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La crescita modesta (quando la politica fagocita l’economia invece di sostenerla)
di Massimo Lo Cicero
1. Sommario e contenuto

La dinamica del secondo semestre, nell’economia italiana nel 2016, si presenta in rallentamento e si riduce ad uno scarto preoccupante se la si confronta con la media dell’Unione Europea.
In questo articolo dividiamo in tre parti le questioni relative alla relazione deformata della nostra economia: rispetto al corso del processo politico che ha dominato l’intero 2016; analizzando i problemi che sono maturati nel secondo semestre e che sono precipitati nella necessità di una progressiva ridefinizione della legge di stabilità, votata subito dopo la sconfitta del SI al referendum costituzionale che ha occupato l’intera scena politica; valutando una ripresa, molto relativa, e certamente non significativa, dell’economia meridionale, che avrebbe potuto essere governata con una più efficace integrazione con l’intera economia nazionale.
La combinazione di queste tre circostanze rischia di compromettere la crescita economica italiana e, di conseguenza, creare uno scarto ed una divaricazione tra l’Italia e l’Unione Europea, proprio quando sarebbero necessarie dinamiche di convergenza tra le economie continentali in presenza di una prima scossa di sfondamento per la crescita negli Stati Uniti.
Infine lo stallo italiano potrebbe marginalizzare la capacità politica ed economica del nostro paese: in presenza della incertezza geopolitica generata dalla Brexit; di fronte alla vittoria di Trump alle elezioni e la possibilità che l’asse mondiale possa essere ribaltato dall’Atlantico al Pacifico. Mentre le dinamiche della politica di Putin ed i problemi del Mediterraneo e del Medio Oriente potrebbero far convergere la Russia e l’Europa del Nord Est, collegando le economie che agiscono sul mercato comune, e non sono condizionate dall’euro, creando una sorta di perno nell’area euro che potrebbe attrarre quelle economie e tralasciare l’attenzione verso le economie dell’area euro più vicine alla loro natura latina e mediterranea. La crescita modesta (quando la politica fagocita l’economia invece di sostenerla)



2. La dinamica del primo semestre nel 2016: una premessa.

Mario Draghi ribalta clamorosamente il pronostico diffuso in occasione della riunione del Comitato Direttivo della BCE il 21 gennaio del 2016: spiazzando in due mosse il futuro prossimo.
La previsione attesa, che non si avvera, recita un binario parallelo tra USA ed UE. Gli Stati Uniti hanno ripreso una crescita tenue ma che si accompagna anche alla ripresa dell’occupazione; dunque si deve immaginare che anche l’Europa debba rialzare i tassi di interesse. La crescita genera inflazione, che attenua il debito, ed impone un rimbalzo dei tassi per avere sia vantaggi sul rendimento degli investimenti reali che un rendimento degli investimenti finanziari, per supportare la crescita reale. Se la manovra riesce avviene anche una sorta di ridimensionamento dell’eccesso di finanza rispetto alla capacità di creare investimenti reali grazie alle tecnologie ed alla ricerca applicata.
Ma Draghi ha smontato, in gennaio, questa idea che l’Europa dovesse seguire passivamente gli Stati Uniti.
In prima battuta ha annunciato, subito dopo la riunione del Comitato Direttivo del 21 gennaio, che l’orizzonte era cambiato: le economie emergenti ripiegavano su se stesse, ma “la nostra sfida principale, come Unione, consiste nel fare in modo che la solidità interna prevalga sulla debolezza mondiale. La nostra capacità di influire sull’economia globale è limitata. Tuttavia, possiamo incidere su quanto avviene nell’area dell’euro”1.
La seconda battuta di Draghi è l’annuncio di una irrisoria inflazione, rispetto alle attese di una crescita.
Il 4 febbraio Draghi collega l’esigenza di ridurre la incertezza, che si allarga combinando la divaricazione tra economie emergenti ed economia europea, con una singolare descrizione della piega deflattiva, la riduzione dei prezzi, che si presenta in Europa. “L’integrazione monetaria nell’area dell’euro è al tempo stesso completa e sicura. Tuttavia, la politica monetaria è posta di fronte a numerose sfide.. per comprendere come abbiamo affrontato queste sfide, è utile dividerle in due categorie. La prima include le sfide comuni a tutte le banche centrali delle economie avanzate, che sono connesse al contesto di bassa inflazione a livello internazionale. La seconda è rappresentata da quelle specifiche dell’area dell’euro, che sono collegate al nostro particolare contesto istituzionale”2. Il palcoscenico è pronto per la rappresentazione del 10 di marzo 2016, la successiva riunione del Comitato Direttivo3.
Dal gennaio ad oggi Draghi ha progressivamente valutato i segnali che gli offrivano i suoi collaboratori della Banca Centrale; una volta diradata, per quanto possibile l’incertezza – che non è solo il frutto delle economie divergenti tra loro ma anche della geopolitica che allarga la sua aggressività tra le nazioni – Draghi annuncia che la vera minaccia europea è una inflazione troppo flebile, che potrebbe davvero compromettere la crescita. Con una svolta radicale ha annunciato esattamente il contrario di un rialzo dei tassi di interesse. I tassi vanno a zero ed anche sotto lo zero: le banche che lasceranno i depositi presso la banca centrale pagheranno un tasso dello 0,4% invece di ricevere un premio sul deposito. La BCE apre una ulteriore ondata di liquidità in tre direzioni: gli acquisti dei titoli dalle banche passano ad 80 miliardi di euro al mese; la BCE potrà acquistare titoli collegati allo sviluppo dell’economia reale, anche senza la mediazione delle banche; infine ci saranno ulteriori trasferimenti di fondi finalizzati per quattro anni e sostenuti dalla BCE e gestiti dalle banche europee. Ancora una volta promette nei tempi annunciati forme di politica monetaria non convenzionale, che ribaltano la percezione diffusa delle logiche convenzionali.
L’Unione Europea diventa un grande laboratorio che deve scoraggiare la deflazione e supportare la crescita reale della sua economia. Se i Governi dell’area euro, dal 2011 ad oggi, avessero avuto la forza e la volontà di agire sulla politica fiscale, riducendo le tasse e riducendo la spesa corrente per sviluppare investimenti delle imprese ed i consumi per le famiglie, non ci sarebbe stata questa singolare asimmetria tra una politica monetaria, robusta e convincente, ed una fiscalità portatrice di forze recessive. Se i Governi avessero adeguato le riforme del lavoro e dei mercati, verso una semplificazione ed una riduzione della invasività delle corporazioni e dei tortuosi percorsi amministrativi, la spinta della politica monetaria avrebbe certamente allargato la dimensione della crescita e non subito il peso della recessione.
Il cambio tra euro e dollaro rimane stabile ad 1,10 nei primi tre trimestri del 20164. Non bisogna inseguire ipotesi, bisogna costruire e spiegare la strada della crescita. Questo è stato finora il modello di Draghi: speriamo che abbia più imitatori che scettici lungo il suo cammino.
Nel mese di maggio vengono proposte all’opinione pubblica del vecchio continente tre diagnosi sull’economia europea, diverse tra loro ma convergenti. La prima si presenta con un voluminoso rapporto della Commissione Europea:European Economic Forecast, Spring 20165. La seconda si trova sul terzo numero del Bollettino Economico della BCE, pubblicato il 5 maggio 2016. La terza non è una vera e propria diagnosi ma si può considerare una interpretazione dei fenomeni finanziari, rispetto alle questioni economiche che vengono descritte dalla Commissione e dalla BCE. Si tratta di un discorso pronunciato da Mario Draghi, a Frankfurt amMain il 2 maggio 2016, che spiega adeguatamente come e perché bisogna affrontare quali siano le cause dei bassi tassi di interesse e delle loro conseguenze sull’efficacia della politica monetaria. Partiamo dalle diagnosi sull’economia europea della BCE e della Commissione.
Nell’area dell’euro prosegue una moderata ripresa, grazie all’impatto della politica monetaria non convenzionale.
Si nota una tendenza favorevole alle condizioni finanziarie, un miglioramento nella redditività delle imprese, una tendenza verso gli investimenti, nonostante una certa incertezza in ragione dei rischi per le turbolenze geopolitiche ed il rallentamento del commercio mondiale nei paesi emergenti. Il basso prezzo del petrolio continua a sostenere il reddito disponibile delle famiglie ed i consumi privati6. La politica monetaria, a partire dal giugno del 2014, ha migliorato nettamente le condizioni di prestito per le famiglie e le imprese.Ma dall’inizio del 2016 l’euro si apprezza sul dollaro e, di conseguenza, si affievolisce la possibilità che le esportazioni possano integrare e compensare la dimensione di investimenti sul mercato domestico dei paesi più deboli dell’area euro. Nella prospettiva della Commissione Economica la scena si propone in questi termini: le prospettive economiche europee sono ormai entrate nel quarto anno di ripresa mentre la crescita prosegue ad un ritmo moderato, trainata dai consumi.
Ma i conflitti e le contrapposizioni dell’economia mondiale mettono a rischio la crescita dell’UE.
Nella zona euro la crescita dovrebbe raggiungere, alla fine del 2016, l’1,7% rispetto all’1,6% dello scorso anno, per attestarsi all’1,9% nel 2017. Per l’Unione Europea, invece, si prevede che la crescita rimanga stabile all’1,9% nel 2016,dilatandosi al 2,0% l’anno prossimo.
Ritorna la divergenza tra le nazioni, che si muovono grazie agli effetti del mercato unico, ed il sistema, più lento e più frammentato, delle nazioni, divise tra Europa latina ed Europa del nord est, nell’area euro. Alcuni fattori che sostengono la crescita potrebbero diventare più forti: ad esempio bassi prezzi del petrolio, condizioni favorevoli di finanziamento ed un basso tasso di cambio dell’euro. Ma ci sono rischi da fronteggiare: la crescita più lenta della Cina e di altre economie emergenti; la debolezza del commercio mondiale e l’incertezza crescente sul terreno geopolitico e sulle scelte strategiche di lungo periodo. L’Italia, nonostante la sua dimensione industriale e la robusta presenza politica nel concerto europeo, potrebbe essere ridimensionata sul terreno economico, politico e sociale dalla combinazione delle due diagnosi appena descritte.
Il rapporto della Commissione lo dice chiaramente, mettendo in evidenza le ambizioni della crescita economica italiana ed il giudizio che viene ridimensionato dal rapporto di primavera.
Nel DEF, il documento di Economia e Finanza presentato in Parlamento dal ministro Padoan, si sviluppa un ragionamento in tre tempi per definire e tracciare la strada della crescita.
Nel trapasso tra il 2015 ed il 2016 siamo usciti da tassi negativi della crescita ma siamo rimasti ad un tasso di crescita del 2015 intorno allo 0,8%. Nel DEF viene indicata una previsione tendenziale, che accompagna la spinta per la crescita: 1,2% nel 2016 e nel 2017. A questa previsione si affianca anche un ulteriore scenario programmatico: alimentato da una politica economica e fiscale, collegata al mercato del lavoro, che indica comunque un tasso di crescita di 1,2% nel 2016 ma punta, nel 2017, ad un valore di 1,4% nel 2017 e di 1,5% nel 2018. Con una riduzione cautelare ad 1,4% nel 2019. Alla pagina 89 del rapporto della Commissione, tuttavia e purtroppo, viene ridimensionata proprio la dimensione dei tassi di crescita (0,8% nel 2015; 1,1% nel 2016 ed 1,3% nel 2017) e si esprimono giudizi molto cauti sulla possibilità di eccitare la crescita, attraverso un impegno positivo sul budget dei bilanci pubblici e sulla capacità di ridurre lo stock del debito pubblico. Giudizi che, contraddicendo le opzioni espresse dal DEF, diventano preoccupanti rispetto alla necessità italiana di allargare la dimensione della crescita: un obiettivo necessario per diminuire la disoccupazione ed intervenire sulla redistribuzione del reddito prodotto, allentando la contrapposizione tra i troppo ricchi ed i troppo poveri. Introducendo una redistribuzione in termini di welfare sui redditi delle famiglie.
Siamo, a questo punto nella valutazione del DEF, prima dell’estate ed è nell’autunno, e poi in dicembre, che i dati di questa prima valutazione del 2016 andranno ridefiniti.
Lo scetticismo sulla dimensione macroeconomica della crescita italiana nasce, comunque e già in questo ultimo scorcio del secondo trimestre che si manifesta poco reattivo, da circostanze molto evidenti. In primo luogo la condizione critica del sistema bancario, che non riesce a ridurre i tassi di interesse ed a collegare banche ed imprese per attivare investimenti, nonostante la politica monetaria di Draghi. Esiste, inoltre, una divaricazione sociale, più ancora che economica, che divide il centro nord dal sud, ma anche la costa di ponente da quella di levante, frammentando lo stesso Mezzogiorno in due parti ed allargando, anche in questo caso nazionale, le divergenze tra le aree territoriali piuttosto che facendo leva per convergere verso la ripresa della crescita.
Infine si avverte la confusione dei processi politici, collegati alla realizzazione di efficaci e robuste riforme, ed il necessario riordino della pubblica amministrazione, per lasciare spazio ed opportunità, ad imprese e famiglie, ed allargare la dimensione degli scambi di mercato rispetto al peso incombente delle gerarchie pubbliche. Le banche, il dualismo territoriale, la pubblica amministrazione ed il governo dei processi politici sono i freni che impediscono la crescita italiana.
Di questo si preoccupano anche le diagnosi formulate dalla BCE e della Commissione. Così come Draghi si preoccupa di un mondo dove i tassi di interesse restano a zero: perché senza ricondurre ad un coordinamento con la politica monetaria le riforme strutturali e la politica fiscale, i tassi di interesse a zero intralciano ulteriormente le esigenze delle banche ed impediscono un ragionevole ed efficiente incrocio tra il risparmio e l’investimento7. Serve uno scatto di reni per rilanciare la crescita italiana da parte del Governo, delle banche e delle imprese. Altrimenti il nostro paese rischia davvero di essere radicalmente ridimensionato



