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Il Carteggio Croce-Flora*
di Emma Giammattei
Basterebbe la lettura del denso libretto di Francesco Flora su Croce del 1927 per verificare appieno la qualità e l’equilibrio del rapporto intellettuale da subito intrattenuto con il filosofo e la sua teoria, nell’ambito determinante della critica letteraria e dell’estetica1. Tanta infatti è l’indipendenza della sintesi, pur centrata e rispettosa, la freschezza degli esempi proposti, insieme con il riconoscimento di un magistero metodologico ed etico-politico ineludibile agli occhi del giovane studioso, ma in quanto orizzonte capace ed aperto: più tardi Flora parlerà di «storicismo e umanesimo assoluto» ovvero, con felice oltranza, di «umanesimo totale»2. Fin dall’inizio, questo grande letterato – nato nella provincia sannita nel 1891, laureatosi in giurisprudenza a Roma e poi vissuto fra Napoli, Milano e Bologna, dove morì nel 1962 – individua il senso e la modalità esemplare della relazione con una delle personalità più imponenti nella storia della cultura non solo italiana3, con semplicità e limpidezza, alquanto diversamente, ci sembra, rispetto all’ambiguità di atteggiamento dell’altro pupillo al filosofo carissimo, cioè Luigi Russo4. E fin dall’inizio, attraversata la breve stagione dall’appassionamento dannunziano e futuristico, come malattia necessaria, Flora offrì una applicazione originale dell’estetica crociana, al di fuori di ogni ripetizione di formule e conseguendo un risultato che solo certa confortevole accidia critica ha potuto in seguito, peggio che disconoscere, stingere nella identificazione di una ortodossia statica. Questo carteggio, che copre il periodo 1920-1952, ci restituisce ora, con dovizia di particolari e ben contestualizzato dalla curatrice, innanzi tutto l’intonazione essenziale dell’amicizia tra il maestro e il discepolo, e di quel vero e proprio sodalizio instauratosi negli anni del fascismo intorno alla direzione della “Critica”. Com’è noto, infatti, Flora fu il redattore responsabile della rivista, a partire dal 1926, nel momento in cui il regime vietava capziosamente ai rappresentanti del parlamento di essere responsabili di giornali, prendendo così su di sé un incarico che attesta la sua affidabilità agli occhi di Croce, e che fu causa di rischioso solitario prestigio negli anni della dittatura fascista. Si vuol ricordare, per inciso, che molti anni prima un altro giovane, autore della prima monografia su Croce, Giuseppe Prezzolini5, si era proposto per quell’incarico. Ma appunto la differenza è, ancora una volta, nella relazione di reciprocità6 che Flora sa, tra i pochissimi, intendere e praticare: cioè quella, fondativa della stessa civiltà europea, fra maestro e discepolo, concernente la trasmissione e comunicazione del sapere e messa in crisi nel primo Novecento dalla cultura delle avanguardie e dei giovani.
Pure, proprio il modello culturale “giovanile” e vociano sigla con la sua componente autobiografica gli esordi dello studioso e scrittore, ma ormai in funzione di antidoto, intanto come superamento della ossessione del superamento7, già nel libro del 1921 Dal Romanticismo al Futurismo, dove vige semmai la tensione, che caratterizzerà tutto l’itinerario floriano, di storicizzare la contemporaneità, la contemporaneità della quale egli si sente, per dir così, portatore sano. Del resto, nel medesimo torno di tempo, nel fervido periodo napoletano Flora, orfano di padre con responsabilità di capofamiglia, per guadagnare si dedicava al giornalismo letterario, leggeva, accanto a Rimbaud e ad Ungaretti, le opere di Croce, si accostava al circolo crociano dei “vomeresi”, vale a dire di Luigi Russo, Gino Doria, Raffaello Piccoli, Riccardo Ricciardi, spesso riuniti nel villino di Giovanni Castellano8. E tramite quest’ultimo, collaboratore e segretario di Croce negli anni Venti, Flora fa pervenire al filosofo la recensione al volume compilato da Castellano Introduzione allo studio delle opere di B. Croce. Il carteggio ha inizio di qui, con il biglietto di ringraziamento e di apertura di credito da parte di Croce, il quale vede subito «ben còlti i fili delle proprie idee» (lett. del 17 febbraio 1920). E c’è l’invito per nulla cerimonioso che gli apre la frequentazione di casa Croce – «È più facile trovarmi in casa che fuori. A ogni modo alle 13 o alle 21 mi si trova di sicuro» (23 febbraio 1920): quindi, la conversazione orale che s’alterna con quella scritta, configurando, nel tempo, il ritmo variabile del flusso epistolare.
I carteggi crociani, come ben sanno gli studiosi, man mano che vengono fuori, configurano un vero sistema, proiezione inesorabile della amplissima giornata del filosofo, il quale tenne le fila, quotidianamente, di molteplici corrispondenze. Si tratta di un sistema imponente, che si è in gran parte depositato in un archivio di 100.000 pezzi, forse l’ultimo multiversum epistolare dell’Otto-Novecento, a coprire i territori della repubblica letteraria, della politica, della storia, senza dimenticare la dimensione intima e privata. Si vuole sottolineare qui la straordinaria numerosa varietà dei corrispondenti – da Einstein a Nitti, da Warburg a Scarpetta, da Gentile ad ebrei senza nome –, all’interno dei singoli spaccati sincronici, a partire dalla grande stagione del primo Novecento. Nell’ambito di questa specifica dimensione testuale, vi sono carteggi portanti, che emettono segnali in più direzioni, veri campi discorsivi ai quali ricondurre le corrispondenze coeve, secondo i sottogeneri individuati, di volta in volta, dal profilo umano storico e sociologico degli interlocutori.
