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Il referendum e la parabola della leadership
di Paolo Macry
Il voto italiano del 4 dicembre 2016 può essere letto come la sconfitta referendaria di una riforma costituzionale oppure – ed è l’interpretazione prevalente – come la sconfitta personale del leader politico che con essa si era esplicitamente identificato. In questo secondo caso, un episodio a scala nazionale, per quanto importante, potrebbe segnalare trasformazioni e tendenze che interessano l’intero Occidente europeo e atlantico. In particolare, il vistoso insuccesso di Matteo Renzi sembra la prova – l’ultima, ma non l’unica – che il fenomeno della personalizzazione della politica è entrato in una crisi della quale non si vedono ancora gli sbocchi. In Italia, ma ben al di là dell’Italia.
Per lungo tempo, la figura del leader carismatico ha costituito il fenomeno forse più rilevante, o quantomeno più vistoso, di una “nuova politica” affermatasi in diversi paesi occidentali nel tardo Novecento. Dagli anni Ottanta del secolo scorso, si è pensato che una leadership forte fosse la chiave di volta, se non l’unica chiave di volta, di una competizione politica che appariva sempre meno controllata dalle storiche e a lungo ferree organizzazioni territoriali dei partiti. I partiti vedevano declinare la propria legittimazione, le culture politiche erano svaporate nella grande crisi delle ideologie novecentesche, la militanza diminuiva a vista d’occhio, il consenso si assottigliava: soltanto un leader forte sembrava in grado di garantirne la sopravvivenza. Apparve chiaro che era destinato a vincere chi avesse potuto disporre di un leader capace di stabilire un rapporto diretto e sintonico con l’opinione pubblica, utilizzando le risorse comunicative che il grande sviluppo tecnologico dei media metteva a disposizione (la “democrazia del pubblico”, Bernard Manin). Le teorie del leader carismatico nascevano, con ogni evidenza, dall’osservazione dei processi politici che avevano portato sulla scena pubblica personalità particolarmente efficaci come Margaret Thatcher, Tony Blair o Francois Mitterand. Per non dire, in contesti molto diversi dall’Occidente europeo, di Gorbacev e Reagan. Dopo decenni trascorsi in sistemi politici gestiti da organizzazioni di partito a guida collettiva e governati da un ceto di eletti subordinati a quei partiti e a indocili coalizioni parlamentari, né particolarmente incisivi sul piano personale, le opinioni pubbliche europee e nord-atlantiche videro ricomparire (e lo assecondarono) il protagonismo di leader che sembravano sussumere nella propria individualità l’intero processo politico.Dai tempi dei capi supremi dei regimi totalitari, del caminetto di Roosevelt, dei discorsi di guerra di Churchill o De Gaulle e poi, nel dopoguerra, dalla breve ma straordinariamente popolare stagione di John F. Kennedy, la personalizzazione della politica non si era più manifestata in modi così evidenti. I teoremi delle scienze sociali sul tema della leadership nacquero in questo contesto mondiale. E intesero il trend come un fenomeno positivo, che rafforzava la tradizionale rappresentanza, garantendo una più efficace partecipazione popolare alle sorti della comunità politica.
