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Il Principato Citeriore dalla Restaurazione alla vigilia dell’Unità: profilo di storia politico-istituzionale
di Annamaria Amato
Restaurazione e Monarchia Amministrativa

A tutt’oggi disponiamo di un’ampia e approfondita storiografia che ha ben delineato i caratteri fondamentali dello Stato napoletano a cavallo tra l’esperienza napoleonica e la Restaurazione, anche e soprattutto per ciò che riguarda quella particolare organizzazione politico-istituzionale che è stata la monarchia amministrativa nel Mezzogiorno d’Italia1.
La monarchia amministrativa nel Regno delle due Sicilie è stata per un verso erede dell’assolutismo illuminato e dell’età napoleonica e per un altro vicina alle prassi di governo delle monarchie costituzionali, sopravvivendo – sia pure con una serie di trasformazioni e, in alcune fasi, di involuzioni – sino alla fine del regno borbonico e dunque alla nascita del regno d’Italia2.
All’indomani del Congresso di Vienna, con l’affermazione del principio di legittimità dinastica, uno spirito di accorta conservazione, suggerì agli ambienti monarchici più lungimiranti, di mantenere in vita i progressi amministrativi e civili del periodo precedente, senza tuttavia esaltare eccessivamente la creatività istituzionale dei governi napoleonidi, al fine di far passare la scelta continuista della restaurata monarchia borbonica come una novità. Si trattava in fondo, come ha sottolineato Giuseppe Galasso, di «mantenere l’accrescimento del potere centrale, che quei progressi determinavano e a cui si era già volta la vecchia monarchia assoluta»3. A tal fine furono utilizzati gli «strumenti di amministrazione e di governo che si erano rivelati particolarmente efficaci nell’estendere il controllo e le risorse finanziarie del Regno»4; senza ovviamente tralasciare la necessità, fortemente avvertita nella monarchia restaurata, di «riallacciare un discorso positivo con i ceti che si erano riconosciuti nella Rivoluzione e in Napoleone»5. Questione nodale quest’ultima delle classi dirigenti, soprattutto se consideriamo che nell’età post-napoleonica, accanto alla revanche socio-politica della nobiltà, che tendeva a riaffermarsi a livello centrale, si facevano strada nuove élites sociali: alcune, già emerse nel Decennio, legate alla grande e media possidenza agraria, altre invece, sostanzialmente nuove, composte da professionisti e funzionari, che, a livello periferico, tendevano ad assumere un peso sempre crescente, quando non preminente, in tutte le sfere dell’amministrazione6.
Insomma, la Restaurazione consacra una forma di governo che, basandosi sul primato dell’amministrazione, stabilisce un rapporto per certi versi nuovo, tra la monarchia e i sudditi. Tale rapporto, tuttavia, tende a sclerotizzarsi, diventando ad un certo punto inadeguato ad esprimere le capacità e le potenzialità della società meridionale che aveva iniziato un processo di graduale modernizzazione. E questo non perché si vogliano leggere gli accadimenti di quell’epoca in un’ottica necessariamente teleologica che vede nel Risorgimento e nell’Unità la meta agognata o la soluzione dei problemi del Mezzogiorno (che anzi, per certi aspetti, resteranno immutati), ma perché quel tipo di accentramento amministrativo iniziava a mostrare tutti i suoi limiti. Limiti che erano stati giustamente sottoposti a dure critiche, sia nel tornante rivoluzionario del 1821 sia, ancor di più, in quello del 1848, quando, tra l’altro, furono avanzate proposte concrete di dare una base elettorale alle rappresentanze amministrative locali, che ambivano a diventare classe politica realmente legittimata a governare nel contesto di una monarchia che fosse almeno consultiva. Il fallimento del costituzionalismo quarantottesco napoletano, invece, fece naufragare il Regno delle Due Sicilie in un decennio di assolutismo pressoché “totalizzante”.