Grande epistolografo, Croce ha demandato infatti alla lettera il compito di verificare contestualmente e processualmente il dialogo col proprio tempo, e di divulgare affermare spiegare “mettere in rete”, come oggi si direbbe, il modello critico-filosofico che va elaborando, rivelandone così l’intrinseca relatività alla situazione e alla coscienza complessiva prodotta dall’epoca.
Bisogna inoltre tener presente che il filosofo incluse nella edizione laterziana delle proprie opere, il Carteggio Croce-Vossler, del 1951, che costituisce un’opera estrema nella biografia crociana, e come tale – si deve aggiungere – fu sentita e presentata dall’autore. È il racconto esemplare dell’amicizia fra due intellettuali europei, il tedesco Vossler e l’italiano Croce, amicizia che attraversa le due guerre mondiali, a testimoniare l’esistenza e persistenza di una koiné etica, culturale e sinanche antropologica, profondamente e consapevolmente incarnata dai due protagonisti del carteggio e che viene proposta al lettore del 1951 quasi in funzione testamentaria, nel momento in cui, nell’immediato dopoguerra, l’idea stessa di Europa appariva quanto mai sofferente e minoritaria.
E altrettanto importante e rivelatore, per ragioni differenti, è il carteggio, non ancora ricostituito nella sua plenaria e drammatica consistenza dialogica, con l’amico e sodale Giovanni Gentile, dove la discussione filosofica investe necessariamente il registro scritto, pensiero incarnato storicamente.
Ebbene, tra questi due densi nuclei testuali, intorno ai quali risulta organizzata la vasta galassia dei carteggi crociani, in una varietà sempre omogenea di registri, il posto delle lettere che qui si presentano risulta significativo e peculiare. Si tratta di lettere in parte di servizio, informative, all’interno di un registro familiare e dunque implicito, ma proprio perciò di grande utilità per seguire la storia dei libri nel loro farsi, delle riviste, dei progetti, infine della ricezione dell’opera, nell’arco di un trentennio, di due infaticabili realizzatori di cultura. Del resto, fino al 1930 Flora vive a Napoli, in via Mattia Preti. Era il tempo, ha ricordato la nipote Francesca Bucci Margheri, di Flora gran signore del proprio tempo, che divideva fra amicizie amori e studio. E sono gli anni della Fratria degli Aristei, l’associazione con la quale Doria, Ricciardi, Piccoli, tentavano di ricostituire intorno a Croce, inutilmente, l’antico clima di consentaneità culturale e un po’ goliardica dei Nove Musi, e dove il nome accademico di Flora era “L’Assaggiatore”9. Dopo, come molti altri intellettuali napoletani – e si dovrà ricordare almeno il caso di Vittorio Spinazzola10 – compie il tragitto economico verso Milano, dove le possibilità di lavoro editoriale e giornalistico rendono meno grave e immediato il peso del regime politico, che esclude dall’insegnamento universitario gli antifascisti. E anche da lì, accanto a messaggi improntati ora alle difficoltà di ambientamento ora a rinnovata fiducia, ci sarà sempre il riferimento e il differimento alla parola diretta, agli incontri a Napoli, a Meana di Susa, a Milano, spesso in casa del comune amico Alessandro Casati. Le risposte di Croce sono funzionali, cioè mirate alla comunicazione concreta di cose e fatti, ispirate al principio generale del «non perdere tempo»11 e del lavoro come terapia all’angoscia, e però posseggono, man mano che ci si addentra nella lunga notte della dittatura e della guerra, una crescente gravità di intonazione, una evidente curvatura moralistica. Comunque, dalle prime lettere, una volta assodata la sintonia e la gerarchia tra i due corrispondenti – al prevalente «Caro Maestro» delle lettere di Flora, fa riscontro il «Mio caro Flora» del filosofo – il carteggio si intesse veloce, persino spiccio, con passaggi rivelatori. Se ne evince subito che Croce non ama i catechismi, non vuole «apostoli e profeti»12, ma interlocutori reali e liberi. Se discretamente Flora chiede consiglio ed aiuto presso le case editrici, egli risponde con chiarezza: ad esempio il libro ancora inedito Dal Romanticismo al Futurismo13, è definito «veramente un bel libro, di attraente lettura quanto di serio contenuto», ma in qualità di Ministro Croce dichiara di non poter fare pratiche con editori né affidarlo a Laterza o a Ricciardi perché in quel caso il saggio apparirebbe come nato sotto le sue ali, mentre invece non bisogna togliere al lavoro «quella impronta di indipendenza, che lo rende simpatico» (lett. dell’8 lug. 1920). Si deve ad Elena Croce la testimonianza su codesta impazienza del padre rispetto ai rischi di una scolastica crociana – che pure, com’era fatale, si formò. Peraltro, in questo carteggio c’è l’importante considerazione da parte del filosofo sul carattere sostanzialmente parassitario di tanto anti-crocianesimo che non produce se non rovesciamenti di formule, dietro le quali invece c’è studio, scavo bibliografico ed elaborazione di idee. Tra le maschere negative che attraversano la scena del carteggio ci sono appunto gli «eterni giovani» sempre intenti a «superare» il vecchio filosofo: ad esempio, Alfredo Gargiulo, il quale, nota Croce, «non può scrivere se non si attacca ai miei panni per negare quello che io dico; e poiché anche la negazione non gli riesce sempre agevole, comincia prima col non voler capire