3. Le dinamiche della politica possono compromettere la crescita economica?

Le prime avvisaglie erano apparse a gennaio del 2016. Una svolta inchiodava l’Europa ad un rapido turnaround: tornare ai propri mercati domestici. Dato che i mercati dei paesi emergenti, ed i Governi che li guidano, avevano ridefinito i propri progetti: esportare meno ed incrementare la crescita nei propri confini nazionali. Mario Draghi, il 25 gennaio del 2016, indicava una duplice direzione di marcia: “La solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale” e “Le prospettive dell’economia mondiale nel 2016 sono incerte. Tuttavia, la nostra sfida nell’area dell’euro consiste nel fare in modo che i venti sfavorevoli a livello mondiale non portino fuori rotta la nostra ripresa interna. A questo scopo, tutti i responsabili delle politiche (interne all’Unione Europea) devono adoperarsi per rafforzare la fiducia”8. Le strade da percorrere, in questo caso, sono due: tornare ai mercati domestici in Europa e chiedere la responsabilità dei Governi per rafforzare la fiducia nella crescita economica all’interno dell’Unione Europea. La prima opzione, tornare ai mercati domestici, sembra essere andata in porto sotto il profilo economico ma non è detto che i Governi dell’Unione abbiano tutti la medesime strategie per il proprio futuro.
La seconda opzione è più complicata: perché si tratta di valutare anche gli interessi e le scelte dei Governi dei continenti che circondano l’Europa, dagli Stati Uniti al variegato mondo del Mediterraneo e dei paesi del Medio Oriente.
Senza dimenticarsi della Russia e della Cina.
Siamo arrivati alla primavera inoltrata del 2016 e dobbiamo accettare due domande: “Si muoverà l’economia italiana? Esiste un quadro di politica economica che possa prendere, nel nostro paese ed in Europa, una configurazione diversa dal passato?”.
A queste domande, ed a quella data, avevamo cautamente risposto con una probabilità positiva per la crescita italiana ed europea: aggiungendo anche la esigenza, italiana, di rafforzare l’accelerazione della crescita, rispetto agli standard europei – che non sono straordinari ma sono più elevati dei nostri – nonostante la pesante pressione fiscale e la rilevante massa patrimoniale del debito pubblico nazionale rispetto al prodotto interno lordo del nostro paese. Nella settimana seguente, alla fine di maggio, abbiamo avuto un salto di orgoglio, da parte del nuovo presidente della Confindustria, l’associazione, che regge le sorti di larga parte delle imprese italiane, e dal nuovo Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, che ha collegato le attese di rinnovamento, della Confindustria, ad una tempestiva rivisitazione della strutture del suo ministero e ad una robusta partnership tra Governo e mondo imprenditoriale.Per dare un colpo di accelerazione alla crescita potenziale della nostra economia9. Su un altro fronte, infine, il Ministro Padoan accelerava la privatizzazione di grandi imprese pubbliche ed indicava che il ridimensionamento del debito pubblico si sarebbe realizzato anche grazie a questi effetti. Mentre la pressione fiscale, sulle imprese e sui lavoratori, avrebbe dovuto essere ridimensionata per aprire gli spazi di una crescita economica: sia per una nuova spinta agli investimenti che per un aumento della domanda nei consumi delle famiglie.
Padoan, infine, intende valorizzare la dimensione fiscale anche rispetto al costo del lavoro: il cuneo fiscale che appesantisce i costi dell’impresa e restringe la possibilità di aumentare la liquidità da trasferire ai lavoratori. Ovviamente questa esigenza si può realizzare solo attraverso un incremento della produttività reale dei processi lavorativi. Una crescita della produzione che aumenti rispetto all’orario di lavoro ma che sposti, di conseguenza, una parte ulteriore del salario in favore dei lavoratori.
Le imprese, tuttavia, non sono tutte uguali nel modo e nei termini dei propri processi lavorativi. Questo cerchio complicato si deve chiudere proponendo una contrattazione di secondo livello, tra imprenditore e lavoratori. La contrattazione collettiva ingloba, invece, imprese eterogenee nei processi e nei risultati, riducendo ad una media la distribuzione dei salari che, al contrario, impresa per impresa, dovrebbe essere ridimensionata. Spostare al secondo livello la contrattazione consentirebbe di collegare produttività, salari e profitti aziendali, costo del lavoro per unità di prodotto. Per certi versi viene a galla un percorso di medio termine che sia in grado di allargare una torta che, espandendo il raggio della sua circonferenza, possa davvero ridistribuire le fette della torta stessa in condizioni di maggiore eguaglianza, per i lavoratori e gli imprenditori, riorganizzando anche le dimensioni del welfare rispetto alla spesa pubblica corrente, che risulta inconcludente e penalizza la parte più debole del paese, assorbendo volumi monetari di dubbia utilità. Padoan e Calenda avrebbero potuto essere le due facce di questo potenziale accordo tra Imprenditori e Governo: la dimensione della macroeconomia e la dimensione della spinta propulsiva di un ministero dello sviluppo, che sia la sponda ma non il direttorio della politica imprenditoriale e dell’industria italiana. Fin qui sarebbe stata fondata la scommessa della crescita economica italiana. Ma una tornata elettorale nelle grandi metropoli, ed in molte città significative, si preparava prima dell’estate. In autunno, inoltre, ci saranno altre scadenze elettorali nazionali. E si comincia a sentire, nella stagione pre-estiva, che nel primo semestre del 2017, si possa o si debba rinnovare, anticipatamente, il Parlamento. Fuori dei nostri confini nascevano problemi politici collegati alla tentazione, sbagliata, di rinunciare al completamento dell’Unione Europea per tornare agli Stati nazionali. Brexit (UK) era ormai dietro l’angolo e ci sono forze politiche che ne sostengono il successo: ottenendolo!
Il Mediterraneo, il Medio Oriente, la Cina e la Russia sono importanti attori di una geopolitica, che circonda sia l’Italia che l’Unione Europea. Riusciranno i Governi e le diplomazie internazionali a non disturbare troppo la ripresa della crescita economica in Occidente? Questa è la terza delle tre domande che annunciano, purtroppo, un autunno dove la prevalenza della politica sull’economia si propone in una condizione preponderante.



