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Il governo borbonico in esilio
di Eugenio Di Rienzo
È un vero servigio agli studi storici non soltanto italiani il recente lavoro di Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la “questione napoletana”. 1861-1870 (D’Amico Editore, Nocera inferiore). E lo diciamo con vero compiacimento soprattutto perché Di Rienzo ci ha dato una importante trattazione di un tema storico rimasto finora, se non del tutto trascurato, certo molto in ombra nella storiografia sui primi anni dell’unità italiana, e cioè la vita e l’attività del governo napoletano, che affiancò l’ultimo sovrano borbonico, il giovane Francesco II, nell’esilio a Roma.
Quel governo era presieduto da Pietro Calà Ulloa, che era pure ministro dell’Interno, della Giustizia e per gli Affari di Sicilia; Leopoldo Del Re era ministro degli Esteri e della Marina, Salvatore Carbonelli era ministro delle Finanze e degli Affari Ecclesiastici, e Antonio Calà Ulloa, fratello di Pietro era ministro della Guerra. Non erano nomi di primo piano nel Mezzogiorno borbonico, e il fatto stesso del cumulo degli incarichi e dei due fratelli Calà con tanti e così pesanti incarichi rivela la difficoltà di far nascere un vero e proprio organismo ministeriale dopo la caduta del Regno. Il rapido riconoscimento del nuovo Stato italiano da parte della maggior parte delle potenze (Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Danimarca, Portogallo, Svezia, Grecia, Svizzera, Impero Ottomano e Francia) nella primavera-estate del 1861 pregiudicaava il credito di quel governo in esilio. Avverse rimanevano Austria, Confederazione Germanica, Prussia, Russia, Spagna, Santa Sede, ma si trattava di resistenze scontate, delle quali dal 1865 rimasero solo la Santa Sede e l’Austria.
Nel governo in esilio si affrontavano due correnti. L’una di esse, con la regina madre Maria Teresa d’Austria, conservatrice e intransigente, puntava sull’agitazione e la guerriglia nel Mezzogiorno per rovesciarvi il regime stabilito dai “piemontesi”, rinnovando quindi, in sostanza, il “miracolo del 1799. L’altra corrente, con Pietro Calà Ulloa, era su posizioni costituzionalistiche, liberalizzatrici del vecchio regime borbonico. Non era restia all’idea di una unità federale dell’Italia che ne mantenesse in vita l’antica struttura pluristatale. Né credeva che la guerriglia del “brigantaggio” valesse a rovesciare lo stato delle cose; e se ne voleva servire solo per dimostrare che la nuova Italia non era in grado di mantenere il controllo del Mezzogiorno se con un regime di violenta repressione contrario ai suoi stessi principii. Calà Ulloa mirava, così con intelligente politica, a tener vivo il problema napoletano nella diplomazia europea, nella speranza che una revisione europea del nuovo assetto italiano consentisse un ritorno borbonico nel Mezzogiorno continentale (cosa chiaramente irrealistica per la Sicilia). Anche la linea Calà ebbe, però, in ultima analisi, scarsa eco in Europa; e a nulla valsero anche le critiche, ad esempio, di importanti parlamentari britannici al nuovo regime italiano nel Mezzogiorno (uno dei pregi di questo volume è la ristampa del discorso di Lord Lennox alla Camera dei Comuni l’8 maggio 1863: una terribile requisitoria che addossava al governo italiano la famosa condanna del governo borbonico a suo tempo pronunciata da Gladstone).
Questo esito negativo era, in effetti, scontato in anticipo; e i governi italiani degli anni ‘60 si preoccuparono molto più del brigantaggio che del governo esule di Roma e delle sue, pur accorte, mosse e iniziative. Il pericolo del brigantaggio era, a sua volta, già svanito nel 1865 grazie alla fiera, durissima repressione che con ogni mezzo se ne condusse nei primi anni dell’unità. L’alleanza italo-prussiana e la guerra del 1866 tolsero poi, come giustamente nota Di Rienzo, ogni ulteriore speranza alla causa borbonica e portarono al finale scioglimento anche del governo in esilio.