quello che io dico» (lett. del 2 agosto 1929). Soprattutto, c’è il personaggio intellettuale più inquietante e pericoloso secondo il filosofo, Giuseppe Antonio Borgese, al quale Croce aveva imputato proprio la sindrome del «superamento»14, e in verità il primo e il più dotato di quei giovini che erano passati in fretta dall’entusiasmo degli adepti del crocianesimo all’ansia di farsi essi maestri “contro” Croce: Borgese nei suoi molti travestimenti e refoulements, sempre escursore «in terre nuove»15, critico, narratore, profeta, a un tempo protagonista e dissidente, dagli anni Venti fino al suo ritorno in Italia dopo la caduta del fascismo. Vale la pena di soffermarsi su questo punto, dal momento che l’interesse e l’incanto di questo carteggio proviene anche dall’intensità laica della corrispondenza intellettuale, dalla mitezza somma del più giovane, il quale attraversa il Ventennio lavorando e studiando e mettendo insieme edizioni di classici, saggi, libri, infine la grande impresa della Storia della letteratura italiana, con crociana laboriosità di fronte alle traversie, sempre conservando una «forza allegra», e mantenendo rispetto a Croce l’atteggiamento che questi aveva tenuto rispetto a De Sanctis. Il discepolo ideale non fa mai i conti del dare e dell’avere col suo maestro; e d’altra parte l’autorità di colui che trasmette il sapere e indica il metodo non si converte in rapporto di forza16. Ma una siffatta continuità, dinanzi all’affermarsi della figura sociologica opposta del maitre à penser, si fa ormai problematica poiché nasce dal presupposto che qualcosa da trasmettere vi sia: «[…] l’onestà del metodo – annota Flora – è un carattere morale». Nel libro su Croce egli infatti parla di una «metodica in atto» e sottolinea la questione non meramente linguistica della comunicazione che è azione17. Alla diade Croce–De Sanctis Flora avrebbe dedicato pagine decisive nel numero speciale della rivista «Letterature Moderne», pubblicato a sua cura in occasione del primo anniversario della morte del filosofo. Diversi e speculari risultano invece i suoi interventi polemici e critici su personalità della cultura italiana del Novecento, «aspiranti maestri» quali Giovanni Papini o lo stesso Borgese, al cospetto dei quali, la capacità di saper leggere e interpretare scatta anche dalla coscienza di una segreta possibile affinità, di figli del secolo18.
E dunque il motivo ricorrente della corrispondenza è da individuare nel comune lavoro, luogo deputato di una comunità pratica e ideale di resistenti, alla quale tocca salvare il salvabile, mentre intorno si scardina quella che Flora volentieri denomina «l’armonia del mondo». Costante, nelle lettere di entrambi, l’enumerazione dei lavori in corso come dei saggi già scritti, al di là di ogni malessere, di ogni caduta nella depressione. Se il filosofo, accanto al disbrigo dei «minori lavori» (lett. del 25 lug. 1930) studia e medita sulla «storia dell’Italia unita», cioè in vista del libro del 1928 e poi subito sulla «storia del secolo decimonono» che si preciserà come la Storia d’Europa del 1932, non appare da meno l’alacre giornata del Flora, pur aduggiata, come ben intende Croce nei silenzi dell’amico, da preoccupazioni e dolori. Nel 1929, ad esempio, egli scrive:
Quest’anno, nelle vacanze non ho potuto lavorare come volevo: e il “Leopardi” che mi porta jettatura, non è andato molto avanti. Ho scritto alcuni articoli e ho ripreso l’idea di rievocare i giornali letterari italiani dal 70 in poi. Ho rivisto e mandati i capitoli della Storia letteraria che pubblicherà Treves: “Marino e il secentismo”, “La critica dal De Sanctis al Croce”, “Padula”, “Costanzo”, “Rapisardi”; ho riletto il romanzo che esce in Ottobre: ho fatto parecchie letture dei nostri classici (Machiavelli, Della Casa, Caro, Magalotti).

Sul percorso Napoli-Milano alle lettere seguono i volumi realizzati, spesso in bozze. È un fermento inintermesso di attività, che pure si staglia sullo stato d’animo della tristezza e della pazienza: «Ci vuole pazienza», scrive Flora e Croce, quasi in codice ripete: «Ma ci vuol pazienza. Ricordo di aver letto in qualche scrittore tedesco che questa esclamazione è spiccatamente italiana. E vedo che voi ne avete» (lettere del 25 e 26 luglio 1931). Bisogna tener conto che almeno dal 1926 i due corrispondenti sanno di scrivere lettere aperte, nel senso che queste vengono aperte e a volte soppresse dalla censura. Ma l’intonazione rimane alta e tesa. Flora, dinanzi alle crescenti difficoltà che incontra come redattore responsabile, nel 1931 scrive all’amico e maestro considerazioni sulla viltà gratuita dei letterati, sul panico e «irresistibile bisogno di esser servili» che sembrano anticipare le argomentazioni conclusive di un suo celebre articolo del 1943 sul «Corriere della Sera», intitolato Dignità dello scrittore19.
In questa duplice prospettiva, del comune lavoro scientifico e del mutuo diario etico-politico che registra prima il clima di crescente chiusura del regime e poi il tempo della guerra e della “finis Europae”, infine la instabile convalescenza del dopoguerra, il carteggio è scandito da riconoscibili soglie, che evidenziano anche la sempre più stretta familiarità con Croce e con la sua famiglia, man mano che i ranghi si serrano, nel disorientamento generale delle coscienze e dei destini.