In tale prospettiva che guarda al lungo periodo, cercheremo di tracciare alcune linee guida della vita politico-istituzionale del Principato Citeriore o Principato Citra, che mostrano l’esistenza di un contesto sociale molto poco adatto ad accogliere i germi della rivoluzione antiborbonica e filounitaria, come emerse con ogni evidenza, ad esempio, dalla sfortunata vicenda della spedizione di Pisacane del 1857. Quella spedizione segnò, come è noto, il tentativo della componente demo-socialista dei patrioti risorgimentali di liberare il Regno delle due Sicilie, sperando di trovare in quelle terre del Salernitano una popolazione complice, mentre al momento dello sbarco trovarono contadini armati pronti a respingerli.



Una provincia del Regno: il Principato Citeriore

Una considerazione va subito fatta ed è quella relativa all’attuale stato della ricerca su questa provincia del Regno che, al contrario di quella assai ampia di tipo, per dir così, “generalista” cui all’inizio si accennava, risulta lacunosa al fine di ricostruire un quadro d’insieme soddisfacente e ciò ancor più per quanto riguarda le questioni strettamente istituzionali7.
Per ragioni di chiarezza espositiva, converrà in premessa definire i confini geo-amministrativi del Principato Citeriore che, a partire almeno dall’età aragonese, confinava a nord con il Principato Ulteriore e con la Terra di Lavoro, ad ovest con la provincia di Napoli e con il Mar Tirreno, ad est con la Basilicata, e a sud ancora con il mare, occupando una superficie di 1710 miglia quadrate, con una popolazione che, alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, risultava essere di 590.334 abitanti8. In quel Principato era possibile individuare almeno cinque aree fondamentali: la penisola sorrentino-amalfitana, dove predominava il paesaggio del “giardino mediterraneo”; l’Agro sarnese-nocerino, nel quale, accanto ad un’articolata produzione agricola, si era affermata, nella valle dell’Irno, una moderna industria tessile; la piana del Sele ed il Vallo di Diano, dove dominava il sistema cerealicolo-pastorale; e, infine il Cilento, in cui la monocultura ed il paesaggio incolto erano favoriti da un regime proprietario di tipo feudale9.
Se la famosa legge murattiana 8 agosto 180610 aveva diviso il Principato in 3 distretti (Salerno, Bonati e Sala), la successiva legge 1° maggio 181611, all’indomani del ritorno dei Borbone, lo divise in quattro distretti (Salerno, Sala, Campagna e Vallo), riconfermando i 44 circondari, i 165 comuni e i 232 villaggi. A Salerno, capoluogo di provincia, risiedevano l’Intendenza (cioè il principale ufficio del Governo) ed il Consiglio provinciale, organo rappresentativo della provincia; mentre gli altri tre distretti erano sede delle sottointendenze e dei Consigli distrettuali; tutti i comuni, poi, avevano un sindaco assistito da eletti e dal Consiglio Comunale, il cosiddetto Decurionato, composto dai consiglieri o decurioni. Nella classificazione delle Province del Regno, il Principato Citeriore apparteneva alla prima classe e, pertanto, in base a tale classificazione, il suo Consiglio Provinciale era composto da 20 Consiglieri nominati dal Re, il quale li sceglieva all’interno delle liste degli eleggibili, a loro volta proposte dai Decurioni12.
È bene ricordare che l’articolazione che abbiamo sommariamente richiamato, ha una valenza esclusivamente amministrativa, priva cioè di qualsivoglia implicazione politica. Ed è appunto questa la caratteristica delle monarchie restaurate. A fronte cioè di un forte arretramento sul piano costituzionale, con un attacco radicale a tutte le conquiste civili, giuridiche e politiche del periodo rivoluzionario e napoleonico, rimanevano in vita i modelli amministrativi messi a punto dai francesi. Il modello amministrativo alla francese, infatti, consentiva ai sovrani restaurati di contenere le giurisdizioni cetuali e territoriali attraverso il monopolio statale del potere pubblico articolato nell’amministrazione dello Stato. In questo modo, dunque, le componenti centralistico-autoritarie organizzate nell’amministrazione dello Stato, costituivano degli strumenti infallibili di controllo sociale13.
