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La perversa moralità del genocidio nazista tra formazione del consenso e nichilismo
di Giovanni Carossotti
L’impegno intellettuale di Alberto Burgio, che negli ultimi anni si è concretizzato in una serie di importanti pubblicazioni, privilegia quattro tematiche fondamentali: da una parte l’approfondimento continuo dei due autori più cari a Burgio, ovvero Rousseau e Gramsci; quindi l’analisi sistematica del fenomeno del razzismo, attraverso una ricerca di tipo genealogico che, sottolineando la convergenza tra razzismo e modernità, si interroga sull’inquietante diffusione del fenomeno negli ultimi decenni presso le società europee; e, in ultimo, l’attenzione alla recente metamorfosi politica delle società occidentali nelle quali, a parere dell’Autore, gli spazi per un autentico confronto democratico si vanno sempre più restringendo, a favore di una concezione del potere elitistico, manovrato da forze economiche e finanziarie che sfuggono proprio al controllo democratico. Chi ha seguito l’evoluzione di tali studi, non può che notare una loro evidente convergenza, un loro rispondere a un’urgenza teoretica, provocata dalla stessa inquietudine politica e filosofica. Nei confronti di Rousseau e di Gramsci Burgio ha continuato negli anni a pubblicare studi, a rivedere le proprie posizioni, a ricercare nuove sintesi: con riferimento al primo autore, per approfondire la drammatica relazione tra l’aspirazione a un autentico ordine democratico e la valorizzazione dei diritti individuali, ovvero la dialettica tra “volontà generale” e “volontà di tutti”, la cui difficile conciliazione è stata spesso alla base del fallimento dell’esperienze storiche votate all’emancipazione. Una capacità di penetrare il problema senza le tendenze semplificanti che hanno caratterizzato spesso la storiografia degli ultimi decenni, e che ha avuto forse il suo esito definitivo nel saggio Rousseau e gli altri, recensito da chi scrive, a suo tempo, sulla nostra rivista [«L’Acropoli», XIV (2013), pp. 549-556)].
L’interesse per Gramsci si motiva in modo analogo, relativamente alla possibilità di rendere trasparente la relazione tra la sfera politica e l’espressione di autentici interessi generali, gli unici che possono comportare un’emancipazione della classe dei dominati. La tematica dell’«egemonia», la capacità delle «rivoluzioni passive» di conquistare gli stessi proletari, per favorire una deriva politica che finisce poi per penalizzarli e indirizzare il processo storico verso esiti drammatici, rende il pensiero di Gramsci, nella sua sostanziale impostazione contraria a qualsiasi dogmatica, particolarmente attuale; soprattutto nel suo valorizzare il sapere sovrastrutturale, nel quale è in gioco la capacità di acquisire consenso, e che è stato molto spesso mortificato e non compreso nella sua rilevanza dalle forze politiche della sinistra. Riflessioni, quelle di Burgio che, dopo diverse pubblicazioni dedicate a Gramsci susseguitesi negli anni, hanno conosciuto una sistematizzazione nel monumentale Antonio Gramsci. Il sistema in movimento (Derive e Approdi, 2014). Risulta evidente l’intenzione di questi studi di aprire nuovi orizzonti ermeneutici nei confronti della contemporaneità; soprattutto quando Burgio interpreta attraverso la categoria di «rivoluzione passiva» i mutamenti storici conosciuti dalla politica mondiale a partire dal 1989, di chiaro indirizzo conservatore e che hanno visto persino in Europa rimettere in discussione alcuni principi che si ritenevano consustanziali alla natura stessa dello Stato democratico. Nei tempi presenti, i principi cardine di qualsiasi dialettica democratica non rivestono più una capacità egemonica; nella comunicazione politica, ma in quasi tutte le forme di sapere sovrastrutturale, riemergono gli spettri dell’intolleranza, e le ideologie regressive sempre più trovano spazio nelle stesse società europee, senza essere contrastate e senza che presso l’opinione pubblica suscitino le reazioni di rigetto auspicate, eliminando anche quel tabù nei confronti del razzismo che si era imposto quale reazione morale al genocidio perpetrato nel corso della seconda guerra mondiale. Il razzismo, fenomeno tra i più distintivi della modernità, evolutosi paradossalmente in parallelo con la teoria dei diritti universali, è ritornato ad assolvere una significativa funzione politica e a mostrare, nonostante l’infondatezza dei propri assunti, il formidabile dispositivo comunicativo che è in grado di diffondere per ottenere consenso.