Il primo blocco epistolare comprende il periodo 1920-1932, e culmina con la Storia d’Europa, con i viaggi di Croce nel 1930, a Oxford, dove tenne la memorabile relazione Antistoricismo20, e a Budapest, nel 1931, al Convegno Internazionale di metodologia della storia letteraria moderna che inaugurò con le riflessioni illuminanti su Metodologia e storiografia letteraria21. Per Flora, un punto d’arrivo teorico è rappresentato nel 1931 da I miti della parola, che testimonia il particolare accento novatore del suo crocianesimo22, tutto attratto dalla questione della ricezione della parola letteraria, fondatrice dell’immagine e del valore. Se c’è un modello da affiancare al suo breviario di critico è in tal senso la capacità di lettura infinitesimale del Serra. L’estetica di Flora non è un’acustica, come suggeriva il Russo, né solo un “saper udire”, ed anzi la prosa vi occupa un posto importante, lungo la linea che va da Leonardo, fondatore, secondo Flora, della prosa moderna, al multiforme ingegno del Cattaneo. A riprova si legga quanto Flora scrive con giudizio partecipe dell’amico morto prematuramente Raffaello Piccoli: «Esperto d’ogni buon canone nello studio dei testi, sentì ben presto la filologia come un documento per la buona lettura»23. È il medesimo principio ispiratore del lavoro critico-filologico più splendido e duraturo, l’edizione di Tutte le opere del Leopardi che occupa dieci anni, dal 1937 al 1949, della biografia intellettuale di Flora24. E si vada, in queste lettere, ad uno dei rari confronti tra il maestro e il discepolo su un testo contemporaneo, il romanzo Nulla di nuovo sul fronte occidentale del Remarque. Croce lo segnala, appena uscito in Germania nel 1929, a Flora perché lo faccia leggere ad Omodeo, in quanto «essenziale per la rappresentazione della guerra» e giudicandolo un libro che «forse gioverà». Flora ne indica subito, sin troppo analiticamente, l’equivoco strutturale, nella non-congruenza fra racconto e pronuncia diaristica, provocando la risposta pratica e un po’ spazientita di Croce:
Il libro di cui mi parlate non l’ho neppure considerato dal lato artistico e letterario, sul quale mi pare che abbiate ragione. Ma l’ho considerato per l’effetto che sta ottenendo in tutto il mondo, e che potrà giovare, pensando agli spiriti che corrono per tutto il mondo (25 settembre 1929).

Si tratta dunque di un carteggio tematizzato dalla centralità della letteratura e della critica letteraria, dove la parte dell’allievo è vissuta in modo quanto mai tonico e reattivo. Conta sottolineare che Croce percepirà la propria opera sempre «amorevolmente illuminata» dalla interpretazione ed applicazione del Flora. E certo egli tiene in gran conto le argomentazioni e posizioni di quest’ultimo, così attratte dalla contemporaneità: a non dir altro, sull’esempio delle tante pagine critiche e teoriche di Flora Croce può assumere, nella relazione di Oxford, la parola “futurismo” «a simbolo letterario e morale di tutta un’età»25, anche se con diversa, sovrana distanza.
Risulta allora significativa la seconda scansione del carteggio che riveste, sul versante del dialogo critico, particolare interesse. Questa fase arriva al 1940-41, che è la data della grande impresa di Flora, vale a dire l’edizione in tre tomi della Storia della letteratura italiana, dove il Novecento viene trattato da Luciano Nicastro. È un’opera che apparve subito in tutta la sua sconcertante originalità, come risulta dalle curiose pagine, tra ammirazione e aggressiva riduzione, dell’amico e rivale Luigi Russo, e che solo di recente, dopo decenni di oscuramento, comincia ad essere messa in contesto e in rilievo dagli studiosi26. Dalle lettere e dai Taccuini si vede bene l’interesse di Croce, il quale ne legge le bozze, ne costella i margini di osservazioni27, nel medesimo periodo in cui corregge le bozze dell’ultimo tomo della Letteratura della Nuova Italia, che aveva formato i quadri della letteratura otto e novecentesca, ma quasi come tavola sinottica, contro l’idea e l’ipotesi teorica di storia letteraria. Nel 1941 Croce, dopo aver visto la prima parte del primo volume dell’opera dell’amico manifesta l’intenzione di scriverne sulla «Critica» e chiede di averla innanzi per intero in bozze; ma due mesi dopo gli scrive di essersi risolto a «non mettere in rapporto le cose che volevo dire sull’idea di Storia letteraria col vostro libro». È uno spazio di discussione teoretica che rimane aperto, non già come contenzioso, dal momento che la sintonia del discepolo col Maestro, sull’Ufficio della letteratura, per riprendere il titolo della prolusione bolognese del 195328, è totale. Per Flora si tratta piuttosto di una opzione didascalica, come argomenta proprio nelle pagine della Storia della letteratura dedicate a Croce. Là è evidente che il critico sa adoperare il pensiero crociano, pienamente inteso nella straordinaria sintesi di normatività e di flessibilità, per individuare la sua propria autonomia, tanto più aderente a quel pensiero quanto più ne sottolinea il carattere liberatorio ed energetico. Si vuole citare a riprova il passo centrale sulla questione della storia letterarria:
Conforme al suo principio (Croce) ha amato il saggio monografico; ma in senso tutto intimo, ché «la convenienza didascalica e il gusto artistico serbano e debbono serbare la loro piena libertà nell’aggruppare e disporre la trattazione delle opere per partizioni di tempi o di popoli o altre che sieno, e anche di avvicinamenti tra storia della poesia e altre forme di storia in uno stesso libro, ossia in uno stesso organismo letterario, purché, nell’intrinseco, la trattazione della poesia si conformi alla natura di questa e ne rispetti l’autonomia, e in tal significato ideale sia sempre monografica». E del resto, se egli avesse voluto scrivere una di quelle storie miscellanee, chi v’era più erudito di lui? chi v’era che possedesse tante conoscenze da potere scrivere la più unitaria di quelle storie letterarie che egli reputava false29?

L’essenziale è riconoscere – avrebbe argomentato Gianfranco Contini – «che, come scrisse una volta Croce, la critica è tutta buona quando è buona, qualunque essa sia. Per di più, quando essa è buona, di solito essa è la critica intera»30. Con non diverso orientamento, nella Prefazione alla Storia della letteratura nella prima edizione, del 1940, Flora aveva proposto una idea di storia letteraria «che si adegui al rinnovato metodo della filosofia storica, alla nuova estetica e ai più certi risultati della recente filologia». Nello stesso tempo, faceva riferimento alle «tante sue letture […] che inducendo quasi a sillabare uno scrittore ne svelano le nude giunture e ne saggiano la resistenza o la caducità contro il tempo»31, suggerendo così che la sequenza storica si identifica con la serie di atti di lettura che ricompongono, nel lettore, la contemporaneità storiografica della letteratura del passato32.