Per certi aspetti, invece, se di dimensione politica si vuol parlare, bisogna dire che essa era ascritta dalle autorità centrali, in maniera piuttosto generica, al solo mondo degli oppositori del regime borbonico. Nel senso che venivano considerati «politicamente sospetti» i cosiddetti «attendibili», cioè appunto gli oppositori, liste dei cui nomi sono pieni gli archivi dei vari capoluoghi di provincia, compilate con un’ampia discrezionalità dalle autorità di polizia, soprattutto in seguito alla circolare del Ministero di Polizia Generale del 18 giugno 1823, successiva, quindi ai falliti moti del 20-21. Detta circolare inculcava alle Intendenze che «nelle materie di alta polizia non soltanto il reato commesso, ma il conato, la semplice esternazione, il discorso intemperante, la riunione bastantemente sospetta, la imprudenza dolosa od abituale, merita pronte misure di refrenazione e di esempio». Una categoria estremamente ampia di reati o di comportamenti ad essi impropriamente assimilati, dunque, che rappresentavano il presupposto per l’instaurazione di una sorta di “Stato di polizia” basato sul sospetto, dove le intendenze, da organi amministrativi, diventavano strumenti esecutivi della tentacolare organizzazione del Ministero di Polizia, garantendo sì la tenuta delle istituzioni, ma determinando al tempo stesso un diffuso malumore, tanto nelle classi dirigenti quanto nella popolazione.
Lo stesso Consiglio Provinciale, che pure era un organo rappresentativo, non svolgeva alcuna funzione di tipo politico ed il linguaggio utilizzato negli atti e nei resoconti del consiglio stesso denotano chiaramente un ruolo che progressivamente veniva subordinato al potere centrale. Il Consiglio, infatti, a differenza del ruolo svolto in età napoleonica e nella prima fase della restaurazione borbonica (quando cioè aveva assunto dei compiti sia pure latamente consultivi), a partire dalla svolta reazionaria post 1821, ma ancor più in seguito a quella successiva al 1848, non delibera, non approva, non propone, ma “chiede”, quando non “implora” al Sovrano l’approvazione dei singoli provvedimenti, nei sempre più angusti ambiti di competenza. Infatti, da un ruolo conoscitivo attivo richiesto ai Consigli dalla circolare ministeriale del 24 settembre 1808, su un’ampia gamma di materie (a partire dalla situazione dell’economia nel suo complesso, della situazione scolastica e culturale in generale, di quella demografica, di quella della efficienza amministrativa, ecc..), si passa con la legge 12 dicembre 1816, ad una competenza solo sulle questioni relative a pochi ambiti, come l’esame dei voti dei consigli distrettuali, la ripartizione delle contribuzioni, il reperimento e la destinazione dei fondi delle opere pubbliche provinciali o, in generale, provvedimenti di natura fiscale straordinari. L’unico caso in cui la legge prevedeva che il Consiglio potesse esprimere un voto di natura, per dir così, politica, era quello relativo al parere sullo stato della provincia e dell’amministrazione pubblica, particolarmente sulla condotta e sulla opinione generale dei pubblici funzionari, proponendo i mezzi per apportare eventuali miglioramenti. Pertanto, i verbali del Consiglio Provinciale di Principato Citeriore tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, così come la maggior parte dei verbali delle altre province del Regno, appaiono estremamente monotoni e privi di interesse da un punto di vista tanto della storia generale, quanto della storia politico-istituzionale. Essi infatti, ci descrivono un organo asfittico, incapace di assumere una posizione che desse sostanza all’ultima prerogativa che abbiamo richiamato; così come, d’altra parte, il complessivo livello delle questioni affrontate ed il tenore dei voti fatti al Governo, inducono a ritenere che il Consiglio fosse del tutto omologato al formalismo burocratico prescritto dalla legge14.