4. Imprese e Investimenti in Italia e nel Mezzogiorno

Una politica economica nazionale deve includere sud e nord per avere un’adeguata reputazione in Europa e non serve la creazione di “riserve indiane” per le imprese del Sud. Nel 2016 l’Italia stava uscendo da una lunga recessione. Nel 2011 Monti e Draghi convergevano verso una politica economica per fare uscire il paese dalla crisi. Dal primo trimestre del 2011 al primo trimestre del 2016 c’è stata una dinamica interessante.
Fatto pari a 100 il valore delle grandezze macroeconomiche al 2011, si leggono tre scenari contemporanei molto diversi tra loro. Negli anni non si è avuta inflazione ma i valori, definiti dall’Istat, sono concatenati tra loro rispetto alla dinamica dei prezzi.
Nel 2016 il prodotto interno lordo rimane a 96 rispetto al 100 del 2011. Non siamo usciti dalla soglia che, dal 2013, si era schiacciata su 95 come livello del pil. Le esportazioni arrivano a 111 nel primo trimestre del 2015 e restano su quella quota. Le importazioni precipitano a 86, nel secondo trimestre del 2013, e rimbalzano a 95 nel primo trimestre del 2016. I consumi interni scendono a 94 nel secondo trimestre del 2013 e tornano, nel primo trimestre del 2016, a 95: come il livello del pil e delle importazioni. Gli investimenti cadono nel secondo trimestre del 2013 ad 84, cadono ancora ad 80 nel quarto trimestre del 2014, rimbalzano ad 82 nel primo trimestre del 2016. In sintesi abbiamo un crollo degli investimenti; un rimbalzo quasi pari ai valori del 2011 del pil e delle importazioni; uno scatto delle esportazioni, grazie allo slittamento del cambio dell’euro nel 2014 che si ferma nel 2015. Ed abbiamo un livello dei consumi che, con il pil e le importazioni, trascina verso la fine del tunnel, cioè oltre i valori del 2011, l’economia italiana.
La lenta ripresa, insomma, viene sostenuta dai consumi cioè dal mercato domestico nazionale: come Draghi aveva indicato di fare.
Il monitoraggio di questi dati è stato tempestivo, grazie all’Istat, ma se volessimo capire la dimensione economica del Mezzogiorno, come abbiamo potuto fare con il quadro macroeconomico nazionale, avremmo avuto rilevazioni, dal 2013 al 2015, non ancora allineate tra loro o confrontabili con gli effetti delle dinamiche in corso10.
Da una parte, insomma, si vorrebbe chiudere l’economia e la società meridionale in una sorta di struttura autosufficiente, capace di contenere e gestire se stessa, anche attraverso la presenza degli enti regionali ma, d’altra parte, il sistema economico e sociale del Mezzogiorno non è in grado di organizzarsi e governare le proprie risorse e quindi non possa né debba farlo. Mentre una politica economica della crescita – quella che si realizza con imprese efficienti e competitive ed investimenti rischiosi, ma efficaci, una volta che abbiano generato ricchezza e non perdite – deve necessariamente rappresentare un percorso omogeneo e coerente per l’intero paese.
Dalla Ricostruzione al Piano Vanoni, dallo sviluppo industriale del Sud ai piani di Ugo La Malfa e di Giolitti, la percezione della crescita come leva dello sviluppo era evidente e coerente. L’esplodere della questione settentrionale, viste le sciagure degli anni Ottanta nel Mezzogiorno, e la fragilità progressiva della riforma regionale in Italia e la progressiva erosione dei partiti politici, hanno smantellato sia il problema della crescita che la identità comune del sistema industriale e imprenditoriale del nostro paese. Siamo di fronte ad un doppio problema: decifrare cosa e come si possa riorganizzare la dimensione delle imprese e degli investimenti nel Mezzogiorno; come collegare la politica nazionale con quella dell’Unione Europea.
Nel mese di aprile, in un convegno tra Confindustria, Sole 24 Ore e Regione Puglia, sono emersi una serie interessante di elementi sul rapporto tra imprese ed investimenti nel Sud11. Se guardiamo ad aziende italiane di piccole e medie dimensioni – denominate “gazzelle” per il ritmo che hanno impresso dal 2007 al 2015 per uscire dalla crisi si vede che in Italia, nel 2007, esisteva un numero significativo di queste imprese (3962) rispetto a quelle del Mezzogiorno, che erano 68012.
Ma, purtroppo, non bastano le aggregazioni tra imprese nel Mezzogiorno; servono, invece, relazioni adeguate tra imprese e banche. Perché non ci sono strumenti dei mercati finanziari; ci sono banche troppo grandi e imprese troppo piccole; ci sono molti debiti e poco capitale nelle imprese esistenti; la lunga recessione ha trasformato i crediti degli ultimi anni in crediti deteriorati.
Ancora una volta il ministro Padoan sta agendo con strumenti fiscali per accelerare i criteri di ammortamento degli investimenti e offrire crediti di imposta: per ottenere, negli anni successivi all’investimento, sgravi fiscali. Sono misure idonee ma non ancora sufficienti rispetto ai problemi descritti.
Serve liquidità al sistema delle imprese meridionali: per allungare i debiti in scadenza e per ottenere fondi con i quali sviluppare gli investimenti. Se la caduta degli investimenti è temibile alla scala nazionale, figuriamoci cosa sia e cosa possa essere per le imprese meridionali. Bisogna saldare la rete nazionale delle imprese, tra nord e sud, per fare crescere l’economia e per allargare lo sviluppo, ridimensionando la pubblica amministrazione e la povertà nel sud. Le imprese meridionali sono in grado di reggere questa sfida ma devono avere un supporto robusto ed efficace dal governo e dalle banche. Un circolo virtuoso in cui possano nascere importanti investimenti – nell’energia, nella manifattura e nelle reti della logistica, del digitale e della circolazione dei dati – da parte di imprenditori meridionali ma anche da parte di attori economici del Nord e di altre nazioni. Bisognerebbe dedicarsi a questo genere di scommesse e lasciare ai mercati finanziari, e non solo ai masterplan ed alla finanza pubblica, che dovrebbe essere più celere e più efficace, la politica della crescita.
Una politica di integrazione nazionale non dovrebbe trascurare le Fragmented Chains, cioè le catene di filiere frammentate, che consentono, grazie agli strumenti digitali ed a quelli della logistica, di collegare spazio e tempo e di creare sistemi non necessariamente territoriali per articolare insiemi di imprese e di industrie lungo la nostra intera penisola. Si può dire che, rispetto alla relazione macroeconomica tra Nord e Sud dell’Italia, si stanno formando filiere frammentate divise tra levante e ponente
L’asse Torino-Napoli si potrebbe contrapporre a Milano-Bari: ed insieme le due catene potrebbero rafforzare la fragilità della crescita nel ciclo 2015/2017. Campania e Piemonte sono la virgola di ponente mentre la direttrice di levante si forma tra Lombardia e Puglia. Torino e Napoli, le due città che hanno dimensioni metropolitane rispetto alle regioni della virgola di ponente, sono due casi estremi e contrapposti degli esiti delle elezioni amministrative. A Torino una ultraventennale coesione tra la cultura politica operaia, e la grande impresa meccanica, aveva costruito un impianto industriale che si è andato consumando nel tempo. Esaurita la cultura operaia, ed allontanata la grande impresa, Torino rimane una grande area metropolitana ed una gradevolissima città. Ma una parte della città vuole orizzonti diversi, dilatati dal digitale ma coerenti con la innovazione e la tecnologia, anche nella cultura e nella gestione dell’energia e dell’ambiente. La forza che ha portato il Sindaco di Torino, Chiara Appendino, proveniente dal movimento 5 stelle, a diventare sindaco della città è un sistema composito di opzioni e di opinioni che si rendono, almeno per ora, coese per sostituirsi alle strutture culturali e politiche precedenti. Non si vede ancora un destino nitido ma si sente una nuova spinta. Molto diverso è il caso di Napoli. Anche in questo caso c’è una storia ultraventennale che ha progressivamente collassato nella sua presunta cultura di centrosinistra e che si è ritrovata in un dichiarato populismo, a partire dal ricambio alle elezioni del 2011.
Ma la domanda di politica a Napoli scema e l’offerta si contrae: si forma una recessione della democrazia che genera un rifiuto della politica. Aumenta il numero degli abitanti che abbandonano il rapporto con gli interessi collettivi e la popolazione si chiude in una cerchia dove ognuno agisce per conto suo. Non si vede un destino nitido, anche in questo caso, e non si vedono forze capaci di riordinare ed aggregare la metropoli napoletana, la Campania e le sue potenziali relazioni economiche e finanziarie con le regioni del nord ovest: Liguria e Piemonte.
Se invertiamo la prospettiva dalla politica alla strategia economica emerge un carattere singolare di Napoli e Torino. Entrambe presentano una robusta struttura metropolitana: che le porta oltre i 3 milioni di abitanti in Campania ed oltre i due milioni in Piemonte. Torino è il perno di una regione che sfiora i 4 milioni e mezzo di abitanti. Napoli ne rappresenta 6 milioni. In effetti si tratta di due seconde città, rispetto a Milano e Roma, e di due concentrazioni regionali che superano, nell’insieme, i dieci milioni di abitanti: un sesto della popolazione italiana.
Questi due poli, entrambi posizionati sul lato di ponente della penisola, sono anche un fascio notevole di collegamenti economici e finanziari: grazie alla relazione tra le filiere dell’agroalimentare, della meccatronica (meccanica, digitale ed elettronica), dell’automotive e dell’aereospazio ed alla presenza, in entrambe le regioni, delle prime due banche italiane: Intesa ed Unicredit.
La “virgola di ponente” esprime, e potrebbe esprimere, anche una dimensione rilevante del sistema economico del paese ed una forte potenzialità di connessione tra due grandi regioni e le loro rispettive città metropolitane. Fashion, glamour e turismo sono le reti potenziali di cultura della natura, e di ambiente per la cultura, che, seppure in modi e dimensioni diverse, accompagnano l’impianto delle due aree metropolitane.
A questi due poli si collegano da Nord ovest a Sud ovest le filiere lunghe che creano le dorsali di un impianto che lega Piemonte, Liguria, Campania e Basilicata.
Nel 2015 in Campania si è arrestata la flessione recessiva dell’economia che era esplosa nel 2008. Ma il prodotto regionale è aumentato solo dello 0,3%: sostenuto da esportazioni che, nel 2015 e nel 2016, hanno perso forza per la convergenza del ribasso dell’euro rispetto al dollaro. Rimane elevato il tasso di disoccupazione giovanile, che si affianca alla diffusione dell’istruzione universitaria inferiore alla media italiana.
I prestiti bancari sono aumentati solo per le imprese in condizioni economiche e patrimoniali equilibrate.
In Piemonte torna la crescita dopo tre anni di recessione ma il PIL è aumentato dello 0,7%%. Si è rafforzata la ripresa nell’industria. La domanda aggregata ha beneficiato delle esportazioni, dell’incremento dei consumi, della ripresa degli investimenti. L’aumento del grado di utilizzo degli impianti, ed accesso al credito, hanno creato la ripresa dell’accumulazione di capitale. Il credito torna a crescere: trainato dall’industria manifatturiera e dai servizi.
Le università piemontesi hanno una crescita negli immatricolati, a fronte di un calo nella media nazionale. È raddoppiata la quota di studenti provenienti da altre regioni.
Rispetto alla “virgola di ponente” si configura una simmetrica relazione tra Bari e Milano, lungo la costa di levante. E, rispetto ai risultati elettorali di Milano, sarebbe molto più forte la connessione politica ed economica, che potrebbe saldare questa direttrice di levante a Nord, nelle Venezie e nelle regioni di mezzo, Emilia e Toscana. La distanza tra la fragilità campana, e la ripresa più aggressiva dell’economia piemontese, impone quindi alle forze economiche di ponente una maggiore coesione reciproca per accelerare la crescita dell’economia italiana. Per costruire una Unione Europea, che abbia forza di crescere e capacità di convergenza, dobbiamo collegare meglio le nazioni meridionali dell’Europa. L’Italia è la nazione più rilevante nel mediterraneo ma è anche una Nazione frammentata in un eccesso di regioni. Ha bisogno di una sua politica economica nazionale per collegare i paesi mediterranei dell’area euro ai paesi continentali, al centro dei quali si trova la Germania.
Una politica economica nazionale dovrebbe avere tre profili: produttività e tecnologie innovative create da imprese, banche e lavoratori in una dimensione di economia reale; una capacità di redistribuzione del reddito, che sia governata dalle Regioni, che si fondono su sanità, ambiente, trasporti, riordino delle aree urbane e formazione per il mercato del lavoro; un governo che affianchi il mercato con la politica dei fattori e delle reti (digitali, energetiche, adatte alla logistica) e che sia accompagnato da poche autorità di controllo sulla competizione, la legalità ed i mercati finanziari.