Ove si torni alla intonazione affettiva del carteggio, esemplarmente unitaria, si vuol aggiungere che nel periodo 1939-40, registrato nei Taccuini come il più tormentoso e segnato da pensieri di morte33, Croce aveva già scritto a Flora dell’intenzione di fare un annuncio sulla «Critica» della Storia della letteratura, ma a condizione di non essere morto o «mentalmente presso a morte». In questa epistola, che occupa il centro del carteggio, e dettata da una forte coscienza letteraria, Croce ricorre ad una similitudine, variazione quanto mai singolare e tenebrosa nella serie di quelle tante immagini di sé sparse nelle pagine non solo immediatamente autobiografiche:
Mi torna il ricordo di un tormento che vidi in un baraccone quando ero ragazzo di nove o dieci anni, in un museo di orrori rappresentati da statue di cera. Un ingegnoso delinquente si sbarazzava l’una dopo l’altra delle mogli o delle amanti non so bene, fasciandole come bambini e, così rese immobili, solleticandole sotto la punta dei piedi. Mi pare che questo facciano di me gli eventi e i procedimenti e le parole dei giorni nostri. Voi mi correggerete: non di me, ma di noi, di tutti; ed è vero, e ci sarebbe della viltà o dell’egoismo a lamentarsi individualmente. Ma io novero gli anni e mi ritrovo nel settantacinquesimo; e, guardando ai giovani o agli ancora giovani, dico alfierianamente: – nel bollore della tua feroce passione, raggio di speme ancor traluce a te; e tu d’altr’occhio quindi le umane cose miri! – Io temo di morire con le parole del morente Pitt sulle labbra: – Povera la mia patria, povera l’Europa, povera la civiltà che abbiamo amata. – (lett. del 7 maggio 1940)

Dove le citazioni storico-letterarie vengono chiamate ad alleggerire quella immagine sinistra di mortale fasciatura, neppur troppo segretamente collegata all’incubo, che pertiene all’intima biografia di Croce, della segregazione del “sepolto vivo”.
Ed è Flora, stavolta, a dover confortare Croce, dopo esserne stato consolato in tante occasioni sia per lettera sia attraverso la lettura delle storie militanti d’Italia e d’Europa e di quelle «in difesa della poesia», aggiungendo: «Ma io non voglio ripetere a Voi quel che da Voi abbiamo appreso» (lett. dell’8 maggio 1940).
Lette e messe in relazione sincronica con carteggi omogenei, queste lettere contribuiscono, con la loro particolare inflessione, a quel vasto regesto diaristico rappresentato dalla rete intertestuale dell’ epistolario crociano. Si confronti ad esempio il passo appena citato della lettera di Croce con quella, assai nota, al Vossler, del 24 febbraio 1941:
In verità io mi sento sempre alacre intellettualmente e non ho da lamentare ancora nessuna screpolatura nel mio corpo. Ma, diceva il Bergson (che abbiamo perduto in questi giorni) che il nostro vero e intero corpo è il mondo; e à ce titre il mio corpo è infermo e dolorante, come quello di tutti gli altri individui-mondo34

E in una lettera a Rudolf Borchardt dello stesso periodo:
Io per fortuna riesco a riempire le mie giornate con un’alacre vita di pensiero e con l’opera del leggere e dello scrivere. Per questa parte non mi sento ancora vecchio. E resisto come posso all’urto spaventoso di possenti forze storiche che non si può prevedere quel che faranno del mondo, cioè quale prossima epoca preparino. Anch’io m’inchino al destino e non esploro l’inesplorabile: ma a patto di pensare e di volere e di fare solo ciò che la voce della mia coscienza mi detta35.

Dinanzi a queste variate rappresentazioni del proprio storico tormento, viene in mente la riflessione di Renato Serra a proposito della scrittura epistolare, secondo la quale la verità, nelle lettere degli uomini di ingegno, è sempre in funzione del destinatario, è “figura”36.
Alla guerra, ai bombardamenti, che allontanano Croce dalla sua biblioteca e privano Flora di parte della sua, subentrerà il periodo post-bellico della ricostruzione. L’ultima stagione di questo carteggio non restituisce però una immagine serena. Il vecchio Croce è dovuto correre in soccorso dell’Italia, ma non vorrebbe «seccare col suo nome», «occupare la scena», si definisce scherzosamente una «santa reliquia». Il fatto è che l’Italia post-fascista della riconversione democratica è stata indotta dalla situazione a invocare la sua presenza di garante, ma questa è isolata all’interno della composita cultura uscita dalla Resistenza: c’è persino posto, in questo quadro, per gli attacchi sconsiderati di Borgese tornato dagli Stati Uniti. Basterà ricordare, del resto, la penosa vicenda accademica che contrappose, al concorso per la cattedra di letteratura italiana all’università di Milano, due studiosi del medesimo schieramento crociano come Flora e Fubini. Quest’ultimo era stato escluso dal concorso nella università di Torino, la sua città, per una ragione sottaciuta ma ben operante: perché, come riferisce indignato Croce «sono troppi gli ebrei in quella facoltà e farebbero lega tra loro» (lett. del 28 giugno 1948).