Il contesto sociale attraverso i documenti ufficiali

L’aspetto più interessante degli atti provenienti dal Consiglio provinciale del Principato (così come un po’ di tutti i documenti relativi agli organi amministrativi dello stesso) è quello che ci consente di ricostruire la natura socio-politica dei territori in questione. Nel senso che, attraverso gli organismi amministrativi periferici, si formavano e si affermavano le élites dirigenti, la cui eleggibilità era basata prevalentemente sul censo e dunque, tendenzialmente borghese, là dove, beninteso, per «eligibili», erano intesi coloro che avevano i requisiti per essere nominati dalle competenti autorità statali, proposti per terna dai decurioni. Osservando gli «eligibili» della provincia salernitana, da alcuni studi di storia locale15 emerge con chiarezza, come, dagli anni Trenta in poi, si assiste ad una vera rivoluzione a danno della nobiltà e a tutto vantaggio sia di una borghesia di origine agraria, fortemente connotata professionalmente, sia di una nascente imprenditoria commerciale, sia infine di un gruppo di aspiranti funzionari pubblici e soprattutto di impiegati, che sempre più premevano per entrare nell’amministrazione dello Stato, al fine così di acquisire il ruolo di “notabili”. A tal proposito, risulta estremamente rappresentativo un rapporto sullo stato morale della Provincia salernitana del 1849 redatto dal Procuratore Generale della Gran Corte di Principato Citra, in risposta ad una richiesta di descrizione della situazione locale sollecitata dal Ministro Segretario di Stato. Il tono complessivo del documento descrive una realtà (soprattutto per quanto riguardava i distretti di Vallo, Sala e Campagna) piuttosto depressa relativamente al livello culturale, all’educazione religiosa e a quello che il Procuratore denunciava come la prevalenza dello «spirito di parte», quel sentimento cioè che, «tenendo disuniti gli animi, non permette loro alcun cordiale consorzio, alcuna trasfusione di mutua e vera civiltà»16. Queste annotazioni finali, fanno riflettere su di una tematica complessa che ci induce a inserire i comportamenti descritti in un tessuto sociale dove si registra chiaramente una sostanziale assenza di “senso civico”. Ma la parte più interessante è quella relativa ai giudizi sull’amministrazione civile e giudiziaria che, a detta del Procuratore, era letteralmente assediata dall’appetito di coloro che ambivano ad entrarvi, tanto che si sentiva di poter dire che la «irreprensibile avidità di impieghi e di cariche», poteva additarsi come «la piaga cancerosa di questa provincia e forse la cancrena generale del Regno». Le pressioni per ottenere incarichi di ogni tipo erano tali che, se soddisfatte, avrebbero reso «il numero degli amministratori maggiore degli amministrati» e, concludeva lucidamente, «la conseguenza di sì smodate tendenze è fatale, poiché fissa la credenza che non si possa vivere che col pane del governo». L’amministrazione comunale poi era pervasa da un profondo sistema di raccomandazioni a favore «dei più astuti tra gli avidi brigatori» che ambivano ad occupare le varie cariche comunali, complici gli stessi sindaci che li imponevano come candidati da inserire nelle terne ai vari decurionati. Questi ultimi, poi trasmettevano i nominativi degli “eligibili” alle sottointendenze e al consigliere distrettuale, il quale automaticamente e senza effettuare le dovute scremature, trasferiva le liste all’Intendente. Insomma, concludeva il Procuratore, «una semplice conoscenza burocratica, una raccomandazione, […erano] sufficienti all’elezione»17. Queste considerazioni, in definitiva, ci fanno cogliere una realtà piuttosto difficile da classificare in maniera uniforme e da fotografare nel suo complesso, soprattutto rispetto alla provenienza sociale degli amministratori locali, o per meglio dire della burocrazia degli uffici, la cui rispondenza ai parametri imposti dal centro, in molti casi, sfuggiva anche al controllo dei vertici di Governo e che potremmo definire un ceto medio allo stato nascente. Sembrerebbe dunque confermato un trend che già il Blanch, nelle poche ma densissime pagine scritte nell’ottobre del 1822 sul Regno di Napoli, aveva rilevato, sostenendo che dopo il decennio murattiano «la classe moyenne avait beaucoup gagné par l’acquisition des biens ecclésiastiques, par les carrières militaires, judiciaires et administratives qui lui avaient été ouvertes et dans lesquelles elle acqérait de la fortune, de la considération et de l’influence»18.