5. Dopo la Brexit

Cadono a luglio, in Gran Bretagna, le teste di quattro leader politici: Cameron, che ha perso; Johnson che ha vinto e Farage ha trionfato ma, entrambi, se ne sono andati; Corbyn si avvia sul medesimo terreno. Antonio Polito, sulle pagine del “Corriere della Sera”, parte da questa moria dei leader politici inglesi, che abbraccia l’intero arco parlamentare, per valutare lo scarto tra democrazia diretta e democrazia delegata, segnalando la possibilità che potrebbe scadere in un gioco di azzardo. Ovviamente, conclude Polito, avendo gli italiani una Costituzione ed un Parlamento, faranno i conti con il referendum autunnale, voluto da Renzi ma non è certo che “I nostri incantatori di consenso popolare siano più acrobatici di quelli inglesi e riescano ad evitare la fine di chi andò per suonare e fu suonato. Certo cha scherzare col fuoco prima o poi ci si brucia”. E Polito spera, giustamente, che in autunno non si debba cadere in una condizione di anarchia diffusa.
Le parole chiave di Polito sono cinque: leader; democrazia, diretta o delegata, oppure collegate; partito politico; istituzioni pubbliche13.
Proviamo a metterle insieme. Nel mondo contemporaneo la posizione dei leader travalica ormai i partiti politici. Il leader comprime le istituzioni e ne riduce la complessità.
La democrazia, delegata o diretta che sia, resta un’aspirazione, da parte del popolo, ma il popolo stesso, di fronte ad istituzioni risucchiate dai leader, si allontana dalle istituzioni. Si allontana dalla dimensione equilibrata ed etica delle gerarchie, che fanno lo scheletro della nazione, ma lascia un eccesso di capacità di comando allo scheletro stesso. E la combinazione di crescita e benessere non passa più dal popolo alle istituzioni ma si traduce in una relazione opaca tra i leader e le gerarchie.
Non essendoci un destino proiettato nel futuro – al quale i partiti politici affidavano le scelte possibili, per ciascuno di loro, alla popolazione che ne seguiva l’esempio e ne controllava l’impegno – si forma un eterno presente, uno stagno, dove resta l’incubazione tra le gerarchie ed i leader mentre la popolazione si allontana da questa fissità incongruente, almeno per loro.
Per nostra fortuna non ci sono solo gerarchie e leader ma ci sarebbe anche la naturale relazione degli scambi: la possibilità di affrontare mediante il linguaggio e la condivisione la natura di un destino atteso e la volontà di perseguirlo, per la popolazione intera. Naturalmente oltre la volontà sarebbe interessante compierlo questo destino atteso. Ma la nuvola dell’incertezza ce lo dirà solo vivendo.
Lungo questa strada si trovano due mondi: una offerta sempre più scadente della politica, che quindi decapita tutti i leader inglesi. Ma anche una fuga della popolazione dalla dimensione della politica: la domanda politica, insomma, diminuisce essa stessa e determina il contrario di una palla di neve.
Non crea l’accelerazione della crescita, tra domanda ed offerta dei valori economici, ma il progressivo ridimensionamento del valore della politica e della voglia di partecipare alla comunità. Mediante i partiti, se ci fossero ancora, o mediante la democrazia diretta se possa servire a qualcosa.
Napoli è un clamoroso esempio di questa circostanza con le sue recenti elezioni amministrative e le relative conseguenze. Che rivelano come non esistano soluzioni semplici perché lo scambio, delle opinioni e delle condivisioni, riesca a dirimere i problemi complessi. I leader dovrebbero ricevere dalle gerarchie strumenti idonei per cogliere i destini che la popolazione attende.
Ma dovrebbero anche avere una leadership che non sia solo un racconto convincente. Offerta e domanda di politica sarebbero ancora necessarie ma certamente, ad ora, non sono assolutamente sufficienti. Purtroppo.
Ma torniamo alla dinamica economica italiana nel secondo semestre 2016. La litigiosa politica italiana ha deformato il percorso della crescita: perché, per la crescita, serve una minore conflittualità politica ed un maggior grado di libertà per le imprese; ed anche una robusta spalla del Governo e della Pubblica Amministrazione per creare infrastrutture e supporti di riferimento per le imprese: limitando la propria ingerenza nei mercati e nello sviluppo economico.
Cerchiamo di capire la congiuntura economica italiana e le sue opportunità possibili per i prossimi due anni.
Alla fine di settembre si chiuderà anche il terzo trimestre dell’anno in corso. Il 2 settembre l’Istat ha pubblicato le informazioni sulla crescita nei primi sei mesi del 2016: in Italia e nel resto del mondo14. Le economie occidentali sono cresciute in ordine sparso, divaricandosi. Nel secondo semestre il PIL aumenta moderatamente nel Regno Unito, in Germania e negli Stati Uniti: rimane invariato in Francia ed in Italia. In prospettiva si legge una scala divaricata di queste quattro economie: il Regno Unito e la Germania aumenterebbero la crescita anche oltre la soglia della Francia e degli Stati Uniti.
L’Italia cresce, se confrontiamo il secondo trimestre del 2015 con quello del 2016, ma resta in coda rispetto al profilo della futura crescita economica in Europa. Per quali motivi? La Gran parte di questi motivi nasce dalle sovrapposizioni tra le dinamiche politiche e la spinta potenziale dell’economia.
Se guardiamo alle nostre spalle si nota una caduta ripida dal 2011 al 2013: la stagione della così detta austerità. Segue un profilo piatto per il 2014 ed una impennata, morbida ma in crescita progressiva, nel 2015. I due trimestri del 2016 rallentano questa spinta positiva e si mantengono di nuovo lungo un profilo orizzontale: il prodotto interno lordo (il pil) non diminuisce ma non aumenta nemmeno.
Il pil è l’insieme dei beni e dei servizi ma una quota molto significativa di questo valore si esprime nell’economia dell’industria, comprese le costruzioni, ed in quella del commercio e dei servizi. Questa grande quota dell’economia nazionale pesava nel 2011, primo trimestre, sul pil per l’88% e, dopo cinque anni, per il 2016, nel secondo trimestre, per l’89%.
Se separiamo l’industria dai servizi, scopriamo che la media del pil è radicalmente divisa tra due percorsi: l’industria prosegue nella sua caduta fino a tutto il 2014 e poi rimbalza, per tornare a livelli più alti ma, proprio nel secondo semestre del 2016, accusa una caduta che la riporta indietro. Nel primo trimestre del 2011 ci sono 88, 461 miliardi di euro che diventano solo 80,555 miliardi nel quarto trimestre del 2014; poi al rimbalzo nel primo trimestre del 2016 dove si arriva ad 82,233 miliardi di euro.
Nel trimestre successivo si ricade ad 81,715 miliardi di euro.
Oggi siamo ancora sotto la soglia del primo trimestre del 2011 e si profila una ricaduta preoccupante.
Invece, Servizi e Commercio seguono un percorso diverso.
Nel primo trimestre del 2011 presentano una valore di 268,622 miliardi di euro e cadono nel secondo semestre del 2013 fino a 259,084 miliardi di euro. Ma risalgono progressivamente fino a 263,122 miliardi di euro nel secondo semestre del 2016. In queste cadute e discese si osserva che la media del pil si trova, dopo il secondo semestre 2013, sotto il rimbalzo di Servizi e Commercio e sopra il percorso compiuto dall’industria.
Orma siamo alla fine dell’anno.
Il problema più importante è ovviamente un supporto alle imprese industriali perché, essendo l’Italia la seconda nazione industriale in Europa, dobbiamo almeno continuare ad esserlo. Serve un radicale incremento di produttività e di competenza.
Ed anche un ridimensionamento del cuneo tra salario e costo del lavoro. Creando un vantaggio per il lavoratore, in termini di liquidità, e di opzioni di investimento per l’impresa, che deve investire in tecnologia per riguadagnare in produttività. Dobbiamo anche capire cosa debbono e possono essere i servizi ed il commercio: la componente più grande del nostro pil.
Si tratta di agire su tre leve: riordinare competizione e concorrenza; ridurre la pressione della pubblica amministrazione, per evitare monopoli e concessioni; riqualificare e compattare il sistema bancario. Servono, inoltre, infrastrutture digitali ed una logistica per le merci, i beni ed i servizi per le persone.
Questo insieme di riforme economiche avrebbe dovuto essere la base per accelerare la crescita italiana nel medio periodo.
Molte controversie politiche sono affiorate nel 2016 ed hanno messo in ombra i processi e gli strumenti necessari alla rifondazione di una base economica adeguata. Bisogna ridurre molto il tasso di conflitto politico ed impegnare il Governo sulla realizzazione operativa di questi traguardi. Se vogliamo tornare davvero sulla ribalta economica dell’Europa e partecipare agli impegni geopolitici, che ci fronteggiano, dobbiamo mantenere stabili ed efficaci le condizioni della legislatura che scadrà nel 2018. E progettare il bilancio dello Stato guardando al medio periodo, non alle contingenze inconsistenti.
Aggiungiamo una ulteriore descrizione della dinamica del secondo semestre del 2016 rispetto al prodotto interno lordo.
Ed aggiungiamo alla qualificazione dei volumi di Industria, Servizi e Commercio, che occupano una parte consistente del pil, per descriverne i contenuti funzionali. Partendo del primo trimestre del 2011 descriviamo consumi, investimenti, importazioni ed esportazioni, facendo pari ad 1 la dimensione di ognuna di queste funzioni. Il pil, nei primi due trimestri del 2016 si appiattisce su 0,950 rispetto ad 1, il valore del primo trimestre del 2011. Siamo sotto la quota iniziale dell’analisi.
Le esportazioni crescono arrivando ad un indice medio di 1,123 con un saliscendi tra il primo trimestre del 2015 ed il secondo del 2016. Le importazioni scendono sotto l’indice di 0,864 nel secondo semestre del 2013 ma poi rimbalzano e si collocano sopra la quota del pil dal primo trimestre del 2015 al secondo semestre del 2016. I consumi, pubblici e privati, convergono nell’intorno stretto del pil dal primo trimestre del 2015 al secondo trimestre del 2016.
Gli investimenti cadono sotto la quota 0, 850 nel primo trimestre del 2013 e rimangono, in media, sotto questa soglia fino al secondo trimestre del 2016. Nell’ordine, gli investimenti in macchine ed attrezzature si collocano sopra la media degli investimenti ma non raggiungono la quota del pil; mentre gli investimenti in costruzioni e quelli sui mezzi di trasporto cadono molto al di sotto del pil e si recuperano intorno ad una quota dell’edilizia che resta oscillante intorno a 0,772 dal primo trimestre del 2015 al secondo del 2016. Gli investimenti sui trasporti rimbalzano, nel secondo semestre del 2016, alla medesima quota della media degli investimenti intorno ad un indice di 0,828 nel primo trimestre del 2016 che scende ad 0,822 nel secondo trimestre.
I driver della crescita, dal 2015 in poi sono i consumi e le esportazioni, ma sono stabili e non trascinano il pil oltre la dimensione di 0,960. La spinta vera da ottenere è quella sugli investimenti: cioè sulla compressione del cuneo fiscale, per i lavoratori, e sulla crescita degli investimenti per le imprese, supportate dalle banche, nel prossimo semestre ed oltre, nel 2017.



