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Dopo il 4 dicembre: esito del referendum e partito democratico
di Adolfo Battaglia - Paolo Soddu
Che cosa sarebbe stato il mondo dopo gli otto anni di Obama era possibile pensarlo, e in qualche misura le previsioni funzionarono. È impossibile invece fare previsioni sulla condizione in cui si troverà il mondo dopo gli anni di Trump. A parte tutto il resto – che è moltissimo, come si sa – col nuovo presidente americano è stato alterato un principio di fondo della civiltà politica occidentale: quello di istituzioni fondate sui convincimenti politici formatisi in un popolo. Negli Stati Uniti di Trump la ricerca di un consenso convinto è stata infatti sostituita ieri da un insieme di allettamenti elementari e tecnologie sofisticate. Ne è risultato vittorioso, coerentemente, un leader che non ha espresso concezioni politiche ma essenzialmente posizioni ideologiche più o meno rozze e tesi conservatrici innestate su grandi interessi. La democrazia americana, che è forte, ha avuto un colpo: ma resisterà certo anche a questa bufera, che appartiene dopo tutto al modello dell’alternanza.
Dopo gli Stati Uniti un fenomeno di marginalizzazione della politica è intervenuto anche nella democrazia italiana, che molto forte non è. Una parte rilevante della percentuale di voti ottenuti dal No nel referendum è da considerare determinata, infatti, non da pensieri sulle riforme costituzionali ma da un moto di avversione personale al Presidente del Consiglio. Si è votato contro di lui non per la valutazione della sua politica ma per il sentimento di rifiuto generato dalla sua facies: i suoi modi, i suoi toni, la sua figura. E anche per l’introduzione di questi elementi distorcenti il referendum ha avuto effetti detonanti, imprevedibili ed imprevisti. È generale la convinzione che quel voto abbia concluso un periodo e aperto una nuova fase della politica italiana.
Se si guarda il cammino percorso dalla Repubblica dopo la fine del sistema dei partiti, si può concludere che, in fondo, pur con varietà di soluzioni, il cammino è stato univoco. Prima con la dominante presenza berlusconiana di centro-destra, poi con le maggioranze di centro-sinistra, il cammino della Repubblica sembrava indirizzato verso una stabilizzazione moderna: l’alternanza di governo fondata sul maggioritarismo, usuale nelle democrazie europee.
Il risultato del referendum ha invertito questo percorso. Sono state sconfitte le forze che lo avevano sostenuto. Si è realizzato un rivoluzionario salto all’indietro, tornando in sostanza, al modello della prima Repubblica: proporzionalismo e, inevitabilmente, coalizioni disparate di forze differenti. Sconcertante è in particolare l’errore compiuto dalla sinistra Pd, da sempre contraria (e spesso per la verità improvvidamente) a salvaguardare la purezza della forza di sinistra rispetto ad ogni commistione. Rispetto ad un sistema che avrebbe garantito governi composti e caratterizzati univocamente dal partito della sinistra (ovvero dal partito alternativo alla destra) essa ha preferito dirigersi verso un assetto della lotta politica che obbligherebbe ai sempre difficili compromessi delle coalizioni parlamentari. Questo deriva forse dall’insufficiente analisi di tutto il Partito Democratico – a cominciare dal Bersani-premier post elezioni 2013 – circa la natura del Movimento 5 Stelle. In effetti il Pd non è ancora riuscito ad identificare il suo populismo, e la sua negazione della democrazia rappresentativa, come il maggiore pericolo di adulterazione del tessuto democratico del paese, ben più del leghismo scamiciato di Salvini.
