gravi di quelle già inflitteci dalla cosiddetta Brexit. Per la stessa vita politica interna, il francese «Le Figaro» parlò, qualche giorno prima della votazione, in vista dell’esito elettorale, di una possibile rinascita di leader progressisti che ne sarebbe potuta conseguire, mentre lo spagnolo «El País» paventava un effetto di rilancio dell’estremismo sia di destra che di sinistra. E, certo, quei due importanti giornali non si riferivano solo alla Francia, ma a un più vasto scenario europeo.
Non è, però, per ricordare il rischio, al quale le elezioni presidenziali francesi ci hanno fatto pensare, che ne parliamo qui, a rischio ormai scongiurato, bensì per lo scompaginamento del tessuto politico francese che quelle elezioni hanno segnato e che il loro risultato sembra aver subito addirittura accentuato. È, infatti, accaduto che le due maggiori forze del sistema politico francese – i repubblicani a destra e i socialisti a sinistra – si siano del tutto sgonfiate della carica politica ed elettorale, per cui primeggiavano in quel paese fin dagli inizi di questa Quinta Repubblica, che ebbe a suo padre Charles De Gaulle. A destra si è saldamente impiantato il movimento fondato dal padre dell’attuale candidata Le Pen. A sinistra il candidato socialista al primo turno ha avuto appena l’8% dei voti. Ha vinto, invece, Macron, a capo di un movimento centrista da lui fondato e denominato
En marche!, cioè, più o meno, Avanti! Come si sa, era questo il titolo dello storico quotidiano del partito socialista italiano. E, come il nome del movimento, anche lo spazio della formazione politica lanciata dal candidato presidente (egli stesso proveniente dal campo socialista) si sostituisce a quello della tradizione socialista, della quale ha consacrato il pauroso declino.
Ecco, dunque, il punto più importante nella giornata elettorale francese del 7 maggio: lo stato, cioè, di disgregazione del tessuto politico nazionale, che noi stiamo sperimentando in Italia già da anni: con una destra molto parolaia e pretenziosa, ma in realtà soprattutto molto divisa e confusa – con una sinistra molto indebolita dal referendum che ha scalzato Renzi da Palazzo Chigi e ha incrementato la tendenza della sinistra italiana a dividersi in gruppi e gruppetti ricchi di parole d’ordine e di capacità di agitazione, ma molto poveri di concrete idee e strategie – con un movimento di opposizione totale, come quello della Le Pen in Francia, ma più forte e più difficile da analizzare e comprendere nella sua realtà e nelle sue effettive tendenze, qual è quello dei 5 Stelle.
L’analogia – nel negativo! – tra i due paesi è, dunque, forte. Non sappiamo se, con la vittoria di Macron, sarà possibile avviare un processo di ricomposizione del tessuto politico del suo paese. Allo stesso modo, non sappiamo se l’affermazione di Renzi alle primarie del suo partito (una grande affermazione, malgrado gli sforzi dei suoi avversari di ridurla o sottovalutarla) potrà far riemergere in Italia un nuovo forte polo politico a sinistra, in grado di svolgere una decisiva funzione nazionale. Possiamo solo presumere di sapere che in Francia e in Italia, come ovunque, il passato non ritorna mai, o, almeno, non ritorna mai qual era. E, sapendo ciò, sappiamo pure che determinare, in Italia come in Francia, una reale e consistente novità politica è la vera, storica posta della partita che in questi paesi siamo andati giocando negli ultimi cinque o sei anni di agitate e spesso sorprendenti vicende; ed è per ciò che abbiamo richiamato – non, certo, come parallelo ed equivalente, ma come analogo dal punto di vista che facciamo presente – la rielezione di Renzi alla segreteria del partito democratico. Comunque vadano poi le cose, è poi pure da notare che l’associare Italia e Francia nella stessa considerazione politica non è soltanto un motivo passeggero e occasionale dettato dall’attualità. È di qualche settimana fa la presa di posizione comune dei ministri economici di Spagna, Portogallo, Francia e Italia nei riguardi del presidente della Commissione Europea, Juncker, per ammonirlo sulla necessità di rivedere le norme europee in materia di bilanci e relativi deficit in considerazione delle difficoltà dei loro paesi (e non soltanto in essi) negli ultimi anni. È stata, se non ci inganniamo, la prima volta che la Francia si è legata agli altri tre paesi dell’Europa meridionale e mediterranea in un tale importante passo politico al livello internazionale e all’interno dell’Unione Europea. Su tale sfondo la similarità delle condizioni politiche francesi e italiane assume, evidentemente, un ancora maggiore significato.