Flora occuperà a partire dal 1952, a sessantun anni, la cattedra bolognese che era stata istituita dal Ministro Mamiani per il Carducci. Pure, la cronaca assai movimentata di questa fase difficile non modifica l’andamento consueto di un colloquio intellettuale e familiare sempre equanime ed affettuoso. In quella stessa lettera, al discepolo ormai vecchio anche lui, eppure ancora in cerca di un saldo collocamento, Croce scrive di sentirsi «oppresso dalle troppe faccende» dopo vent’anni di solitudine politica, e confida: «Certe volte, vorrei poter piangere, da solo a solo», convocando l’immagine messa a conclusione del Contributo, del pianto del vecchio re Carlo Magno, il quale esclama: Deus si peneuse est ma vie37. L’intertestualità fra autobiografia e registro epistolare conferma, se ce ne fosse bisogno, l’unità profonda della scrittura crociana, nonché la grande prossimità sentimentale tra i due corrispondenti. Né viene incrinato l’asse tematico portante: la critica letteraria, l’organizzazione della cultura, a cui si aggiunge, per Flora, l’esigenza rinnovata di divulgare l’opera di Croce attraverso una antologia dei suoi scritti, indirizzata al «medio lettore» anche fuori d’Italia. E già nelle risposte Croce chiarisce nel 1949 che una antologia non potrà che essere, come difatti sarà quella che inaugura la collana dei Classici Ricciardi38, una auto-antologia: «una simile scelta non si potrebbe fare se non presso di me, con continua consultazione del mio giudizio». A questa opera conclusiva Flora darà un grande rilievo nelle pagine della sua storia letteraria. Ancora una volta si può ammirare la finezza della lettura, la complessità dell’analisi al cospetto di un testo, «ritratto veridico della sua mente e d’ogni sua attività», che riorienta la ricezione di tutta l’opera crociana passata al vaglio di quella ultima esecuzione d’autore, dotata, scrive il critico, di profonda «unità sinfonica dei temi raccolti»39. Questa capacità straordinaria del vecchio filosofo di riportare in nuova luce e di svolgere anche le sue idee più remote, per dirla con Flora «quel che ciascun libro o saggio portava in sé di non esplicito futuro», può essere concretamente verificata in questo carteggio, in occasione del Congresso del Pen Club sulla critica tenutosi a Venezia nel 1949, a cui Croce, su richiesta di Flora, inviò il discorso introduttivo. È una lettera-manifesto che, lungo la traccia dell’itinerario dai primi scrittarelli giovanili alla ripresa del metodo estetico desanctisiano fino alla Poesia del 1936, tiene a ribadire il dato essenziale: essere la Critica disciplina tota nostra, dal De vulgari eloquentia ai trattatisti del Cinquecento «dai nostri acutissimi pensatori e innovatori del Seicento, fino al sommo Vico e più tardi al Foscolo e allo Scalvini e infine a Francesco De Sanctis». Già nel 1942 nella nota intitolata Esemplificazioni critiche di proposizioni estetiche Croce aveva ironizzato sul vezzo provinciale di «un egregio professore» secondo il quale «l’Estetica italiana non era accompagnata da esperienza dell’arte», e aveva invece affermato l’esatto contrario, che cioè «l’Estetica italiana è la sola che sia concresciuta con la critica della poesia, della letteratura, delle arti già nel Vico, insegnante di bella letteratura o di retorica, come allora si diceva»40. Importa inoltre sottolineare che il filosofo riprendeva nella lettera del 1949 il punto capitale dell’antico decisivo volumetto del 1894 sulla Critica letteraria, vale a dire, con De Sanctis, il momento «sacro dell’impressione diretta, fresca e viva dell’opera d’arte, il momento della rievocazione che risponde a quello della creazione, il quale se manca o viene smarrito, tutto è perduto» (lett. dell’ 11 agosto. 1949). È un passo espressivo che illustra bene il posto della letteratura e della critica letteraria nella «gigantesca architettura», secondo il sintagma dovuto al Flora, del pensiero crociano. Non solo. Intendere l’opera d’arte implica la necessaria conoscenza dell’anima umana nelle sue pieghe e nei suoi recessi; la rappresentazione dell’opera, piuttosto compimento che giudizio di essa, ovvero la schlegeliana Darstellung, si connette naturalmente, nella parola letteraria, all’immaginazione narrativa, alla perenne leggibilità e trascrivibilità del mondo, che è poi l’essenza morale dell’umanesimo. Al pari di De Sanctis, il fondatore dell’Estetica non volle mai divenire una «macchina estetica»41. Le pagine da Flora dedicate a Croce nel volume degli Scrittori italiani contemporanei, nel 195242, e subito care al filosofo il quale si sentì riconosciuto nello spirito informatore della sua opera scientifica, sono per questo verso rivelatrici, nel loro carattere partecipe e teso, tuttora difensivo, con atteggiamento simile e diverso rispetto alle battaglie e polemiche con l’anticrocianesimo nel periodo fra le due guerre. «L’opposizione – gli scrive appunto Croce alla fine, a proposito dei nuovi avversari, clericali o comunisti – si è ridotta a quella di Partito politico che è irragionevole e irragionata» (lett. del 18 marzo 1952). E allora, nella prospettiva dell’egemonia culturale, la stessa parabola biografica, geograficamente dispersa, affannosa, di Flora classicista militante, cultore paziente del “sapore massimo” di ogni parola, sembra raffigurare lo spazio residuo dell’umanesimo liberale, ogni volta faticosamente ritagliato in corrispondenza della scalena geometria dei tempi.





