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Trump: Tutto da vedere
di G. G.
Negli Interventi di questo fascicolo iniziale del nuovo anno 2017 i nostri lettori ritroveranno le nostre impressioni, giudizi e commenti sui risultati del referendum istituzionale del 4 dicembre 2016, a cura nostra, di Adolfo Battaglia e di Paolo Soddu. Segnaliamo, inoltre, anche, al riguardo, l’articolo di Paolo Macry sulla “parabola della leadership”. Qui vorremmo richiamare l’attenzione sui mutamenti – non pochi, e per nulla trascurabili – che, mentre si svolgeva in Italia la campagna elettorale referendaria, si producevano nel contesto internazionale per effetto di altre vicende elettorali, a cominciare dalle primarie per le elezioni presidenziali francesi del 2017, che hanno riservato numerose sorprese. Si pensi solo al più che imprevedibile ritiro, fra i socialisti, dell’attuale presidente François Hollande da una competizione, alla quale, se non ci inganniamo, i suoi predecessori hanno sempre partecipato, dinanzi all’annuncio del ministro Manuel Valls di volersi presentare alle primarie presidenziali anche se vi avesse partecipato Hollande; o all’improvviso emergere della candidatura di François Fillon, che ha nettamente prevalso sul favorito Alain Juppé, sull’opposto fronte della destra.
Tra le varie altre consultazioni elettorali che si sono susseguite negli ultimi mesi, indubbiamente assorbente, e certamente e di molto prevalente per ampiezza di significato e per presumibile vastità degli effetti che ne conseguiranno nel prossimo futuro, è stata, tuttavia, per generale parere, la vittoria di Donald Trump nella competizione per la presidenza degli Stati Uniti. E assorbente non solo perché sempre, e in ogni caso, ciò che accade negli Stati Uniti riguarda e condiziona ciò che accade in tutto il resto del mondo in misura molto più generale e profonda di quanto accade per altri paesi. Assorbente ancor più è apparsa la vittoria di Trump soprattutto per il significato, che ad essa si è dato, di uno sconvolgimento radicale nella tradizione politica americana.
Con Trump – si è detto – si è affermata una costellazione elettorale nuova nella sua composizione. I sondaggi prevedevano, come si ricorderà, fino agli ultimi giorni della vigilia elettorale, una vittoria di Hillary Clinton. E, in effetti, il pronostico è stato anche rispettato nel risultato elettorale, che ha visto prevalere la Clinton per un paio di milioni di voti su Trump. Ma, come si sa, negli Stati Uniti non è il numero assoluto dei voti a determinare la vittoria dell’uno o dell’altro candidato. È, invece, il numero dei “grandi elettori” (ai quali è affidata poi specificamente l’elezione del presidente) assegnati a ciascuno degli States, che in ognuno di essi vengono attribuiti tutti a chi in quello Stato è prevalso. Il fatto che in alcuni degli Stati maggiori abbiano vinto i democratici e vi abbiano, quindi, raccolto per intero il gran numero di “grandi elettori” ad essi assegnati (55 in California, 33 a New York) non ha impedito che le numerose vittorie (alcune inaspettate) di Trump negli Stati minori (alcuni dei quali tradizionalmente democratici) e la sua sorprendente vittoria in uno degli Stati maggiori (l’Ohio, anch’esso tradizionalmente democratico) gli procurassero un numero di “grandi elettori” largamente sufficiente ad assicurarne l’elezione a presidente.
Ciò ha spinto molti osservatori e commentatori americani a reclamare una modificazione del sistema elettorale presidenziale, rendendo decisivo il numero dei voti popolari confluiti sull’uno o sull’altro candidato anziché l’assegnazione dei “grandi elettori” Stato per Stato interamente a chi vi è localmente prevalso. È molto difficile, però, che la tesi di una tale modificazione riesca a prevalere. Vi è coinvolto, fra l’altro, il principio della parità di ogni Stato, quale che ne sia la popolazione, in quanto componente dell’Unione: un principio assolutamente intoccabile nell’ordinamento americano.