Sulla base di queste considerazioni è possibile inquadrare correttamente l’ultimo studio di Burgio (Orgoglio e Genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista, Derive e Approdi, Roma, 2016, pp. 350), in realtà un lavoro in comune con Marina Lalatta Costerbosa, collega di Burgio presso l’Università di Bologna, dove ricopre la cattedra di Filosofia del Diritto. Uno studio preceduto da anni di ricerche, convogliati in convegni e saggi specifici. L’importanza dell’oggetto di questa pubblicazione si evince da sé: la shoah non sarebbe stata possibile senza la collaborazione attiva di centinaia di migliaia di cittadini tedeschi i quali, pur non partecipando direttamente alle uccisioni, si applicarono con particolare impegno per far sì che il meccanismo non solo non si inceppasse, ma potesse svolgersi nella maniera più funzionale possibile. Buona parte della popolazione tedesca, per quanto magari non consapevole di tutti i particolari, era a conoscenza del disegno criminale che si stava attuando; e, in ogni caso, aveva consapevolezza di quanto gli obiettivi politici e culturali del regime nazista fossero in assoluta contraddizione con i principi morali delle singole coscienze individuali, cui buona parte della popolazione era stata educata e che persino il regime valorizzava, sia pure limitandoli alla «razza dei signori». In alcuni casi, come per il progetto eutanasia Aktion T4, il regime, nonostante l’iniziale propaganda, non riuscì a guadagnare il consenso della popolazione, tanto che l’operazione venne portata a termine in maniera sostanzialmente segreta. Inoltre, vi era per qualsiasi cittadino tedesco la possibilità di rifiutarsi di eseguire crimini efferati in contrasto con i propri principi morali; nessuno di coloro che scelse di non eseguire tali azioni subì delle gravi conseguenze (tutt’al più poteva non vedere valorizzata la propria carriera). Eppure, solo una percentuale tra il 10 e il 20% scelse questa possibilità. Le ragioni quindi che permisero a un regime mostruoso di convincere la propria popolazione a convivere con comportamenti criminali di così vasta scala, di tacitare i conflitti morali che pure emersero anche nelle coscienze dei peggiori carnefici, rappresentano un caso estremo di quel fenomeno relativo alla formazione del consenso, del rapporto tra potere politico e opinione pubblica, della rapidità con cui si diffondono ideologie e comportamenti regressivi, che, come abbiamo già detto, sono al centro degli interessi di Burgio. L’obiettivo del volume è dunque quello di indagare le dinamiche proprie di queste coscienze scisse, drammaticamente in bilico tra la consapevolezza del carattere riprovevole del proprio comportamento e la costruzione continua di alibi morali.
Ma Burgio e Costerbosa pongono anche una questione di metodo; anche da questo punto di vista il testo in esame fornisce un decisivo contributo teoretico. Il tema in oggetto vanta, com’è facile immaginare, un numero sterminato di pubblicazioni e di studi, che fanno riferimento ai più diversi ambiti disciplinari: storiografia, diritto, sociologia storica, psicologia sociale, antropologia, psichiatria e psicoanalisi. Ciascuno di questi ambiti disciplinari offre un contributo in qualche modo indispensabile a comprendere il fenomeno, ma che non può mai ritenersi esclusivo. Il rischio di un approccio monodisciplinare rischia sempre di scadere nel determinismo, nelle sue diverse possibili varianti: quella «funzionalistica», che sostiene come, in un contesto totalitario, il comportamento individuale sia in qualche modo condizionato in modo necessitante dall’organizzazione del potere; per cui l’individuo, cresciuto in un orizzonte di senso univoco, non può che eseguire gli ordini ricevuti al pari di una marionetta. La variante «situazionalista» la quale, pure ipotizzando un rapporto di causa ed effetto diretto, stabilisce una relazione in qualche modo obbligata tra il drammatico vissuto individuale e l’esternazione della personalità del carnefice; analoga proposta riduzionista si può individuare nell’ipotesi «culturalistica», in questo caso alla base di uno specifico sonderweg tedesco che però, proprio sul piano dell’analisi storica, si offre ad evidenti contraddizioni. Tutte queste ipotesi, così come il contributo di ciascuna di esse alla interpretazione del fenomeno, sono considerate dai due autori, privilegiando la Costerbosa le analisi relative alla capacità di legittimazione del diritto. Gli stessi Autori fanno però notare come tali analisi colgono sì dei momenti di verità, ma risultano deboli nelle loro conclusioni quando intendono generalizzare le proprie osservazioni, dal momento che non tutti gli individui, a partire dal pari contesto, hanno agito nel medesimo modo; la verifica empirica dà conto di questa differenziazione individuale, del «conflitto