NOTE
* Introduzione a Carteggio Croce-Flora. 1920-1952, a cura di E. Mezzetta, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici, ed. Il Mulino, Bologna 2006.^
1 F. Flora, Croce, Milano, Athena, 1927.^
2 F. Flora, Benedetto Croce, in Storia della Letteratura italiana, 5 voll., Milano, Mondadori, 1958, V vol., p. 528.^
3 Lo stesso Flora ha ricordato e ripetuto quanto del pensiero di Croce aveva scritto Rudolph Borchardt: e già Rudolph Borchardt, dichiarandolo uno spirito europeo, scriveva: «Esso ha penetrato e dominato l’Europa nel secolo ventesimo (Milano, Mondadori, 1958, V vol., p. 528) così profondamente come Cicerone nel primo secolo avanti Cristo, Petrarca nel quattordicesimo, Erasmo nel quindicesimo, Bacone nel sedicesimo, Leibniz nel diciassettesimo, Voltaire nel diciottesimo, Goethe nel diciannovesimo. Al pari di lui tutti costoro non furono né sognatori né veggenti né ispirati né predicatori né sofisti né profeti, ma pubblicisti e uomini politici e perciò appartenenti al mondo e precisamente a questo mondo»: Storia della letteratura italiana, vol V, cit., p. 541.^
4 Cfr. ora il carteggio con Croce, Carteggio 1912-1948, 2 voll., a c. di E. Cutinelli Rèndina, Pisa, Edizioni della Normale, 2006.^
5 G. Prezzolini, Benedetto Croce, Napoli, Ricciardi, 1909.^
6 Si ricorre qui al concetto di reciprocità come “bene relazionale”, in M. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Bologna, il Mulino, 1996.^
7 Sui giovani “superatori” di Croce, il filosofo scrisse l’articolo Il «superamento», «La Voce», 2 (1910), n. 31, pp. 325-327; poi in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza, 1914, pp. 129-132.^
8 Cfr. la relazione di C. Reale, Il circolo crociano e Flora: amicizia e libertà intellettuale, in Le carte Flora fra memoria e ricerca, a c. di G. Donnici, F. Iusi, C. Reale, Atti del Convegno- Arcavacata 26-27 novembre 2002, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 109-128.^
9 F. Bucci Margheri, Piccola cronaca Floriana, in Le carte Flora fra memoria e ricerca, cit., pp. 87-102.^
10 Cfr. E. Giammattei, Un testo “da non pubblicare”. Croce, Gentile e il caso Spinazzola (un inedito di Croce), in «L’Acropoli», 6 (2005), pp. 662-672.^
11 Sull’«orrore del perdere tempo» come principio di vita del filosofo, si vedano le pagine di E. Croce, Ricordi familiari, Firenze, Vallecchi, 1962, pp. 6-7.^
12 Dalla testimonianza della figlia Alda, sappiamo che Croce amava citare la poesia di Francesco Gaeta I Cirròpodi, che inizia con i versi «Da apostoli e profeti/ Signor di liberarmi/ ti fo prece […]», in F. Gaeta, Poesie, Bari, Laterza, 1928.^
13 Piacenza, Porta, 1921.^
14 Cfr. la lettera di Croce a Borgese nel luglio 1910 (Arch. Biblioteca Fondazione Croce) e le lettere su Borgese nel carteggio Croce-Vossler 1899-1949, a c. di E. Cutinelli Rèndina, Edizione nazionale delle “Opere di Benedetto Croce”, Napoli, Bibliopolis, 1991: Ad es. la lettera del 2 maggio 1911: «[…] Mi sono tenuto stretto all’articolo da lui (Borgese) scritto, che purtroppo è nuova testimonianza della tendenza a considerare la scienza come una serie di catastrofi e colpi di scena teatrali. Tu sai che io ne ho una visione più prosaica, e la paragono volentieri a quel tale ombrello di cui una volta si rifà la seta sdrucita, un’altra il fusto rotto e una terza il manico smussato; finché diventa nuovo, credendo di restare vecchio. Ma rattoppare, sostituire, rinforzare sono cose faticose; e i giornalisti preferiscono i “tumulti lirici” i “voli turbinosi” (p. 147). E cfr. qui, passim».^
15 G.A. Borgese, Escursione in terre nuove. Visioni e notizie, Milano, Ceschina, 1931. Il saggio è il resoconto del Congresso internazionale di filosofia di Oxford, dove Croce lesse la relazione Antistoricismo, ma Borgese non ne fa cenno.^
16 Sulla figura e rappresentazione del Maestro nella cultura europea cfr. ora G. Steiner, Lessons of the Masters, Harvard University Press, 2003 (al Cap. Maîtres à penser).^
17 «Ma c’è anche in ogni suo scritto una sorta di metodica in atto, assai più utile delle “astratte metodiche dei manuali”»; e qualche pagina prima: «Il Croce è per suo conto un filosofo che si compromette: ha anche lui quella Offenheit che il Kant inculcava e che il Croce ricorda a proposito dell’Herbart»: F. Flora, Croce, cit., pp. 192-194.^
18 Se ne veda il giudizio dato da S. Battaglia, il quale cita sempre con grande attenzione il Flora contemporaneista, in Mitografia del personaggio, Milano, Rizzoli, 1968, almeno pp. 335-336 e p. 366.^
19 F. Flora, Dignità dello scrittore, in «Corriere della Sera», 26 agosto 1943.^
20 Antistoricismo, in «La Critica», 28 (1930), pp. 401-409, poi in Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935, pp. 246-258.^
21 In Pagine sparse, vol. II, Napoli, Ricciardi, 1943, pp. 181-186.^
22 Cfr. L. Russo, Il crocianesimo di Francesco Flora e il suo maschio decadentismo, in La critica letteraria contemporanea, Bari, Laterza, 1954, vol. III Dal Serra agli ermetici, p. 151.^
23 F. Flora, Raffaello Piccoli. Introduzione a R. Piccoli, Poesie, Firenze, Santoni, 1935, p. V.^
24 Cfr. F. Brioschi, Francesco Flora editore di Leopardi, in Le carte Flora fra memoria e ricerca, cit., pp. 159-167.^
25 Cfr. L. Russo, op. cit., al § 6 Il Flora critico «dionisiaco» dei suoi affini e contemporanei, p. 132.^
