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Il PD e la scissione
di G. G.
Le cronache politiche italiane del nuovo anno sono state indubbiamente riempite dalle vicende del Partito Democratico più che da ogni altro avvenimento, anche di rilievo, contemporaneamente occorso. Ed è tanto comprensibile che sarebbe riuscito sorprendente e incomprensibile se non fosse stato così. Non si è trattato, infatti, soltanto di una vicenda di quelle che possono sempre verificarsi nelle storie di qualsiasi formazione politica. Né si è trattato di una vicenda della solita tradizione scissionistica e divisiva che ha caratterizzato un secolo e mezzo di storia della sinistra di ispirazione socialista in Italia, e che ha sempre dato luogo ad almeno due o tre partiti che si dimostravano tali soprattutto nel senso del noto detto “fratelli, coltelli”, come la massima parte dei commentatori si è affrettata a notare, liquidando così il caso.
Con la scissione del PD è entrato, in effetti, in crisi un esperimento politico di grande importanza non solo nel contesto italiano. Quel partito era nato dal confluire in progetto politico unitario di gruppi e partiti di tradizione diversa. A una forte maggioranza che continuava le tradizioni del vecchio partito comunista e di altre formazioni di impronta socialista si erano unite forze consistenti di tradizione e provenienza democratico-cristiana, nonché gruppi non trascurabili di tradizione liberal-democratica o, generalmente parlando, progressista, e, ancora, gruppetti radicaleggianti di vario tipo.
In questo senso si trattava di un esperimento di grande novità non solo, è bene ripeterlo, nell’ottica italiana. Si trattava di sperimentare la possibilità di dar vita in Italia a una formazione politica non caratterizzata ideologicamente secondo una determinata dottrina o scuola (marxista, cattolica, liberale e così via), ma secondo una ispirazione generale di promozione sociale; di perseguimento di una società libera e aperta quanto moderna e creativa di benessere sociale e di valori etici e sociali; di realizzazione di una comunità politica fortemente partecipata non solo nella sua idea, ma ancor più nel suo concreto, quotidiano svolgimento.
Il nome di partito democratico rispondeva assai bene a questi criteri: e diciamo criteri e non idea, in quanto la pluralità delle ispirazioni che si raccoglievano sotto la sigla democratica era praticabile solo riferendosi a un tipo di partito ideologicamente “leggero”, non vincolato, cioè, a una particolare ortodossia dottrinaria. Tale è, ad esempio, il partito democratico americano che, proprio per queste sue qualità (così come il partito repubblicano sul fronte opposto) ha potuto svolgere una così grande parte nella storia degli Stati Uniti, con echi e riflessi a livello mondiale di grandissimo rilievo.
Beninteso, il caso del partito americano non era meccanicamente riproducibile in Italia (né altrove, per la verità), e non occorre dire il perché. Basti un solo particolare. La convivenza qui di cattolici e non cattolici non è così agevole come in America (o in altri paesi), dove una tale convivenza non ha le tradizioni e il condizionamento storico che il cattolicesimo ha in Italia per la presenza e il peso del Vaticano. E si ha un bel protestare contro una tale affermazione, imputando ad essa di essere il frutto di vieti pregiudizi anticlericali. Basti pensare al posto che il papato e l’episcopato italiano hanno nelle cronache quotidiane dei giornali e di radio e televisione per farsi un’immagine sommaria, ma realistica di ciò che intendiamo dire. A sua volta, tutt’altro che facile era prevedibile che fosse, e tale si è rivelata, la convivenza tra le più autentiche ispirazioni liberal-democratiche e quelle di orientamento cattolico o socialista. E fin qui parliamo di orientamenti ideali e ideologici. Se si passa su altri piani, le difficoltà non potevano che essere addirittura maggiori. Si trattava di associare in uno stesso organismo politico gruppi, e, spesso, consorterie, che godevano, nelle loro precedenti collocazioni di partito, di posizioni di potere e di solidarietà di interessi, non facilmente riproducibili nella nuova casa politica in cui andavano ad abitare. Né poteva dare facilmente frutti migliori la riaggregazione, che non poteva non esserci, di tali gruppi secondo intese con gruppi di altra provenienza politica e di partito.
Un’impresa – insomma – davvero difficile quella della formazione, col PD, non di un nuovo partito, ma di un partito nuovo, un partito di nuovo tipo nella sua proposta sia politica che associativa. E, tuttavia, tra varie traversie e in varii modi, per un buon quindicennio la nuova proposta ha retto, assumendo anche le massime responsabilità di governo, alle sfide di momenti alquanto difficili della vita nazionale, anche se i frutti della sua azione non sono stati particolarmente abbondanti e soddisfacenti, e anche se il suo successo elettorale è stato discontinuo e non ha impedito riflussi, per lo più molto negativi, di forze e posizioni politiche di altro orientamento.