6. La crescita, il referendum e la legge di stabilità

Il Consiglio dei Ministri ha assestato il quadro economico possibile, dopo le cadute, economiche e geopolitiche, che l’Italia ha subito dal secondo semestre 2016 in poi.
Da questo quadro economico, assestato rispetto al primo semestre dell’anno, dovrà emergere la legge di Bilancio e, dunque, il futuro atteso in termini di crescita e di stabilità15.
Gli investimenti privati, e le relazioni tra imprese, mercati e sindacati, sono la chiave di volta della crescita e della stabilità che il Parlamento dovrà costruire come progetto e notificare come legge. Al centro di questa forbice, tra stabilità e crescita, bisogna collocare gli investimenti, delle imprese, e gli strumenti – fisco, banche e mercati finanziari – necessari per trasformare gli investimenti in un’accelerazione della produttività e della crescita futura.
Padoan e Calenda, il primo nel medio e breve termine, ed il secondo nel medio e lungo termine, propongono due leve importanti: la riduzione della pressione fiscale mediante tecniche di alleggerimento delle imposte sui profitti delle aziende, che abbiano maturato investimenti positivi; i supporti, della ricerca e sviluppo e gli ulteriori sgravi fiscali, per realizzare gli effetti della così detta industria 4.0. Una proiezione della manifattura e delle sue possibilità innovative, dal digitale all’energia, dagli sviluppi della medicina e della ricerca farmacologica, in una prospettiva che trasformi gli asset, le attività della industria manifatturiera, in servizi, spesso intangibili, per le nuove branche della manifattura: la meccatronica (meccanica ed elettronica), la robotica, le nanotecnologie, i materiali intelligenti, la sicurezza informatica.
Almeno un quinto dell’industria manifatturiera italiana investirà su queste strade e costruirà, grazie alle partnership con le università ed i centri di ricerca, le nuove dimensioni dello sviluppo industriale. La parte rimanente della manifattura italiana, che è la seconda in Europa dopo la Germania, dovrà fronteggiare tre ostacoli: il cuneo fiscale esagerato tra il reddito del lavoratore ed il costo che sopporta l’impresa; la difficoltà di investire, dopo una lunga recessione, che ha prosciugato la liquidità ed ha ridimensionato i profitti delle imprese; la condizione delle banche italiane e la mancanza di un adeguato mercato finanziario, cioè di una vera e propria industria della finanza che vada oltre le banche. Sia il blocco tradizionale, che quello innovativo, della manifattura italiana dovranno agire su questi tre ostacoli. Un investimento, comunque, deve avere una leva finanziaria ed una base di mezzi propri per essere realizzato. Ed una volta realizzato deve garantire profitti importanti se, come auspica Padoan, si possono utilizzare strumenti che riducano la pressione fiscale. Se non esistono profitti lordi di buone dimensioni, l’intervento dello sgravio fiscale si riduce e, comunque, viene a favore dell’imprenditore solo dopo che i profitti siano stati realizzati. Almeno nello spazio di un anno e forse anche di più.
Infine bisogna guardare all’industria della finanza: a quelle non banche, che potrebbe essere utili nei progetti delle piccole e delle medie imprese. Imprese che ricavano da 5 a 10 milioni di fatturato potrebbero avere, grazie ai così detti minibond, obbligazioni che si affiancano ai prestiti bancari, da 500mila ad un milione di euro, per sviluppare i propri investimenti.
Le medie imprese, tra i 10 ed i 50 milioni di euro, sarebbero altrettanto, ed in proporzione, supportate ad intraprendere investimenti sia all’estero che sul mercato interno.
Alle non banche, ed alle Società di gestione del risparmio (Sgr), che dovrebbero sviluppare i minibond, banche e consorzi di garanzia fidi potrebbero dare liquidità ma anche la base patrimoniale del risparmio italiano potrebbe e dovrebbe essere mobilitato in questa direzione con le Sgr. Infine i fondi, europei e non, di cui dispongono le Regioni dovrebbero essere affidati direttamente alle banche ed alle non banche, ed in questo modo, potrebbero ancora una volta utilizzare lo strumento dei minibond: le obbligazioni che supporterebbero le medie e piccole imprese.
La riduzione del cuneo fiscale, infine, sarebbe una misura veramente importante sia per le piccole che le medie e le grandi imprese. Perché riduce la fiscalità per l’impresa e genera reddito, e dunque anche spesa, per i lavoratori. Sarebbe una esplosione positiva di consumi che si affiancherebbe agli effetti degli investimenti. Queste politiche di investimento privato, assecondate da intermediari finanziari non bancari e non solo dalle banche, cumulate con la ripresa dei salari e dei consumi, potrebbero essere la base possibile della futura crescita italiana. Se ognuno, banche, imprese, non banche e lavoratori, saranno capaci di cooperare tra loro reciprocamente. Da dove veniamo e dove dovremmo andare? la nebbia dell’incertezza ci ostacola non poco.
Possiamo scandire i titoli delle strategie possibili ma bisogna, successivamente, mettere in moto i processi necessari perché quelle strategie possano realizzarsi.
Una politica economica nazionale deve avere un’adeguata reputazione in Europa. Non bisogna rinchiudere le imprese meridionali nella mera dimensione regionale e nella retorica meridionale. Servono le banche, della grande tradizione europea ma serve ancora di più l’industria finanziaria: le non banche.
Per costruire la crescita e governare lo sviluppo, le regioni hanno funzioni di redistribuzione e di welfare: non di crescita economica. Partiamo da queste esigenze. Da una parte si vuole chiudere l’economia e la società meridionale in una sorta di struttura autosufficiente, capace di contenere e gestire se stessa, anche attraverso la presenza degli enti regionali ma, d’altra parte, il sistema economico e sociale del Mezzogiorno non è in grado di organizzarsi e governare le proprie risorse e quindi non potrebbe farlo e non dovrebbe aggredire gli spazi economici delle imprese e dei mercati.Mentre la politica economica della crescita – quella che si realizza con imprese efficienti e competitive ed investimenti rischiosi ma efficaci, una volta che abbiano generato ricchezza e non perdite – deve necessariamente rappresentare un percorso omogeneo e coerente per l’intero paese.
L’esplodere della questione settentrionale, viste le sciagure degli anni Ottanta nel Mezzogiorno, e la fragilità progressiva della riforma regionale in Italia, ma anche la progressiva erosione dei partiti politici,hanno smantellato sia il problema della crescita che la identità comune e condivisa del sistema industriale ed imprenditoriale del nostro paese.
Ora siamo di fronte ad un doppio problema: decifrare cosa e come si possa riorganizzare la dimensione delle imprese e degli investimenti nel Mezzogiorno; come collegare la politica nazionale con quella dell’Unione Europea.
Insomma abbiamo anche cultura e capacità industriale ma non nella misura sufficiente per definire come un insieme chiuso la “grande regione meridionale”, spacchettata a sua volta in ambiti regionali che, in quanto istituzioni, operano nella sanità, nei trasporti, nell’urbanistica, nell’agricoltura e nella formazione. Certamente non nella politica economica nazionale.