Non è egualmente disconoscibile l’errore compiuto dal Presidente del Consiglio all’inizio della campagna referendaria, quando identificò l’approvazione della riforma con l’assenso alla sua leadership politica. Si operava così un trasferimento delle ragione di voto dal terreno della riforma costituzionale a quello della condizione politica sociale, che non poteva non produrre effetti negativi. È massiccio il senso di malessere che domina l’Italia come quasi tutte le nazioni europee: l’insofferenza per il fenomeno migratorio, la riduzione del reddito reale di molte famiglie, i larghi timori per il futuro dei figli, ecc. ecc. In breve, il sentimento di una perdita in confronto alle attese e alle realizzazioni della seconda metà del Novecento. D’altra parte, l’errore di Renzi diveniva maggiore perché cadeva sulla struttura storica profonda del paese che è di segno conservatore: da sempre poco incline all’opera di riforma e costantemente diffidente di essa. Se c’è un aspetto che Renzi ha sottovalutato è l’atteggiamento turbato e sospettoso delle culture maggioritarie del paese di fronte alle esigenze di riforma.
Naturalmente si può giudicare la fase ormai conclusa in un modo o in un altro. Resta però il fatto che l’innovazione di assetti economico-sociali disfunzionali, il tentativo di riforma costituzionale, l’ingresso sulla scena di una nuova classe politica, avevano inserito nella nostra vita pubblica elementi che non vi si riscontravano da gran tempo. Di fronte ai grandi problemi di stanchezza e di deficienza del complesso istituzioni-società, un approccio strutturale, buono o meno buono che fosse, era stato espresso. E il Governo Renzi aveva fornito prime risposte riformatrici. Il paese, nel complesso, non ha apprezzato. Dal voto 60-40 non può non derivare allora qualche valutazione più generale sulla condizione italiana.
Era ed è correttissimo, ovviamente, rimediare all’arretratezza delle istituzioni, del mercato del lavoro, della scuola, della condizione civile di uomini e donne. Ma in un paese conservatore l’opera di riforma deve essere graduata, tempestivamente introdotta ed efficacemente motivata. Non è andata così. L’insieme dell’opera del Governo Renzi ha finito col provocare una reazione della struttura che ha accomunato i reazionari e i riformisti antipatizzanti, gli europeisti e i nazionalisti, i clericali e i laicisti. Quello di Renzi non è stato affatto un cattivo governo. Ma egli è stato immemore delle cosiddette “dure repliche” che la storia ha inflitto ai riformatori in Italia. Con tutti i costi, si capisce, che può produrre una condizione adolescenziale del paese.
In tal senso può dirsi che, mutate le cose da mutare, l’esito del referendum presenta affinità con quanto avvenne col Governo di centrosinistra all’inizio degli anni ’60, che era fortemente innovatore. Ed ha anche qualche affinità, fatte tutte le differenze di tempo e di protagonisti, col tentativo di soluzione della crisi italiana che portò, alla fine degli anni ’70 al tentativo di solidarietà nazionale conclusosi con la tragedia di Aldo Moro. Ancor prima, se si guarda
alla realtà effettuale delle cose, c’è qualche affinità con la stessa esperienza di De Gasperi, abbattuto nel ’53 tanto dalla legge maggioritaria quanto, e forse soprattutto, dalla riforma agraria, dall’intervento straordinario nel Mezzogiorno, dalla liberalizzazione degli scambi commerciali, dalla riforma fiscale: cioè dall’incisiva azione riformatrice che contrassegnò l’ultimo triennio della sua azione di governo. L’insuccesso di Renzi si pone così, nella scia davvero non spregevole delle sconfitte dei riformatori italiani; anche se in verità è la prima volta dal dopoguerra che si può partire da un consistente 40% di consenso a riformatori proclamatisi e presentatisi come tali.
L’esito del referendum, come si diceva, ha chiuso una fase e ne ha aperta un’altra. Ciò significa che non si parlerà più per parecchio tempo di riforme costituzionali, di sistema maggioritario, di bipolarismo politico. Il nostro sistema politico-istituzionale torna stabilmente ad essere anomalo in Europa. Un tempo lo è stato per le due forze che lo dominavano, l’una comunista, l’altra cattolica. Adesso lo resta perché rifiuta il suo adeguamento al modello delle democrazie contemporanee.