26 Vedi ora quanto ne scrive U. Olivieri, Tra estetica e storia: la “Storia della letteratura” di Francesco Flora, in Le carte Flora fra memoria e ricerca, cit., pp. 146-157.^
27 Cfr. le lettere di Alda Croce a Flora in parte pubblicate da C. Reale, Il circolo crociano e Flora, cit., pp. 116-117. E nello stesso volume D. Della Terza, A proposito delle carte Flora: letture e annotazioni, pp. 103-108.^
28 F. Flora, L’ufficio delle lettere e il metodo della critica, prolusione tenuta all’Università di Bologna il 10 marzo 1953; poi in Orfismo della parola, Bologna, Cappelli, 1953.^
29 Storia della Letteratura italiana, vol. V, cit., pp. 527-528.^
30 I ferri vecchi e quelli nuovi. Ventuno domande di Renzo Federici a Gianfranco Contini, in G. Contini, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse. Con un ricordo di Aurelio Roncaglia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992, p. 52.^
31 Prefazione a Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1941, p. 7.^
32 Su questo punto si vedano le centrate osservazioni di A. Vallone, F. Flora e il “mito” della parola, in Livelli di critica e prosa. Studi da Baretti a Flora, Modena, Mucchi, 1992, p. 168: «Il problema e le comuni difficoltà, ben avvertite da Croce, di una "storia" della "poesia", è in qualche modo, evitato, se non risolto dal Flora con la considerazione che proprio nel "giudizio estetico e storico è implicito il rapproto stesso dell'età e dei periodi temporali, giacché sarebbe impossibile collocare i poeti, che pur fanno un'opera di concreta università, in un periodo che non fu il loro"».^
33 Su questo punto vale sempre l'analisi di G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna, il Mulino, 1989.^
34 Carteggio Croce-Vossler 1899-1949, cit., p. 213.^
35 Carteggio Croce-Borchardt, a c. di K. A. Lohnne, ^
36 Epistolario di Renato Serra, a c. di L. Ambrosini, G. De Robertis e A. Grilli, Firenze, Le Monnier, 1934, p. 507 (lettera del 20-21 giugno 1914).^
37 «Già al termine dell’altra guerra, nel 1918, […] io sentii il bisogno di raccogliermi, tra malinconia e pensiero dell’avvenire, e nel ricordo mi si levò allora la figura di Carlo magno, nella chiusa della Chanson de Roland, che non può frenare il pianto degli occhi e si tira la barba bianca […] ed esclama “deus si peneuse est ma vie”!»: Agli amici che cercano il “trascendente” (1945), in Contributo alla critica di me stesso, nell’edizione del 1945. Cfr. in proposito, G. Galasso, nella Postfazione del curatore al Contributo alla critica di me stesso, Milano, Adelphi, 1990, a c. di G. Galasso, pp. 124-127.^
38 B. Croce, Filosofia – Poesia – Storia. Pagine tratte da tutte le opere a cura dell’Autore, Milano-Napoli, Ricciardi, 1951. La si veda ora nell’edizione Adelphi (Milano 1996) con Introduzione e apparati di G. Galasso.^
39 «Innanzi di morire il Croce raccolse pagine significative e orientatrici da tutta la sua opera nel volume Filosofia Poesia Storia. Più che un’antologia esso è da considerarsi un ritratto veridico della sua mente e d’ogni sua attività, una specie di saggio che ordina i tratti fondamentali dell’opera crociana, un libro aggiunto agli altri, pur se questo si avvale di scritti già apparsi nei più vari volumi. Il filosofo vede tutta la sua opera nell’ultima e più complessa forma a cui è giunto il suo “storicismo assoluto”, e da quel vertice gli scritti di anni vicini e lontani gli si illuminano e accordano di un nuovo lume e di una nuova armonia. Cosi, mentre la scelta è un richiamo all’intera serie delle opere del Croce, nel cui processo quel che qui si offre apparirà in tutta la sua pienezza e compiutezza, il libro è una guida critica da parte dell’autore. Tutte le sue idee più remote, lette dopo questa sintesi, acquistano un più profondo significato. Quel che ciascun libro o saggio portava in sé di non esplicito futuro nella mente stessa del filosofo che intanto elaborava in sé un’ispirazione di verità, diventa esplicito come premessa indispensabile di più alta conclusione, e se ne avverte il rigoroso destino. Cosi il libro rappresenta l’autore nello stadio più maturo e nella unità più consapevole dei suoi ideali filosofici, storici, morali, politici, letterari, e la coerenza dello stile sigilla la coerenza del sistema: e nell’unità sinfonica dei temi raccolti diventa una premessa indispensabile ad ogni particolare studio del Croce»: Storia della letteratura italiana, vol. V, cit., pp. 528-529.^
40 Esemplificazioni critiche di proposizioni estetiche, in «La Critica», 40 (1942), pp. 113-120, poi in Discorsi di varia filosofia, vol. II, Bari, Laterza, 1945, pp. 53-65.^
41 B. Croce, Prefazione a F. De Sanctis, Saggio sul Petrarca, Bari, Laterza, 1907: «Nessuno più di lui (De Sanctis) concepì ed eseguì la critica della poesia sotto l’aspetto rigorosamente estetico, prescindendo da ogni considerazione estranea; ma ciò non valse a mutarlo in una macchina estetica, in un estetizzante, insensibile a ogni altro interesse della vita»: in Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Bari, Laterza, 1927, II ed. riveduta, p. 248.^
42 F. Flora, Benedetto Croce, in Scrittori italiani contemporanei, Pisa, Nistri Lischi, 1952. E cfr. anche Viaggio nel tempo crociano, in Saggi di poetica moderna, Firenze, D’Anna, 1949.^
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