Non bastano neanche solo le aggregazioni tra imprese nel Mezzogiorno; servono, invece, relazioni adeguate tra imprese e banche nel Mezzogiorno. Perché non ci sono strumenti dei mercati finanziari e la lunga recessione ha trasformato i crediti degli ultimi anni in crediti molto deteriorati.
Il Ministro Padoan sta agendo con strumenti fiscali per accelerare i criteri di ammortamento degli investimenti ed offrire crediti di imposta. Sono misure idonee ma non ancora sufficienti rispetto ai problemi descritti. Serve liquidità al sistema delle imprese meridionali: per allungare i debiti in scadenza e per ottenere fondi con i quali sviluppare gli investimenti. Utilizzando anche gli strumenti dell’industria finanziaria: le non banche. Bisogna guardare all’industria della finanza: a quelle non banche, che potrebbe essere utili nei progetti delle piccole e delle medie imprese. Imprese da 5 a 10 milioni di fatturato che potrebbero utilizzare, grazie ai così detti minibond, obbligazioni che si affiancano ai prestiti bancari, da 500mila ad un milione di euro, per sviluppare i propri investimenti.
Questi sono i problemi dell’integrazione tra un Mezzogiorno, screditato e ridimensionato nelle sue potenzialità economiche e sociali. Ma sono anche i problemi di una possibile, ed ancora inutilizzata, integrazione tra Sud e Nord del paese. E tra l’Italia e l’Unione Europea. Perché non riusciamo a superare questi problemi e gli effetti negativi che generano?
Nel secondo trimestre del 2016 è venuto meno il tentativo di ripresa della crescita economica. Ai problemi interni si aggiungono quelli esterni: l’incertezza generata dalla geopolitica; la divaricazione tra la ripresa della crescita negli Stati Uniti rispetto all’Unione Europea; la separazione, creata dalla Brexit, tra UK ed il resto dell’Europa, che genera per ora una svalutazione radicale della sterlina ed un rafforzamento dell’asse tra il centro nord dell’Europa, la Russia e la Turchia; la tendenza, in ragione della Brexit, a rilanciare una relazione tra Cina e Stati Uniti dal lato del pacifico e non dell’atlantico. Una relazione atlantica, tra USA, UK ed UE che dovrebbe, e potrebbe, essere, almeno per altri trenta anni un perno di riferimento verso i paesi emergenti.
Nella prima metà di ottobre, in un sito web molto qualificato e frequentato da numerosi premi Nobel di economia, Project Syndicate, è apparso un articolo molto interessante. Per coloro che lo hanno scritto e per i contenuti del medesimo. I due autori sono Lucrezia Reichlin e Shahin Vallée. Entrambi sono persone molto eccellenti nella loro professione16.
La prima perché ha una vasta esperienza bancaria internazionale, insegna alla London Business School ed è un formerdirector of researchat the European Central Bank. Il secondo perché lavora per il Soros Fund ed è anche un formereconomicadvisor del Ministro Francese dell’Economia.
Secondo i due economisti il problema principale del sistema bancario europea è una segmentazione eccessiva, una vera e propria frammentazione tra le banche.
L’Italia è un caso sintomatico di questo modo di fare: perché potrebbe creare problemi rispetto alla ripresa economica, alla impossibilità di sviluppare ulteriori investimenti e, comunque, osservando i problemi italiani potrebbero emergere problemi che si ritrovano nel sistema bancario europeo stesso. Ma i due economisti insistono anche su una questione puntuale: “l’unione bancaria europea, nel suo stato attuale, non è solo incompleta; i suoi difetti di progettazione hanno creato una fonte di inazione e di instabilità potenzialmente peggiore dei mali che si intendeva curare”. E concludono che spesso “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”.
Un elemento importante che gli economisti sottolineano è la carenza di sequenze temporali e strutture tecniche, che non si incontrano in un percorso di medio e lungo termine che si proietti verso le soluzioni, ma spesso si intersecano creando scompensi invece che facilitazioni e benefici per il ripristino del sistema bancario europeo. Insomma “la struttura che avrebbe dovuto risolvere i problemi del sistema bancario europeo si è appropriata degli strumenti di intervento da parte delle autorità nazionali (che era la cosa giusta da fare), senza però ricostruire una struttura adeguata al livello europeo. Di conseguenza, né i governi nazionali né le autorità europee hanno ora il potere di agire”.
Ma c’è un problema ulteriore: dovrebbero essere le autorità italiane e le banche stesse, che potrebbero, e dovrebbero, evitare una vera crisi e, con questo effetto di riordino, offrire una ipotesi di soluzione ai livelli del sistema bancario europeo.
Ci sono ancora due problemi che vanno esaminati. In Europa ci sono banche molto grandi che possono essere riordinate da una iniziativa pubblica nazionale, del proprio paese, e poi essere rimandate sul mercato una volta esaurito il processo di risanamento.Ma ci sono anche mercati nazionali bancari nei quali si trovano sia banche che possano trasferire le proprie attività oltre i perimetri nazionali che banche che possano lavorare nell’ambito del mercato domestico in cui agiscono e, dunque, non dovrebbero incontrare particolari dimensioni globali. E potrebbero anche essere riorganizzate con le proprie forze ed il supporto degli organismi di vigilanza nazionale.
Queste due caratteristiche, non omogenee nel sistema europeo, potrebbero offrire soluzioni diverse proprio al sistema bancario italiano. Che presenta sia banche domestiche che banche che agiscono sul mercato locale e nazionale. Evidentemente questa eterogeneità del sistema bancario, che si è ristretto negli anni e si è concentrato per larghissima parte in meno di dieci banche nazionali, rispetto a circa 500 banche nazionali. Di fronte alla necessità di trovare una qualche forma di cooperazione tra la struttura degli strumenti e la natura delle istituzioni che intervengono nel riordino dl sistema bancario europeo si nota, infine, che dove esistano banche, che si allargano attraverso i perimetri degli stati nazionali nel mercato unico europeo, allora si deve intervenire in un regime di concertazione reciproca: tra Autorità, Stati e gruppi dirigenti delle banche e dei loro advisor. Non è cosa facile.
I nostri due economisti, la Reichlin e Vallée ci offrono due ulteriori opzioni. In primo luogo riflettere sulle organizzazioni ed i metodi delle imprese bancarie per trovare idonei processi di ricomposizione nel mercato del lavoro. In pratica, per quanto riguarda le risorse umane delle banche, a tutti i livelli di gerarchia. I regimi di corporate governance tra banche grandi e banche piccole sono da riordinare e non possono essere considerati come omogenei. Forse anche la struttura delle proprietà immobiliari delle banche europee dovrà essere ridimensionata, di fronte alla moneta digitale ed alle sue conseguenze. Sta di fatto che i due economisti ci indicano una sorta di studio di caso sull’Italia, per trovare una identità ed una presenza della nostra politica anche nel processo di riordino del sistema bancario europeo. Essi ci dicono che l’Italia avrebbe bisogno di mostrare come rompere i circoli viziosi e gli attriti di questa necessario riordino del sistema bancario europeo. Dicono anche che l’Italia, grazie alle sue risorse umane ed alle sue istituzioni, dovrebbe “dimostrare che si può essere sia un vigile del fuoco che un costruttore”. Una forza per distruggere ma anche per costruire. Questa non è una metafora di poco conto e sembra davvero un buon suggerimento!