In questa condizione, il problema cruciale che si pone al partito protagonista del passato triennio è quello delle vie e dei modi per ripartire. Il nuovo cammino del PD non sarà facile per un insieme di ragioni. Gli occorrerebbe che non fossero più contrastati dal suo interno i caratteri moderni che ha assunto, sia pure imperfettamente, col superamento del partito ideologico di massa. Gli sarebbe necessario tornare a riflettere, in un grande dialogo interno che superasse le strettoie del personalismo, sui grandi mutamenti culturali e strutturali da cui le società sono state ovunque segnate. Gli servirebbe darsi un programma di interventi riformatori scadenzati nel tempo che garantisca di fronte alle incertezze. Infine deve fare presto i conti con le questioni rimaste sul tappeto: il sistema elettorale, il rapporto con il Governo Gentiloni, la scelta della posizione rispetto alle altre forze in campo. Con tutta evidenza sarà decisivo il rapporto tra il Governo di Gentiloni e il partito di Renzi: e prescindere qui dall’orientamento del Presidente della Repubblica in materia di scioglimento delle Camere potrebbe risultare mortale per il Pd.
Occorrerebbe al contrario che arrivasse alle nuove elezioni avendo recuperato per intero la sua capacità propositiva, aggiornato il suo programma, integrato la sua classe politica. Sarebbe importante che il suo segretario riuscisse a coinvolgere la sinistra nella identificazione del nazional-populismo grillino come un fenomeno pericoloso per la democrazia. L’onda populista percorre l’intera politica occidentale, quasi riecheggiando quell’onda fascista da cui fu coperta l’Europa, con la sola eccezione della Gran Bretagna, tra gli anni ’20 e ’40 del Novecento. Il nazional-populismo costituisce oggi elemento cruciale della lotta politica europea, con una incidenza e un’attualità assai maggiori delle astratte tesi economicistiche riproposte da poco credibili e poco credute sinistre (anche Pisapia?). È su questa novità che può, forse, ritrovarsi nel Partito Democratico quella unità che è sempre migliore del suo frazionamento e della sua scissione. Anche la questione del rapporto fra il centrosinistra e il centrodestra, che portò al patto del Nazareno, è assorbita dallo schieramento in difesa della democrazia parlamentare contro le scorciatoie del grillismo. Contribuisce a definirlo la tattica leninista, e poi stalinista, dell’aggressione personale all’avversario: che da legittimo portatore di concezioni politiche diventa personaggio ignobile, traditore, profittatore, corrotto. E come tale va distrutto, perché è impossibile il dialogo tra il fango del nemico e la propria purezza. A chi ancora esprima sul grillismo giudizi diversi occorre ricordare che la criminalizzazione dell’avversario è, appunto, la negazione della politica democratica.
Ha infine un significato nascosto quanto negativo che i 5 stelle avviino con queste tecniche un demagogico progetto di soluzione delle sofferenze collettive. Ma il tempo della post-verità non è l’inevitabile frutto dei social bensì della loro manipolazione. Le sofferenze della democrazia rappresentativa non debbono diventare ricerca di soluzioni consolatorie, in realtà demagogiche, dei problemi della globalizzazione. Debbono al contrario essere affrontate con energia dalla sinistra sulla base obbligata delle realtà contemporanee. La globalizzazione, col suo portato di redistribuzione sul piano mondiale, è in prospettiva elemento stabilizzatore della società-mondo. Molti altri non se ne vedono, piaccia o meno. E in questo contesto la riforma della politica e delle società, di contro ai rancori narcisistici affiorati nelle pubbliche opinioni dopo la fine dell’età dell’oro, è presupposto indispensabile di una nuova felicità pubblica, diciamo così, fondata sulla definitiva maturazione adulta del nostro paese. C’è un prerequisito politico per la ripresa della crescita: la chiarezza delle cose e dei rapporti. E oggi, da una parte, sta un’Italia che vuole affrontare i suoi storici problemi; dall’altra sta l’inganno di chi illude si possano evitare i conti della storia con una guida che torni a tuffarlo nei suoi mali più antichi. Dopo tutto, l’alternativa di fondo che sta di fronte al paese, anche e soprattutto dopo il referendum, è pur sempre quella tra la sua riforma, sia pure riequilibrata rispetto alla capacità del paese di introiettarla, e il ritorno alla condizione che portò la prima Repubblica al disfacimento.
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