È vero che poi Macron ha annunciato che il suo primo contatto europeo sarà con la cancelliera Merkel. Si è per ciò subito parlato di immediata ricostituzione dell’asse preferenziale franco-germanico come l’autentica garanzia della stabilità di una Unione Europea, indubbiamente sottoposta negli ultimi anni a numerosi scossoni, dei quali la fuoruscita britannica è stata soltanto il maggiore. Era, però, crediamo, un approccio del tutto obbligato per il nuovo presidente francese. Non vuol dire – di per sé – che Macron continuerà nella prassi di quell’asse preferenziale come tutti i suoi predecessori. Le cose sono profondamente cambiate in Francia, in Germania e, forse ancora di più, in ogni altro paese europeo rispetto ai tempi d’oro dell’asse Berlino-Parigi. E i profondi mutamenti portano a una considerazione diversa anche dei rapporti interni all’Unione Europea. L’aperta ammissione francese delle difficoltà degli ultimi anni nel determinare deficit e squilibri di bilanci rispetto alle norme europee in materia non è cosa che possa svanire in un piccolo giro di tempo, non è cosa di breve durata, né può durare indefinitamente il trattamento privilegiato che in questa materia l’Unione ha riservato già per quattro anni alla Francia. Si sarebbe per ciò indotti a pensare che la presa di posizione comune con Italia, Spagna e Portogallo, di cui abbiamo fatto cenno, debba avere un qualche seguito significativo. Ma, se così non fosse, con una Europa rispetto alla quale ancora non si è ben capito quale sia per essere il reale atteggiamento del nuovo presidente americano, non è consigliabile per nessuno il rischio di complicazioni imprevedibili. Senza contare che oggi la Germania è ancora più forte di alcuni anni fa, e che lo stesso non si può dire per la Francia, onde Parigi ha attualmente un maggiore interesse di ieri a non isolarsi nel rapporto con Berlino e a coltivare molto di più i rapporti almeno con alcuni degli altri paesi dell’Unione.
Naturalmente la presidenza Macron miracoli non ne potrà fare, e né lui né la Francia sono protagonisti solitari delle vicende di cui parliamo. Appare, però, davvero certo che non è affatto scontato, ma non è per nulla neppure irragionevole attendersi, con l’elezione di Macron, e a partire dalla Francia, più di una novità sia sul piano europeo (per le ragioni che si sono esposte), sia sul piano dello schieramento politico in Francia (si è visto subito il gesto di adesione a Macron dell’ex capo del governo Valls), e, anche solo per riflesso, nei paesi in condizioni grosso modo simili.
Postscriptum – Ci si scuserà se, su un tale sfondo europeo e italiano, non riteniamo affatto pretestuoso ricordare che a quanto abbiamo esposto è interessato, in Italia, soprattutto il Mezzogiorno.
Fino alla noia bisogna, infatti, ripetere che la stabilità delle prospettive politiche all’interno e una giudiziosa, ma vigorosa politica europeistica all’esterno sono le sole reali e durature carte che il Mezzogiorno ha in mano per far valere le sue ragioni e per cercare nella massima misura possibile di sbrogliare, anche da sé, i suoi problemi.
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