7. Per concludere

Il mondo vive oggi di accelerazione nei tempi e nei modi per l’innovazione e la crescita. Le imprese, le banche e le Università – insomma le organizzazioni – devono agire in tre direzioni: aprire i propri confini reciprocamente; spingere verso nuove frontiere cognitive le proprie risorse umane; la competizione deve svilupparsi in una gestione caotica di progetti potenziali. Perché non sono le grandi gerarchie a costruire il futuro ma lo scambio tra una miriade di entità: un pulviscolo di organizzazioni che si muovono contemporaneamente.
Questa prospettiva potrebbe anche essere la leva capace di riportare il Mezzogiorno e l’Italia dalla crescita allo sviluppo. Sarà lunga questa strada da percorrere ma potrebbe lasciare alle spalle la contrapposizione tra la questione meridionale, centenaria, e la questione settentrionale: quando negli anni novanta scomparirono i partiti politici e, di conseguenza, la politica delle strategie e degli orizzonti di lungo periodo.
Due coppie possono descrivere le trasformazioni che stanno emergendo parallelamente: Economia ed Imprese, Politica e Società. Perché l’economia e gli imprenditori si stanno avviando verso una coesione reciproca produttiva mentre la politica affanna e la società, di fronte all’affanno della politica, riduce il proprio tasso di attenzione alla politica stessa.
Imprenditori e banche, invece, sono oggi al centro di una possibile ripresa, a condizione di avere un maggior grado di libertà, non certo di liberismo accanito.
Questo margine di libertà serve per ridimensionare gli attriti tra imprese e pubblica amministrazione; ma anche per ricostruire l’assenza di una visione di lungo periodo, da sottoporre agli attori della politica, per rianimare la meta della strada da percorrere: da parte della società che si aspetta, prima o poi, una domanda di partecipazione e di supporto per costruire nuove orizzonti.
Peccato che nella discussione di ieri abbiamo partecipato venti uomini mentre la presenza di opinioni offerte dal fronte delle donne avrebbe allargato non i contenuti ma i modi della discussione. Ma torniamo allo spazio degli imprenditori e delle banche come due nodi preoccupanti delle condizioni in cui agiscono oggi nel Mezzogiorno.
Di imprenditori capaci, in Campania, la regione più grande del Mezzogiorno, e nel mezzogiorno, ce ne sono sicuramente.
Sono quelli che hanno creato un salto di qualità per le risorse umane che hanno saputo gestire e qualificare e che hanno saputo profittare della caduta dei tassi di interesse, fino a zero, da parte di Draghi, che, così facendo, ha ridotto i tassi di cambio tra euro e dollaro mentre le imprese hanno allargato con le esportazioni i propri mercati: in Europa e nel mondo.
Ci sono, però, anche imprese piccole, forse troppo piccole, che questa opzione non possono praticare.
Ed, a fronte di queste grande numero di imprese piccole, ci ritroviamo con poche reti gestite dalle grandi banche italiane ed internazionali nel Mezzogiorno. La pattuglia della manifattura e delle filiere regionali (avionica, moda ed automotive) ha una sua consistenza ma la demografia della Campania, con i suoi sei milioni di abitanti, ha bisogno di diminuire la disoccupazione e di dare lavoro anche alle piccole imprese ed alle reti di servizi adeguate: collegando turismo, beni culturali e food&beverage. Per aprire una strada praticabile a questo gruppo di imprese più fragili serve una decisa ripresa di fiducia reciproca tra le banche e le stesse imprese. Alla forza per scommettere sul rischio la possibilità di rendere più grandi le imprese, le banche potrebbero articolare anche supporti ulteriori dell’industria finanziaria: dai mini bond ai consorzi di garanzia.
La Campania è la regione più grande del Mezzogiorno continentale ma la seconda regione è la Puglia. Insieme diventano 10 milioni di abitanti, ed aggiungendo le altre regioni meridionali, si arriva ad un mercato di 20 milioni di consumatori.
Irrobustire le imprese piccole o fragili, supportare le imprese di successo ed orientarle verso il mercato interno e non solo verso l’export, farsi affidare le risorse finanziarie dei fondi europei e nazionali dalle regioni per valutare e sviluppare grandi progetti infrastrutturali sarebbe un grande pianura da coltivare: per le banche del Sud sembrerebbe che debba e possa esistere un ragionevole spettro di mercati interessanti! Una rete leggera, ma efficace, tra le regioni meridionali sarebbe un tassello importante per dare una coerenza ed un collegamento con progetti nazionali di investimento. Banche, imprese ed università meridionali dovrebbero essere le colonne portanti di queste strategie.
Questa conclusione sarebbe la dimensione liberale rispetto agli attriti con la pubblica amministrazione centrale e le regioni meridionali. Lo Stato ed il Governo, del resto, devono accompagnare, ma non certo gestire in futuro, la crescita dell’economia.
Siamo in grado di aprire, oltre l’orizzonte nazionale, una stagione di recupero che ci consenta di arrivare almeno più vicino se non troppo al di sotto della crescita e dello sviluppo che si allargano nell’Unione Europea.
Mario Draghi ha individuato alcuni percorsi per il futuro ed alcuni giudizi per il recente passato prossimo.
“L’impianto dell’integrazione europea è saldo, i suoi valori fondamentali continuano a restarne la base, ma occorre orientare la direzione di questo processo verso una risposta più efficace e più diretta ai cittadini, ai loro bisogni, ai loro timori e meno concentrata sulle costruzioni istituzionali. Queste sono accettate dai cittadini non per se stesse ma solo in quanto strumenti necessari a dare questa risposta. In altre occasioni è stata invece l’incompletezza istituzionale che non ha permesso di gestire il cambiamento imposto dalle circostanze esterne nel miglior modo possibile. Si pensi all’Accordo di Schengen. Pur avendo eliminato in larga parte le frontiere interne dell’Europa, non ha previsto un rafforzamento di quelle esterne. Pertanto l’insorgere della crisi migratoria è stato percepito come una perdita di sicurezza destabilizzante. A questi bisogni, a questi timori l’Unione Europea, gli Stati nazionali hanno dato una risposta finora carente. I sondaggi, assieme al calo del sostegno all’integrazione economica europea, mostrano un’opinione pubblica che ha meno fiducia nell’Unione Europea e ancor meno negli Stati nazionali”.
Ciò non vale solo per l’Europa…negli Stati Uniti è diminuita la fiducia dei cittadini verso quasi tutte le istituzioni: la Presidenza, il Congresso e la Corte Suprema. Il fatto che si tratti di un fenomeno mondiale non può però essere di giustificazione per noi europei, perché noi soli nel mondo abbiamo costruito un’entità sovranazionale con la certezza che solo con essa gli Stati nazionali avrebbero dato quelle risposte che non erano stati capaci di dare da soli”. Questo è il suo giudizio ma da questa analisi discende un insieme di percorsi futuri: “Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza…Ma poiché l’Europa deve intervenire solo laddove i governi nazionali non sono in grado di agire individualmente, la risposta deve provenire in primo luogo dal livello nazionale. Occorrono politiche che mettano in moto la crescita, riducano la disoccupazione e aumentino le opportunità individuali, offrendo nel contempo il livello essenziale di protezione dei più deboli.
In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale…. A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli”.
Questo impianto si riconduce ad una conferenza nella quale Draghi aveva riportato alcune tesi di Alcide De Gasperi17.
Alla dimensione di queste opzioni politiche si deve aggiungere la consistenza dello stato economico dell’Unione Europea e del futuro prossimo che ci attende. In questo caso recuperiamo le scelte enunciate da Draghi in dicembre nell’ultimo Consiglio direttivo. “Per quanto riguarda le misure non convenzionali di politica monetaria, continueremo a condurre gli acquisti nell’ambito del programma di acquisto di attività (PAA) all’attuale ritmo mensile di 80 miliardi di euro sino alla fine di marzo 2017. Da aprile 2017 intendiamo proseguire gli acquisti netti a un ritmo mensile di 60 miliardi di euro sino alla fine di dicembre 2017 o anche oltre se necessario, e in ogni caso finché il Consiglio direttivo non riscontrerà un aggiustamento durevole dell’evoluzione dei prezzi, coerente con il proprio obiettivo di inflazione. Se, nel frattempo, le prospettive diverranno meno favorevoli o se le condizioni finanziarie risulteranno incoerenti con ulteriori progressi verso un aggiustamento durevole del profilo dell’inflazione, il Consiglio direttivo intende incrementare il programma in termini di entità e/o durata”.
Si profila, dunque, una progressiva riduzione del ritmo con cui la politica monetaria non convenzionale si riduce a 60 miliardi di euro dalla fine di Marzo al dicembre del 2017. Non si tratta di una frenata ma di un sorta di atterraggio morbido per adeguare la velocità degli aumenti del tasso di interesse in USA rispetto a quelli che, progressivamente, dovrebbero rimbalzare entro l’area dell’euro. La dimensione del futuro prossimo nella crescita è stata stimata dagli analisti della BCE e Draghi la indica in maniera puntuale: “Questa valutazione trova sostanzialmente riscontro nelle proiezioni macroeconomiche per l’area dell’euro formulate a dicembre dagli esperti dell’Eurosistema, che indicano un incremento annuo del PIL in termini reali dell’1,7% nel 2016 e nel 2017 e dell’1,6% nel 2018 e nel 2019. Rispetto all’esercizio condotto a settembre dagli esperti della BCE, le prospettive per l’espansione del prodotto sono sostanzialmente invariate. I rischi per le prospettive di crescita dell’area dell’euro restano orientati verso il basso”. Sulla base dei dati elaborati dalla Banca d’Italia il profilo di queste opzioni macroeconomiche diventa abbastanza lontano da quelle dell’Unione Europea: “Sulla base di queste ipotesi, la crescita dell’Italia proseguirebbe, sostenuta dalla domanda interna. Nel terzo trimestre di quest’anno il PIL dell’Italia è aumentato dello 0,3 per cento, dopo l’inattesa frenata registrata in primavera; le informazioni congiunturali indicano un’espansione dell’attività economica nel trimestre finale dell’anno a un ritmo appena inferiore. In media, il PIL dovrebbe aumentare dello 0,9 per cento quest’anno; crescerebbe dello 0,9 il prossimo e dell’1,1 per cento sia nel 2018 sia nel 2019. Tali valutazioni sono sostanzialmente in linea con quelle delle principali istituzioni internazionali. Nel confronto con le proiezioni macroeconomiche pubblicate lo scorso 6 giugno, prima dell’esito del referendum nel Regno Unito, la stima di crescita è più bassa, per circa 0,2 punti percentuali in media all’anno nel triennio 2016-18; la revisione riflette principalmente ipotesi meno favorevoli sull’andamento della domanda estera e dei tassi di interesse sui mercati internazionali. Gli investimenti si espanderebbero a ritmi più sostenuti del prodotto, pur non recuperando per intero il forte calo occorso durante la prolungata fase recessiva….Il rafforzamento dell’occupazione sarebbe stimolato principalmente dalla prosecuzione della crescita”18.
Nei fatti emerge come la crescita globale rimanga davvero modesta. Brexit non ha avuto finora ripercussioni particolari sulle condizioni dei mercati finanziari internazionali; l’economia globale continua a crescere a un ritmo contenuto.
Le prospettive sono lievemente migliorate nelle economie emergenti, ma restano incerte nei principali paesi avanzati. Nell’area euro la crescita è stabilizzata, l’inflazione resta bassa.
Come abbiamo già detto la politica monetaria rimarrà espansiva ma con un ridimensionamento dei volumi. Il Consiglio direttivo della BCE ha confermato che, se fosse necessario, sarebbe pronto ad intervenire ulteriormente con tutti gli strumenti a disposizione.
In Italia la ripresa continua a ritmi moderati mentre la accumulazione di capitale stenta ad aumentare.
Dal primo trimestre del 2015 gli investimenti si sono riavviati, ma la dinamica è rimasta modesta. Le esportazioni sono cresciute, ma risentono della congiuntura globale. Le esportazioni italiane sono aumentate nel secondo trimestre ma dopo l’estate appaiono segnali di indebolimento.
L’occupazione cresce più del prodotto ma l’inflazione al consumo rimane molto bassa. Il miglioramento delle prospettive dell’economia sta gradualmente recuperando la qualità del credito delle banche italiane: caratterizzate da una consistenza molto elevata di esposizioni deteriorate ereditate da una lunga recessione. Il Governo ha rivisto al ribasso le stime di crescita nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2016, presentata il 27 settembre scorso: a legislazione vigente il PIL aumenterebbe quest’anno dello 0,8 per cento e rallenterebbe allo 0,6 nel 2017, una stima che si colloca nella parte inferiore della distribuzione dei principali advisor internazionali. La politica di bilancio dovrebbe restare espansiva nel 201719.
Siamo alla fine del 2016 e le due minacce peggiori che l’economia italiana potrebbe accusare sono la crescente incertezza geopolitica e la divergenza tra la crescita nazionale dell’Italia e quella dell’area euro20. Senza contare la possibilità che proprio l’area del mercato, in cui agiscono alcuni Stati che utilizzano sia l’euro che la propria moneta nazionale, possano aumentare, anche oltre le soglie previste nell’area dell’euro, la propria capacità di crescita e di sviluppo. Ovviamente resta in piedi anche una terza minaccia: la potenziale degenerazione delle forze politiche italiane che potrebbe, anche nel 2017, irrigidire le leve dell’economia e della finanza e, dunque, mortificare ulteriormente l’eventuale presenza di una crescita capace di convergere verso le altre economie europee. Uno stop per il secondo anno consecutivo nel rallentamento della crescita sarebbe davvero troppo pericoloso. Ma la tentazione di arrivare alle elezioni anticipate nel 2017 sarebbe proprio il completamento di questo ulteriore problema.