Come è noto, il centro gerarchico della amministrazione civile, che fungeva da tramite anche politico con il Ministero degli Interni, era l’Intendenza e l’Intendente di nomina regia, rappresentava a livello provinciale l’autorità più potente e temuta a causa degli straordinari poteri di controllo e di repressione che esercitava19. Egli, in effetti, era incaricato dell’amministrazione civile, finanziaria e di alta polizia; era subordinato, al ministero dell’Interno, ma in corrispondenza con tutti gli altri dicasteri, insomma, rappresentava la vera cerniera tra il centro e la periferia, riuscendo così ad esercitare «un controllo sulla vita amministrativa provinciale e comunale quale nessuna magistratura di antico regime aveva mai potuto effettuare»20.
Incrociando le fonti archivistiche provenienti dalle Intendenze, con quelle del Ministero degli Interni e soprattutto con quelle di Polizia è possibile così recuperare un gran numero di informazioni sulla situazione generale, anche politica, delle province. Nel Principato Citeriore, sul finire degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, numerose erano le lamentele sulla scarsa efficienza dell’intendenza salernitana21.
Un cambiamento radicale si ebbe nel 1855, quando fu nominato intendente Luigi Aiossa22, ex intendente a Bari e successivamente distintosi per il suo ruolo attivo nell’istruzione dei processi che seguirono lo sbarco a Sapri e nella spirale repressiva successiva all’impresa pisacaniana. Sin dalla sua nomina, salutata con entusiasmo da un gran numero di funzionari, l’Aiossa, si impegnò nel mettere a punto una stretta reazionaria del tutto nuova, organizzata scientificamente attraverso l’istituzione dell’ufficio di gabinetto dove convergevano tutti i documenti ufficiali redatti dalle amministrazioni periferiche sia civili che giudiziarie, relativi, tra l’altro, agli «attendibili politici», agli affari politici, allo spirito pubblico, ecc.
Come emerge da molte delle periodiche relazioni provenienti dai responsabili delle amministrazioni periferiche, le autorità erano costantemente impegnate nel vigilare, oltre che sulle opinioni politiche, sulla percezione che il popolo aveva dell’andamento del Governo Reale e della amministrazione comunale, così come sulla devozione al sovrano, sulla situazione degli studenti, spesso additati tra i più pericolosi «attendibili», e sul comportamento degli impiegati e dei militari dimessi, anch’essi potenziali avversari politici. Nel complesso, nei documenti relativi agli anni quaranta/cinquanta, all’indomani, insomma delle vicende quarantottesche, sebbene talvolta il Principato Citra venisse tacciato di essere «ben cognito per le sfrenatezze politiche in tutti i tempi»23, ricorrono spesso considerazioni rassicuranti sullo stato politico della provincia che – per citare una relazione dell’Intendente – «si osserva piuttosto soddisfacente in generale e come puossesi giudicare dalle apparenze, non essendo presumibile che tutti i non pochi traviati sieno capaci di una resipiscenza, e con particolarità nel distretto di Vallo, che abbonda di uomini riscaldati, fra i quali i più perfidi appartengono all’attendibilissimo Cilento»24. Insomma, malgrado la presenza di “teste calde”, la stabilità delle istituzioni, grazie al capillare controllo di Polizia del territorio, non sembrava essere a rischio, anche perché «la generalità [dei cittadini] – leggiamo in un altro rapporto – non conosce neppure la parola politica» e, per di più, quei «pochi letterati» presenti nei distretti, potevano «influire poco sulla pubblica opinione, la quale è interamente passiva»25.
La figura dell’Intendente, insomma, chiudeva il cerchio di un sistema amministrativo che, per garantire in primo luogo l’efficienza fiscale e tributaria dello Stato, si era trasformato, per dirla con il Blanch, in «una tromba aspirante le sostanze pubbliche», che però impediva «la formazione dello spirito pubblico e delle iniziative locali», separando «il potere dalla società e rende[ndo] interessati alla propria esistenza soltanto i suoi agenti, i quali non hanno la forza morale e non possono appoggiare il governo nelle disgrazie, perché la sua debolezza è anche la loro»26.