In Italia, intorno agli anni Novanta del Novecento, fu Mauro Calise, tra i primi, a individuare e sistematizzare queste tendenze. Il leader carismatico sembrava compensare la crisi (particolarmente intensa nel nostro paese) dei tradizionali canali di formazione del consenso, cioè dei partiti. Ad essi, grazie alla propria capacità di essere immediatamente riconosciuto dall’elettorato, alla personalizzazione della raccolta del consenso, al superamento dell’intermediazione organizzativa, alla centralizzazione della comunicazione, il leader sostituiva un proprio partito. E il partito, libero simbolicamente e concretamente dalle pastoie di reti e apparati tradizionali, diventava un “partito personale”. Un partito del presidente. Le vicende italiane, del resto, sembravano confermare la teoria. Già Bettino Craxi, nel tardo Novecento, aveva esercitato un controllo assoluto sul proprio partito, il Psi, e aveva cercato di stabilire un rapporto forte e diretto con il paese, presentandosi nelle vesti del leader innovatore, energico, decisionista. Aveva fatto balenare all’opinione pubblica una “grande riforma” capace di superare, attraverso il rafforzamento delle prerogative governative, le lentezze e le mediazioni del parlamentarismo, l’inefficienza della macchina amministrativa, la crescita anomala della magistratura come potere indipendente, la scarsa trasparenza della cosiddetta partitocrazia. Aveva toccato le corde dell’amor di patria, se non del nazionalismo, esaltando il paese e la sua indipendenza geopolitica (si ricordino le tensioni con gli Stati Uniti nell’episodio di Sigonella o la retorica su un’Italia capace di superare il Pil della Gran Bretagna). Aveva azzardato e vinto un referendum sulla scala mobile che era anche una sorta di plebiscito sulla propria leadership. Ma poi era stata la lunga stagione di Silvio Berlusconi a proporre in modo prepotente il modello della personalizzazione della politica, nella versione altamente mediatica di RossPerot, l’imprenditore e miliardario che nel 1992 (e poi nel 1996) aveva tentato, come indipendente, la scalata della Casa Bianca. Calise, peraltro, faceva riferimento anche al fenomeno dei nuovi sindaci ad elezione diretta, che nell’Italia di fine Novecento avevano proposto il fenomeno di leadership cittadine molto popolari, efficaci sul piano della comunicazione politica, relativamente autonome dai propri stessi partiti: una sorta di presidenzialismo carismatico che avvicinava elettori ed eletti (salvo il rischio di una qualche forma di plebiscitarismo).
Da quegli scenari e da quelle teorie, molta acqua è passata sotto i ponti. E la politica del carisma ha assunto connotazioni diverse. Negative e preoccupanti, a detta di numerosi osservatori. Negli ultimi anni, investito da una crisi strutturale, geopolitica e culturale di dimensioni epocali, il volto stesso dell’Occidente sembra cambiare progressivamente fisionomia (sebbene l’Occidente, oltre che una realtà profonda, resti una sommatoria di processi e contesti molto differenti: il che dovrebbe mettere in guardia dalle generalizzazioni). Ed è significativo che, per definire la fenomenologia della crisi, si ricorra non di rado alla categoria di populismo, cioè a un modello politico che vive nel rapporto forte e privo di mediazioni tra un capo carismatico e le masse popolari e che, al tempo stesso, è caratterizzato da messaggi comprendenti, in diversa miscela, demagogia, retorica della democrazia diretta, polemica aspra con i partiti e le corporazioni sociali, antagonismo rispetto al cosiddetto establishment. Messaggi che spesso collocano i movimenti all’estrema destra dell’arco politico.
Si tratta, come si vede, di una torsione sostanziale del modello del leader carismatico. Il populismo odierno, che appare lontano dal populismo storico di matrice slava o statunitense, è visto come una reazione ai fenomeni della globalizzazione e dunque intrecciato a forme di isolazionismo, nazionalismo, xenofobia e, nel Vecchio Continente, antieuropeismo. Sotto questo ombrello concettuale, che in verità appare molto articolato nella sua concreta casistica e dunque troppo generalizzante, scienziati sociali e opinionisti hanno collocato, volta a volta, le fortune di movimenti politici emersi negli ultimi anni nell’Europa centro-orientale, ma anche in paesi di lunga tradizione democratica come la Francia e l’Inghilterra: il Partito della Libertà austriaco di Norbert Hofer, il Partito della Libertà olandese di Geert Wilders, il Front National di Marine Le Pen, il polacco Diritto e Giustizia di Jaroslaw Kaczynski, l’Unione Civica Ungherese di Victor Orban, il partito Alternative für Deutschland di Frauke Petry, ecc. Si tratta di formazioni politiche di diversa consistenza, ma, significativamente, tutte in fase ascendente: quasi che componessero le tessere di un unico disegno e di un unico processo. Le ultime tappe di una simile onda, che talvolta appare agli osservatori pressoché invincibile, sono state la vittoria del Leave nel Regno Unito e la conquista della Casa Bianca da parte di Donald Trump.