morale che lacerò le coscienze dei tedeschi» e che non si lascia uniformare da una teoria univoca («perché, al dunque, proprio queste persone si comportarono così? Perché –nel contesto di una stessa situazione −loro e non altre? E perché altri – pur molto meno numerosi − agirono diversamente?»). Proprio in virtù di tali difficoltà – sostengono gli autori − emerge il contributo irrinunciabile della filosofia, dinamica del pensiero capace di rendere ragione –senza alcuna però presunzione di carattere metodologico − i preziosi dati del campo delle scienze sociali con la problematica della coscienza individuale: «a caratterizzare il suo sguardo è la non delimitazione preliminare dello spazio di rilevanza o del “livello di realtà” da prendere in considerazione, […] una problematica e feconda polivalenza (non univocità) degli strumenti concettuali». I quali «non offrono certezze precostituite, ma nemmeno scontano limitazioni aprioristiche di campo o di prospettiva euristica. […] Grazie […] alla sua modestia (al non pretendere di essere una scienza generatrice di ipotesi “falsificabili”), la filosofia si avventura su un terreno che né la storiografia né gli altri saperi accettano di percorrere: lo spazio della soggettività […] intesa come ciò che dà logica e senso alla vita conscia e inconscia della mente». Come si nota, una concezione per certi versi “debole” della filosofia, ma nello stesso tempo capace di affrontare interrogativi forti, di mostrare un contenuto veritativo irrinunciabile, che impone di rifiutare quell’impostazione – in certi ambiti purtroppo maggioritaria− che vorrebbe la filosofia (ma anche la storia) in qualche modo subordinata ai dati più affidabili delle scienze sociali; un approccio che, non valorizzando e non ritenendo determinante la pratica dell’interpretazione, fatalmente va incontro a ipotesi riduzionistiche.
Potremmo dire che per tutto il suo sviluppo Orgoglio e Genocidio valorizza questo carattere specifico della filosofia, rispettosa degli altri saperi ma forte di una potenzialità ermeneutica che solo essa è in grado di dispiegare, senza la presunzione di affermare alcunché di universalistico. Questo carattere centrale della disciplina filosofica viene a mostrarsi solamente nell’ultimo capitolo, incentrato in particolare sulle riflessioni di Hannah Arendt. Nei cinque, densi, capitoli precedenti vengono passate al vaglio tutte le altre possibili fonti e ambiti disciplinari. La problematica morale dirimente, a partire dalla quale si mettono alla prova le diverse teorie delle scienze sociali, è quella della responsabilità sia dei carnefici, ma anche dei cosiddetti spettatori, coloro cioè che sapevano ma che, pur senza partecipare direttamente ai crimini, vi collaboravano con la loro meticolosità nel portare a termine i compiti professionali che erano stati loro assegnati. Risulta evidente come le ipotesi deterministiche finiscano, magari involontariamente, per giustificare i carnefici, in qualche modo considerando il loro comportamento obbligato sulla base di condizioni pregresse. Da questo punto di vista, importanti sono i tre capitoli curati dalla Costerbosa, che esaminano la questione dal punto di vista del diritto, a partire dalla tradizione del positivismo giuridico, e la sua tendenza a identificare «legalità» con «legittimità»; cui si contrappongono le riflessioni di Karl Radbruch, autore a cui il testo dedica ampio spazio. Radbruch, in base a una drammatica riflessione immediatamente successiva agli anni del nazismo, propone un ritorno alla teoria del «diritto naturale». Radbruch è esplicito nel ritenere irrinunciabile il legame fra «diritto» ed «equità» (sussiste «una contraddizione performativa irricevibile nel sostenere la consistenza di una norma senza associarle una pretesa di correttezza»); il principio da lui sostenuto è quello di «giustizia essenziale», ovvero «il requisito minimo di moralità che una norma, una legge, un istituto, una sentenza deve esibire per potersi dire tale. Essa corrisponde al principio di legalità che comporta non solo la conformità alla legge, la correttezza formale delle norme e della procedura della loro emanazione, ma innanzi tutto la giustizia». In questo modo Radbruch si opponeva alle due principali strategie giustificatorie dei carnefici nazisti, adottate in particolare da Eichmann nel corso del suo processo: il potere assoluto di Hitler da una parte, e il carattere obbligante della legge, ovvero «l’irrilevanza del contenuto del comando nel rintracciare l’essenza dell’obbedienza». Il potere nazista operò in modo astuto secondo queste linee d’interpretazione del diritto, fornendo un alibi, grazie al principio della legalità, ai dilemmi morali vissuti dalle persone coinvolte nei crimini, oppure non coinvolte ma che, pur sapendo, mantennero il loro consenso verso il regime.