Questo il contesto politico-istituzionale nel quale si consuma la tragica esperienza dell’idealista Pisacane, che rende indispensabile al governo una ulteriore svolta reazionaria, ancor più dura proprio nel Principato Citeriore, teatro dello sbarco, l’ultima tuttavia del regime borbonico che, di lì a qualche anno, avrebbe ceduto alla più fortunata impresa del realista Garibaldi.











NOTE
1 Per una prima dettagliata ricognizione bibliografica sulle questioni storico-istituzionali, cfr. A. SPAGNOLETTI, Storia del Regno delle due Sicilie, Bologna, Il Mulino, 1997, in particolare pp. 325-328.^
2 R. FEOLA, La Monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Due Sicilie, Napoli, Jovene, 1984 e sugli altri Stati italiani, cfr. C. Ghisalberti, Dall’antico regime al 1848, Bari, Laterza, 1974.^
3 G. GALASSO, Potere e istituzioni in Italia. Dalla caduta dell’Impero romano ad oggi, Torino, Einaudi, 1974, p. 170.^
4 Ibidem.^
5 Ibidem.^
6 Cfr., G. ALIBERTI, Lo Stato Postfeudale. Burocrazie governanti ed Elites Locali nel Mezzogiorno prima e dopo l’Unità, Roma, Edizioni Universitarie, 1999, in particolare pp. 51-85.^
7 Basti pensare che la raccolta degli Atti del Convegno di alcuni decenni addietro Salerno e il Principato Citra nell’età moderna (secoli XVI-XIX), risulta carente rispetto al contesto storico-istituzionale. Cfr. F. SOFIA (a cura di), Salerno e il Principato Citra nell’età moderna, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987. Più ricca di spunti sotto il profilo istituzionale, appare invece la raccolta degli atti del Convegno di Salerno del 14-16 maggio 1991, pubblicati dall’Archivio di Stato di Salerno con il titolo Il Principato Citeriore tra Ancient Régime e conquista francese: il mutamento di una realtà periferica del Regno di Napoli, a cura di E. Granito, M. Schiavino e G. Foscari, Salerno, editore 1991, che tuttavia costituisce solo la premessa cronologicamente parlando, del discorso che qui intendiamo affrontare.^
8 G. DE LUCA, L’Italia meridionale o L’Antico Reame delle Due Sicilie. Descrizione geografica, storica, amministrativa, Napoli, Stabilimento tipografico dei classici italiani, 1860, p. 307. Per una ricostruzione storica complessiva della enucleazione dei centri provinciali campani in età moderna (Terra del Lavoro, Principato Citeriore e Principato Ulteriore), cfr. il classico G.M. GALANTI, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, a cura di F. Assante e D. Demarco, Napoli, ESI, 1969, voll. I e II. Per alcune puntualizzazioni sulla demografia del Principato, cfr. G. MOTTOLA, F. SOFIA, F. TIMPANO, Prime note sulla demografia di Principato Citra (1815-1858), in F. SOFIA (a cura di), op. cit., pp. 193-214.^
9 Cfr., A. MUSI, Il Principato Citeriore dal 1266 al 1861, in AA.VV., Storia del Mezzogiorno, dir. da G. Galasso, vol. V, Le province del Mezzogiorno, Roma-Napoli, Edizioni del Sole, 1985, pp. 237 sgg. e, più di recente, una breve sintesi in ID., La Campania. Storia sociale e politica, Napoli, Guida, 2006, pp. 57-64.^
10 Si tratta della legge n. 132 sulla divisione ed amministrazione delle provincie del regno, promulgata da Giuseppe Napoleone ed il cui Titolo I°, all’art. 1, così recitava: Il territorio del regno di Napoli è diviso in tredici provincie, come segue: Napoli, i tre Abruzzi, Terra di Lavoro, Principato citeriore, Principato ulteriore, Capitanata e contado di Molise, terra di Bari, terra di Otranto, Basilicata, Calabria citeriore, e Calabria ulteriore. Le loro capitali, per l’amministrazione, sono: Napoli, Teramo, Aquila, Chieti, S. Maria, Salerno, Avellino, Foggia, Bari, Lecce, Potenza, Cosenza, e Monteleone.^