Le valutazioni di Di Rienzo sul governo italiano del Mezzogiorno sono molto critiche, e sulla materialità dei fatti non gli si può dare torto. Nel Parlamento italiano di quegli anni ‘60 se ne discusse ripetutamente, e le recriminazioni di quanto accadeva al Sud furono frequenti e violente. In quel lungo catalogo di violenze e storture non si cessa mai di scorgere i tratti di urgenze storiche – e tale era già da tempo sul quadrante della storia civile e morale dell’Europa l’unità nazionale italiana – deprecabili al massimo nelle forme in cui si realizzavano. Chiari appaiono anche i tratti che diversificano la vicenda meridionale da quelle di altri paesi richiamati con acume da Di Rienzo (anche se, però, quei casi sono tutti diversi tra loro). In quelle grandi lotte civili lo schieramento sociale era ampio e massiccio. Nel Mezzogiorno di quegli anni ‘60 la borghesia meridionale fu molto assente, così come lo era stata nel 1860, quando il Regno finì con un crollo tale da smentire ogni pretesa di rappresentare il Sud come un paese ordinato, soddisfatto del suo regime e delle sue condizioni, in equilibrio economico-finanziario e sociale, con un forte attaccamento alla dinastia e legato alla sua indipendenza, senza alcun fermento di idea italiana: un crollo vergognoso, riscattato solo dal comportamento alto e nobile dell’esercito napoletano. La borghesia si adattò subito, nella sua stragrande maggioranza, al nuovo regime; si fece eleggere largamente al Parlamento italiano, e vi svolse una parte alquanto attiva, a presidio, innanzitutto, dei propri interessi; e il cripto-borbonismo di cui fu spesso accusata si rivelò ben presto nulla di più che un abile mezzo di manovra politica. La guerra del brigantaggio vi reclutò, tutto sommato, appoggi e partecipazioni insufficienti; e, anzi, dovette spesso strappare un po’ di appoggi con la violenza. La massa dei combattenti di quella guerra fu perciò quasi tutta di contadini, pastori e popolani, ex soldati e (meno) ex ufficiali borbonici, di una parte del clero. Irrilevante fu la partecipazione straniera di legittimisti di vario genere. Al contrario, l’inserimento dei meridionali nei quadri civili e militari della nuova Italia si ebbe da subito e progredì con buon ritmo e, in generale, con una buona prova (come nella sfortunata battaglia di Custoza del 1866).
È impossibile giudicare delle vicende del 1860 e anni seguenti senza tener presente tutto ciò, ma ancor più impossibile è giudicarne senza tener presente che nel Mezzogiorno esisteva già da decennii un movimento liberale o democratico e nazional-italiano di non piccola consistenza. Questo movimento fu una forte componente del Risorgimento italiano, ed ebbe da subito anche una gran parte nel governo dell’Italia unita, allargando notevolmente i suoi quadri nello stesso Mezzogiorno. Anche la borghesia cripto-borbonica finì con l’istradarsi (tutto sommato, rapidamente) su questa via, determinando sia un rafforzamento che un inquinamento (poco contrastato, per la verità) del liberalismo e della democrazia meridionale; finché dai primi anni del ‘900 queste e qualche altra componente compenetrarono di sé l’intera pubblica amministrazione italiana.
Rendere giustizia al liberalismo e alla democrazia meridionale, non ritenerli solo il fatto di pochi esuli, comprendere le ragioni del lungo controllo di gran parte del mondo meridionale che essi mantennero fino ai primi anni del fascismo (al quale furono gli ultimi a cedere) è, perciò, indispensabile se non vogliamo farci della storia del Mezzogiorno nell’unità italiana un racconto traviato e traviante, che non giova a nessuno, tranne che a speculazioni politiche e culturali dannose a tutti e giovevoli solo a un’industria culturale di vantaggio unicamente di qualche spregiudicato autore o editore, che sfruttano miti e luoghi comuni diseducativi e disgreganti.
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