NOTE

1 Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale
Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da Deutsche Börse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016. Che si può leggere athttps://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160125_1.it.html ^
2 Come le banche centrali affrontano la sfida dell’inflazione bassa, MarjolinLecture tenuta da Mario Draghi, Presidente della BCE, alla Conferenza SUERF organizzata dalla Deutsche Bundesbank, Francoforte, 4 febbraio 2016.
Si può leggere athttps://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160204.it.html ^
3 Dichiarazione introduttiva alla conferenza stampa, Mario Draghi, Presidente della BCE, Vítor Constâncio, Vicepresidente della BCE, Francoforte sul Meno, 10 marzo 2016. Che si può leggere at http://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2016/html/is160310.it.html ^
4 Negli ultimi dieci giorni del dicembre 2016, l’euro si avvicina ad 1,03 rispetto al dollaro americano.^
5 Si veda EuropeanEconomicForecast, Spring 2016” che si può scaricare at http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/eeip/pdf/ip025_en.pdf ^
6 Si veda il “Bollettino economico BCE”, n. 3 – 2016, che si può scaricare anche at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-eco-bce/2016/bol-eco-3-2016/bollecobce-03-2016.pdf ^
7 Affrontare le cause dei tassi di interesse bassi. Intervento di Mario Draghi, Presidente della BCE, in apertura della tavola rotonda dal titolo “Il futuro dei mercati finanziari: una diversa prospettiva sull’Asia” all’Assemblea annuale della Banca asiatica di sviluppo, Francoforte sul Meno, 2 maggio 2016. Che si può scaricare anche at
https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160502.it.html ^
8 Come la solidità economica interna può prevalere sulla debolezza mondiale. Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, al ricevimento organizzato da Deutsche Börse Group in occasione del nuovo anno, Eschborn, 25 gennaio 2016 che si può scaricare at https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160125_1.it.html.
Si veda anche la nota 1 di questo articolo.^
9 Si veda la relazione del Presidente, Vincenzo Boccia, Confindustria, Assemblea 2016, Roma 26 maggio, che si può scaricare anche at http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2016/05/26/DOCUMENTO_relazione-Boccia.pdf ^
10 Istat, Nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, Maggio 2016, che si legge at http://www.istat.it/it/files/2016/06/notamensile_maggio_16.pdf?title=Nota+mensile+n.+5%2F2016+-+07%2Fgiu%2F2016+-+Testo+integrale.pdf ^
11 Rapporto PMI Mezzogiorno 2016, Bari 20 aprile 2016, che si può leggere at http://www.confindustria.it/wps/wcm/connect/www.confindustria.it5266/f10cf269-0b49-4f92-975a-b0fc9b6d68e3/Rapporto+PMI+Mezzogiorno+2016+Momoni-Sabatini.pdf?MOD=AJPERES&CONVERT_TO=url&CACHEID=f10cf269-0b49-4f92-975a-b0fc9b6d68e3 ^
12 Massimo De Andreis, Un Sud che può ripartire, SRM, 20 aprile 2016 http://www.confindustria.it/wps/wcm/connect/www.confindustria.it5266/1744adaf-3727-46a1-95b3-82f527f839f7/Slide+Deandreis+Confindustria+Pmi.pdf?MOD=AJPERES&CONVERT_TO=url&CACHEID=1744adaf-3727-46a1-95b3-82f527f839f7 ^
13 Antonio Polito, A proposito di Brexit e non solo. La roulette russa nelle democrazie: usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto. Si legge at
http://www.corriere.it/cultura/16_luglio_05/roulette-russa-bf515854-4218-11e6-91d1-c0b7aa8f545f.shtml ^
14 Istat, 2 settembre 2016, Conti economici trimestrali. Si legge at
http://www.istat.it/it/files/2016/09/CET_16q2.pdf?title=Conti+economici+trimestrali+-+02%2Fset%2F2016+-+Testo+integrale+e+Nota+metodologica.pdf ^
15 Pier Carlo Padoan, Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2016, Ministero dell’Economia e delle Finanze; si può scaricare at http://www.dt.tesoro.it/modules/documenti_it/analisi_progammazione/
documenti_programmatici/Nota_di_Aggiornamento_del_DEF_2016_-_Finale.pdf ^
16 Resolving Europe’s Banking Crisis in Italy, Lucrezia Reichlin and Shahin Vallée,October 14, 2016, Project Syndicate, si può scaricare at https://www.project-syndicate.org/commentary/europe-italy-flawed-banking-union-by-lucrezia-reichlin-and-shahin-vallee-2016-10 ^
17 Riscoprire lo spirito di De Gasperi: lavorare insieme per un’Unione efficace e inclusiva.
Discorso di Mario Draghi, Presidente della BCE, in occasione del conferimento del premio Alcide de Gasperi, Trento, 13 settembre 2016.
Si può leggere athttp://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2016/html/sp160913.it.html ^
18 Banca d’Italia, Proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana, 9 dicembre 2016. Si può scaricare at https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/proiezioni-macroeconomiche/2016/Proiezioni_Macroeconomiche_Italia_Dicembre_2016.pdf ^
19 Si veda il “Bollettino Economico”, numero 4 / 2016 di ottobre; che si può scaricare at
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-economico/2016-4/boleco-4-2016.pdf ^
20 Sulle prospettive di una politica economica che possa integrare l’Europa, l’Italia ed il Mezzogiorno, per fare convergere la crescita di questo complesso di Stati ed Economie di Mercato, si può leggere il volume di MASSIMO LO CICERO, Quale politica economica? Europa, Italia, Mezzogiorno, Guida Editori, Napoli 2016.^
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