Veniamo alle osservazioni conclusive, quelle in cui protagonista diventa l’analisi filosofica. Come abbiamo detto, l’ultimo capitolo è dedicato in particolare alle riflessioni della Arendt e soprattutto – ma non poteva essere altrimenti − la La banalità del male. Potrebbe sembrare una decisione corretta ma scontata, su un lavoro celebre – la cui notorietà esce dai confini della pubblicistica filosofica −; eppure, stante le critiche rivolte ai tempi allo studio della Arendt, ma particolarmente diffuse anche ai nostri giorni, il richiamo risulta nient’affatto prevedibile. Recentemente, nel suo importante studio dedicato agli schwarzenHefte di Heidegger, Donatella di Cesare (cfr. «l’Acropoli», XVI (2015), pp. 549-556) aveva in parte imputato a due tra i concetti più famosi del pensiero della Arendt, quello di «totalitarismo» e quello di «banalità del male», la responsabilità di non cogliere l’unicità dei crimini del nazismo: nel primo caso istituendo un confronto che stemperava il proposito di annientamento razziale; nel secondo mitigando la responsabilità personale dei carnefici e la natura criminale del loro operato. Anche Burgio parte dal problema della «responsabilità», preoccupato come abbiamo visto degli esiti delle posizioni deterministiche. Alla «mappa delle responsabilità» è peraltro dedicato il primo denso capitolo del volume. Burgio però nega la convergenza tra i concetti di «totalitarismo» e di «banalità del male»: se il primo rischia effettivamente di generare un approccio deresponsabilizzante, in quanto l’individuo nel contesto totalitario sembrerebbe completamente spossessato della sua capacità di ragionare autonomamente («tutti gli individui coinvolti sono oggettivamente innocenti»), il tema dello studio originatosi a partire dalla partecipazione al processo Eichmann va inteso in senso opposto, come capace di rilevare l’adesione soggettiva, e dunque la responsabilità morale e giuridica, del carnefice. A condurre la Arendt al superamento della sua prima angosciata conclusione fu Karl Jaspers, il filosofo che con maggior rigore, probabilmente, cercò di indagare le colpe, morali e metafisiche, dei tedeschi per avere voluto o accettato il nazismo. Fu lui a contrastare la Arendt quando riteneva «opinabile la definizione della politica nazista come “colpa criminale”, essendo in gioco delitti inauditi, incomprensibili sul “piano giuridico”». Le parole di Jaspers, citate nel testo, conviene riportarle per intero: «il Suo modo di vedere non mi convince appieno perché una colpa che eccedesse qualsiasi colpa criminale assumerebbe inevitabilmente una forma di “grandezza” –di grandezza satanica − che è tanto estranea alla mia percezione del nazismo quanto lo è il discorso sul “demoniaco” di Hitler e simili». Già nel 1945, in un breve scritto dal significativo titolo Colpa organizzata e responsabilità universale, Arendt aveva iniziato a mutare prospettiva. La «colpa organizzata» si riferisce alla capacità del regime di coinvolgere i cittadini nel proprio progetto criminale; ma tale coinvolgimento verteva su un evidente scambio materiale, dove la complicità veniva corrisposta con vantaggi concreti, mediocre aspirazione di quella parte dell’opinione pubblica “apolitica”. La quale avrebbe avuto tutte le possibilità, intellettuali e pratiche, di rifiutare l’offerta, di non rendersi complice del coinvolgimento morale in azioni omicide. Il non averlo fatto, prefigura una chiara responsabilità, e si rivela indizio di colpevolezza.