11 Il decreto del Regno delle Due Sicilie 1 maggio 1816 n. 360, la Legge riguardante la circoscrizione amministrativa delle Provincie dei Reali Domini di qua del Faro, aggiornò la circoscrizione amministrativa dei comuni dell’intero Regno delle due Sicilie e, pur raccogliendo in toto l’organizzazione napoleonica, apportava lievi modifiche elevando il numero delle province a quindici e suddivideva i comuni in tre classi, in base al numero degli abitanti.^
12 Sull’organizzazione politico-amministrativa del Regno delle Due Sicilie, fondamentale rimane G. LANDI, Istituzioni di diritto pubblico del Regno delle Due Sicilie (1815-1861), voll. III. Milano, Giuffrè, 1977. Cfr. in particolare il cap. IV, vol. II, interamente dedicato all’amministrazione civile.^
13 G. ASTUTO, Le istituzioni politiche italiane. Da Cavour al dibattito contemporaneo, Roma, Carocci 2016, p. 30.^
14 Facciamo qui riferimento agli Atti del Consiglio Provinciale presenti nell’Archivio di Stato di Napoli (ASN), Ministero degli Affari Interni, II inventario, Atti del Consiglio Provinciale, Fascio 4058 (Principato Citra dal 1838 al 1851)^
15 Cfr., R. PARRELLA, Notabili a Salerno prima e dopo l’Unità, Roma, E-doxa, 2003 e Id., A metà del guado. Libertà e democrazia nel Mezzogiorno contemporaneo (1806-1960), Salerno, Plectica, 2009.^
16 ASN, Gabinetto di Polizia,Ministero di Grazia e Giustizia, f.s. 5342, Il Procuratore Generale della Gran Corte di Principato Citra Aniello Ferrara al Ministro Segretario di Stato, s.d. (ma sicuramente del 1848).^
17 Ivi.^
18 Si trattava di un fenomeno di grande importanza sociale, considerando che: “les bases de l’ancienne monarchie, déplacées en 1799, étaient complètement dénaturée ou détruites en 1815” L. Blanch, Mémoire sur le Royaume de Naples, in Scritti storici, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1945, Vol. II, p. 272-273.^
19Come è noto l’Intendenza fu una creazione del sistema amministrativo napoleonico, che riorganizzò il rapporto centro-periferia, proprio attraverso l’Intendente. Cfr. A. DE MARTINO, La nascita delle Intendenze. Problemi dell’amministrazione nel Regno di Napoli, 1806-1815, Napoli, Jovene, 1984. Per l’intero quadro italiano cfr. C. GHISALBERTI, Contributi alla storia delle amministrazioni preunitarie, Milano, Giuffrè, 1963 e, più recentemente, M. MERIGGI, Gli Stati italiani prima dell’unità. Una storia istituzionale, Bologna, Il Mulino, 2002.^
20 A. SPAGNOLETTI, op. cit., p. 146.^
21 Cfr. alcuni documenti di questo tenore in Archivio di Stato di Salerno (ASS), Intendenza, Gabinetto, Affari politici, busta (b) 95, fascicolo (f) 6.^
22 Cfr. P. VILLANI, Aiossa Luigi in Dizionario biografico degli italiani, ad vocem.^
23 ASN, Ministero della Polizia Generale, Gabinetto, f. 981, Il Commissario della Polizia Generale al Ministro, Napoli 14 marzo 1853.^
24 ASS, Intendenza, Gabinetto, Affari Politici, b 95, f 5. L’intendente al Prefetto di Polizia, Salerno 16 agosto 1849.^
25 ASN, Dicastero dell’Interno, Alta Polizia, f. 68, L’Intendente di Salerno al Ministro, dicembre 1853.^
26 L. BLANCH, Luigi de’ Medici, in Id., op. cit., p. 114.^
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