Il punto di interesse, a parere di chi scrive, è che la crescita dei movimenti cosiddetti populistici sembra avvenire in presenza di un indebolimento del modello della personalizzazione leaderistica. Con la conseguenza che, tra il weberiano potere carismatico e il fenomeno populistico, è quest’ultimo che promette di avere sempre più vento nelle vele. Il populismo, detta con uno slogan, sembra in grado di poter fare a meno dei leader carismatici. E le leadership personali, anche le leadership riformiste di matrice liberale o socialdemocratica, poco possono, a loro volta, di fronte alle spinte populistiche. Il popolo si mostra come un soggetto in parte indecifrabile e diventa rischioso appellarsi alla sua volontà, come ha osservato di recente, con un paradosso, Nial Ferguson.
Per comprendere cosa stia cambiando, proprio l’esito del referendum costituzionale italiano appare indicativo. Quanto accaduto il 4 dicembre, infatti, mette in questione in modi particolarmente bruschi lo spazio nel quale si muove oggi un leader carismatico. Matteo Renzi sembrava avere tutti i crismi del leader carismatico: contestuali e personali. Aveva fatto la propria comparsa sulla scena nazionale in una congiuntura piena di criticità e quindi, non tanto paradossalmente, tra le più favorevoli per l’affermazione di una leadership a forte caratura personale. Il quadro politico era fragilissimo, segnato dalla fine del centrodestra berlusconiano, cioè dalla crisi di rappresentanza di una grande parte dell’elettorato. Aveva potuto prendere la guida di un Partito Democratico molto debole, perché lacerato tra le storiche componenti post-comunista e post-democristiana e abbandonato, in periferia, ad una sommatoria di micronotabili spesso di modesta qualità. Si era presentato come il deus ex machina di un paese in profonda crisi economica, disorientato culturalmente, divaricato come non mai tra Centro-Nord e Sud, spaccato sul piano generazionale. A quel paese offriva un “racconto” di ottimismo e di volontarismo, proponendosi in modo esplicito come l’alternativa a movimenti antagonistici di sinistra e di destra, dal M5S di Beppe Grillo alla Lega di Matteo Salvini. E poi, non ultimo, si presentava con l’immagine del giovane informale, energico, irriverente, wired. E giovani erano i suoi ministri.
Una sfida aperta, dunque, al populismo, nel segno di una leadership personale di forte caratura simbolica.Ma il 4 dicembre scorso,Matteo Renzi è stato sconfitto pesantemente dal paese, che mai come questa volta ha affermato in modo chiaro e univoco le proprie convinzioni: sono andati in molti a votare e sono stati molti i voti contrari alla riforma costituzionale, ovvero, in realtà, a Renzi. Gli ha voltato le spalle il Centro-Nord che sta uscendo dalla crisi e il Sud della disoccupazione di massa. I cosiddetti ceti medi impoveriti e i poveri d’antan. E la grande maggioranza dei giovani: giovani come lui e come lui wired. La sua leadership si è rivelata, insomma, poco carismatica. Oppure, ed è l’ipotesi di queste pagine, sta accadendo qualcosa che smentisce il modello della personalizzazione della politica: il carisma non fa più presa sulle opinioni pubbliche. Il che può essere detto anche in altro modo: le opinioni pubbliche si vanno autonomizzando dai leader.