Una conferma di tale ipotesi, attraverso un percorso analitico decisamente più elaborato, la fornisce alla Arendt l’osservazione di Eichmann nel corso del famoso processo di Gerusalemme. Egli mette in atto tutta una serie di atti psicologici che rivelano la particolare strategia di una coscienza, perfettamente consapevole dell’enormità delle azioni in gioco, per crearsi degli alibi e deresponsabilizzarsi. Non è possibile fare cenno a tutte le valutazioni offerte dallo studio, ma è importante sottolineare come queste strategie psicologiche permettano di comprendere il tipo di pressione e di contraddittorio morale cui furono sottoposte in quegli anni le coscienze dei tedeschi. Il quadro che ne emerge –e che può essere esteso da Eichmann ad altre personalità che giocarono un ruolo nello sterminio − è quello di un’estrema consapevolezza del conflitto morale in gioco e del carattere dirompente delle azioni alla cui realizzazione si era invitati a collaborare. A cui si aggiunge un processo di parziale rimozione in base al quale, piuttosto che rispondere in un senso o nell’altro alla questione etica, si sceglie di non pensarci, di considerarsi irrilevanti rispetto a chi ha preso le decisioni e se ne è assunto la responsabilità (Hitler ed Himmler innanzitutto). Le motivazioni, le scuse per non confrontarsi con un conflitto intrapsichico di cui si era consapevoli, sono le più diverse: la responsabilità dei capi, appunto; la «coscienziosità», ovvero il dedicarsi con scrupolosità ai propri doveri professionali, seguendo meticolosamente l’ordine dei superiori, sforzandosi di ignorare le finalità effettive del proprio lavoro. Si tratta di un’esperienza di scissione psicologica, in cui si inibisce la propria sensibilità di distinguere tra il bene e il male, senza peraltro arrestare le capacità di analisi razionale; il che spiega l’assoluto scrupolo nell’eseguire gli ordini, senza pensare all’esito materiale di quegli ordini stessi. Burgio fa riferimento a proposito alla nozione di «autoinganno»: una parte della propria coscienza, mente, mentre l’altra ignora di mentire, in virtù delle strategie di difesa psicologica sopra ricordate. Ciò permetteva a questi uomini di vivere una doppia esistenza, di assassini durante lo svolgimento della propria professione, e di sinceri e affettuosi padri di famiglia fra le mura domestiche. Ma questo ignorare la propria coscienza è un atto voluto, è una censura autoimposta che non sottrae affatto il soggetto alle sue responsabilità. Vi sono peraltro alcuni momenti critici (vissuti prima o poi da quasi tutti gli uomini coinvolti in questa tragedia) particolarmente rivelativi; quando Himmler tradisce e ordina la liberazione di moltissimi internati, nella speranza di trattare con gli alleati una resa favorevole, Eichmann si ritrova nel panico. Questo comportamento di Himmler fa saltare infatti lo scudo psicologico che faceva di Eichmann un mero esecutore di ordini, che non portava su di sé la responsabilità attribuita per intero al capo. Segno che la mostruosità del progetto a cui lavorava gli appariva in piena coscienza in tutto il suo carattere aberrante e mostruoso; una colpa personale che è impossibile da cancellare. Questo meccanismo difensivo, la dinamica che conduce «una mente normale […] alle decisioni di Eichmann» e ciò che intende esprimere, senza alcuna intenzione deresponsabilizzante, il concetto di «banalità». La Arendt ha voluto descrivere «la libera scelta per il male estremo da parte di una persona libera e pienamente capace di intendere e di volere. Cioè il mistero della libertà: del suo uso perverso e delle sue possibili conseguenze nichilistiche». Un esito, quello delle irrazionali gesta nichilistiche, che, senza ovviamente voler tracciare impossibili paralleli con l’evento storico più tragico del Novecento, appare sempre più diffondersi nei nostri tempi, e che già Burgio aveva indagate nel suo precedente studio Nonostante Auschwitz. Un’ulteriore dimostrazione dell’attualità e dell’urgenza dei temi affrontati in questo volume.
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