Per di più, la scissione del PD rappresenta una crisi radicale dell’ultima classe politica dirigente – quella facente capo al vecchio partito comunista – sopravvissuta al naufragio di tutte le altre della cosiddetta “prima repubblica”; e ciò non solo ha una certa importanza di per sé, ma concorre ad accentuare in modo grave e in un settore tanto importante dello schieramento politico italiano il frazionamento e la già minima funzionalità di tale schieramento.
Era fatale quella scissione? Noi non lo crediamo. È stata tutta responsabilità di Matteo Renzi? Lo crediamo ancora di meno, per quanto errori e sciocchezze (e certo non sono stati pochi, né irrilevanti) Renzi abbia potuto commettere come segretario del partito e a capo del governo. In realtà, in questi processi politici divisivi non sono, comunque, tanto le responsabilità quel che più importa di individuare e cercare di comprendere. Sono, invece, le prospettive che ne nascono, ed è quel che resta da fare per chi ha subito la scissione.
Lasciamo per il momento da parte la questione delle prospettive, sulle quali a suo tempo non mancheremo di dire il nostro modesto, ma meditato parere. Vorremmo più specificamente porci qui innanzitutto e soprattutto la domanda sul da farsi del PD dopo la scissione, anche a prescindere dal fondamentale problema delle prospettive.
La scissione si è, intanto, dimostrata di portata minore di quel che si poteva credere in base a quanto gli scissionisti dicevano dello stato interno del PD e della sua invivibilità nelle condizioni in cui lo manteneva il modo di gestirlo da parte del segretario Renzi. Gli scissionisti dicono, invero, che altri li raggiungeranno nella loro scelta di separazione dal partito. Può darsi. Dicono pure che essi non vogliono essere designati come scissionisti, bensì come progettisti e fondatori di un nuovo soggetto politico. È comprensibile, ma per il momento (e non si sa quanto potrà durare questo momento) è il fatto divisivo della scissione a caratterizzarli, e il fatto che ad essi si siano uniti alcuni scissionisti da altra formazione politica di sinistra non muta, anzi raddoppia questo carattere divisivo.
Considerando tutto ciò, e le tante altre cose che qui non possono essere richiamate, il da farsi per la grande maggioranza del PD che è rimasta al suo posto dovrebbe essere chiaro. Il da farsi – vogliamo dire – dal punto di vista delle ragioni essenziali del restare insieme, a prescindere dalle inevitabili articolazioni interne di punti di vista e di aspettative, che di per sé, in un’autentica realtà democratica, e in principio, dovrebbero essere sempre positive. E diciamo questo perché anche una ferrea compattezza di comportamento politico non può mai sopperire alla carenza delle ragioni superiori e primarie che giustificano nella realtà storica e nelle sue dimensioni etico-politiche, così come nelle sue prospettive e finalità operative, lo stare insieme. In fondo in fondo, anche la scissione del PD, in ciò che ha di più giustificante, dipende da una certa carenza che in questo senso il partito, in una qualche misura, ha fatto registrare, e che sembra continuare nella grande maggioranza delle reazioni alla scissione. Acuendo, anzi, non inopportunamente questo giudizio, ci si può anche chiedere se il PD, con Renzi e prima di Renzi, sia mai riuscito ad essere davvero e appieno il Partito Democratico del tipo sopra richiamato. E intanto ci si può fare una tale domanda in quanto si ha l’impressione che siano in molti a credere, nel PD e, per così dire, nei suoi dintorni che, invece, l’ipotesi fondativa del PD nel solco delle formazioni da cui nacque sia stata già attuata, sia pure coi limiti sopra accennati, e che sia stato Renzi a deteriorarla e, in ultimo, a farla cadere, oppure, all’opposto, che sia stato di Renzi il merito di averla concretamente attuata.
Sono questi – ci sembra – i quesiti indispensabili e imprescindibili che oggi il PD, i suoi dirigenti, i suoi militanti si debbono porre. È del tutto sicuro che sia sempre valida, oggi più di ieri, l’idea di partenza del partito democratico. L’idea, cioè, della formazione in Italia di una grande forza politica moderna ispirata alla tradizione della liberal-democrazia occidentale nei suoi più alti valori e ideali, al di fuori di cristallizzazioni ideologiche o, meno che mai, di potere; di una grande forza in grado di mostrarsi sempre al passo col dinamismo culturale e sociale proprio dell’Occidente nelle sue migliori espressioni; di una forza politica dal respiro etico-politico così ampio e forte da consentire la convivenza e la cooperazione di componenti anche alquanto diverse fra loro per tradizioni e interessi; l’idea di una forza politica in grado di partecipare vigorosamente alle grandi sfide contemporanee della storia non solo italiana.
Se nel PD dovesse malauguratamente prevalere una qualsiasi convinzione di aver già realizzato un tale partito democratico, questo si rivelerebbe ben altrimenti negativo che la scissione subìta. O, meglio, sarebbe la realtà storica a scindersi da un tale PD e a rifiutare di esserne rappresentata e promossa.
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