La tendenza, se si vedono le cose da questo punto di vista, non è soltanto italiana. Sebbene in tutto l’Occidente, cioè nella sua storica terra d’origine, la forma-partito versi in condizioni critiche, non per questo il processo politico appare dominato da leader forti, in grado di surrogare il ruolo di quei partiti e di controllare con piglio bonapartista i propri paesi. Dopo tutto, la battaglia di Brexit si è combattuta tra un premier fragile come David Cameron e un leader caduco come Nigel Farage. E di capi carismatici non se ne vedono molti, nei temutissimi movimenti populistici che fioriscono sulle due sponde dell’Atlantico. Non è il caso di Marine Le Pen (più carismatico, semmai, era Jean-Marie) o di chi si prepara a contenderle l’Eliseo. Lo stesso Donald Trump ha un profilo fin troppo atipico, divisivo, controverso per essere carismatico. Se si guarda alle recenti presidenziali americane, è chiaro come sia stata la protesta anonima di un’America alle prese con trasformazioni sociali e culturali profonde, più che l’efficacia personale del tycoon, a decidere la corsa per la Casa Bianca. Ciò che manca ai grandi e piccoli protagonisti di un Occidente in bilico tra mondializzazione e isolazionismo è quella miscela di forza politica e prestigio personale di cui godono, ma in tutt’altri contesti storici e istituzionali, un Erdogan o un Putin.
Quanto al nostro paese, oltre al ridimensionamento del carismatico Renzi, molte cose sembrano muoversi nella direzione di una politica post-leaderistica. Perfino il movimento pentastellato, che all’inizio era apparso come la personalissima creatura di un comico dalle grandi qualità tribunizie, sta cambiando faccia, se non natura. Grillo è ancora in scena, ma sugli schermi televisivi il messaggio del M5S viene ormai affidato ordinariamente a giovani non particolarmente carismatici, né politicamente irresistibili. Appare difficile credere che Di Battista, De Maio, Fico possano assurgere ai fasti del potere personale. E, peraltro, i sondaggi dicono che, pur senza Gianroberto Casaleggio e con un Grillo piuttosto defilato, il movimento mantiene una forte presa sull’opinione pubblica. Vive di luce autonoma, più che della luce riflessa del capo carismatico. Si esprime attraverso quella che appare sempre più come una normale classe dirigente di partito. Ma anche la Lega, nel corso del tempo, ha finito per sostituire lo straordinario capopopolo Bossi e la sua mitica ampolla padana con la demagogia tutto sommato compunta – una sorta di demagogia borghese – di Matteo Salvini. Anche nelle fortune della Lega, cioè, sembra pesare maggiormente la domanda di un elettorato populista e xenofobo che non l’offerta di una guida carismatica.
È in questa prospettiva che la sconfitta referendaria del leader Renzi non stupisce. La sua efficacia mediatica e fisiognomica non ha funzionato a dovere. Né ha potuto salvarlo il partito personale. Il 4 dicembre, gli elettori hanno scelto in base ad altri e non omogenei criteri. Probabilmente non è più tempo di seduzioni. L’opinione pubblica sembra muoversi senza badare alle indicazioni dei partiti, ma, al tempo stesso, appare sempre più emancipata anche dalla forza comunicativa dei leader. Segue sentieri propri, che sono talvolta tradizionali e talvolta nuovi: reagisce a processi strutturali (occupazione, redditi, ecc.), riscopre discriminanti classiste, afferma identità generazionali, sostituisce alle storiche intermediazioni i processi aggreganti della rete telematica e dei social network. Mostra, comunque, un’autonomia irriducibile ai partiti e agli stessi leader. La politica è perciò invitata a cercare altre strade di consenso. E sembra fin troppo chiaro che “addomesticare” questo tipo di opinioni pubbliche e ricavarne la necessaria legittimazione sarà, per la democrazia liberale dell’Occidente, un processo lungo e difficile. Serviranno idee nuove, modelli teorici, proposte operative e, a monte, la capacità di capire quel che sta succedendo.
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