Difficile è anche che si rinunci alla tradizione della elezione del presidente mediante il sistema della votazione di secondo grado, che, da un lato, significa eleggere il presidente con una votazione sottratta alle agitazioni e ai tumulti delle elezioni di primo grado (i “grandi elettori” non hanno alcun limite al loro mandato); dall’altro lato, assicura che si eviti la frammentazione dei votanti finali (i “grandi elettori”) che si avrebbe se questi votanti fossero eletti secondo il numero dei voti riscossi in ciascuno Stato da ciascuno dei candidati (che sono sempre più di due). E, del resto, anteporre la rappresentanza dei collegi istituzionali alla rappresentanza del numero di voti riscossi da ciascun candidato rientra, come si sa, in una inveterata tradizione del mondo anglosassone. In Inghilterra i liberali per anni presero milioni di voti (fino a sette) senza quasi avere rappresentanza nella Camera dei Comuni; e più di una volta è accaduto che il partito vincente nelle elezioni avesse meno voti del partito battuto proprio perché i voti di ciascun collegio non si sommano a quelli di tutti gli altri collegi in quanto, ai fini elettorali, eletto il rappresentante del collegio, dei voti espressi in ogni collegio non si fa più conto.
Il problema del sistema elettorale presidenziale certamente non è destinato, perciò, ad agitare più di tanto le acque del dibattito politico degli Stati Uniti. La grande questione resta, da ogni punto di vista, quella del significato della vittoria di Trump. A parte l’accennato giudizio circa lo sconvolgimento che questa vittoria significherebbe col sistema e nella tradizione americana per la costellazione elettorale prevalsa, e ritenuta inedita, non vi è molto altro su cui le analisi e i commenti concordino.
Un motivo molto diffuso in tali analisi a commenti è stato quello del “populismo” che caratterizzerebbe la posizione non solo elettorale, ma anche politica di Trump. Un altro motivo quasi altrettanto diffuso è stato quello della ideologia di destra e di una conseguente politica che contrassegnerebbero la linea di Trump e i suoi intenti; e ancora un altro motivo affiorato è quello della plutocrazia a base delle visioni e delle scelte di Trump, che ad alcuni è apparso confermato dalle prime nomine del presidente eletto.
A nostro avviso, queste varie tesi potrebbero benissimo non essere alternative fra loro, ma certamente ciascuna di per sé è del tutto insufficiente alla rappresentazione e comprensione di quanto è accaduto nella elezione presidenziale americana. E si noti pure che “populismo”, “destra”, “plutocrazia” sono termini del linguaggio politico europeo che non si possono ritenere spendibili senz’altro, tali e quali, nella realtà degli States, dove ciascuno di quei termini ha altre significazioni, in tutto o in parte diverse da quelle europee. Solo in linea molto generale può, inoltre, ritenersi che tutte insieme quelle tre motivazioni (populismo, destra, plutocrazia), rapportate alla realtà americana, colgano effettivamente molto, anche se, magari, non il più, o il più importante e decisivo, della novità costituita da Trump. E se vi si aggiungesse anche un quarto motivo – un “isolazionismo” condito e mescolato con un “nazionalismo” di tipo americano – altrettanto probabilmente ci si avvicinerebbe ancor di più a quella novità.
La nostra impressione è, comunque, che la novità Trump sia effettivamente, e in tutti i sensi, una novità, che solo l’esperienza dei fatti a cui darà luogo permetterà di intendere – e molto probabilmente, o per lo più, a poco a poco – nel suo effettivo significato e nelle direzioni che segnerà nella politica interna ed estera del grande paese a capo del quale Trump, dal 20 gennaio 2017, si troverà a operare.
La novità Trump è, insomma, un “tutto ancora da vedere”. Per quanto di novità effettivamente si tratterà, o possa trattarsi, non è prevedibile che essa possa alterare o modificare in misura cospicua alcuni tratti fondanti non solo della tradizione americana, ma anche di esigenze e di interessi consolidati della politica degli Stati Uniti. Per la politica estera ciò è ancora più evidente. Tutto quel che si dice sull’idillio Trump-Putin andrà, ad esempio, controllato sull’azione che in concreto il presidente americano svolgerà; e altrettanto si dica per quanto riguarda la Cina e l’Europa, Israele o il Medio Oriente e il Mediterraneo. Anche nella politica interna, però, le possibilità sovvertitrici o innovative di Trump appaiono più o meno rigorosamente definite dai punti fermi che la storia americana dai tempi di Franklin D. Roosevelt a oggi ha fatto registrare. Gli Stati Uniti, non diversamente da ogni altro grande o piccolo paese, non possono, insomma, evadere troppo liberamente e, meno che mai, evadere del tutto dalle loro coordinate storiche, politiche, sociali, culturali, a meno di eventi, nel pieno senso letterale del termine, rivoluzionari; e, per quanto è dato a tutt’oggi di capire e prevedere, il taglio del politico Trump non sembra quello del vero rivoluzionario. La vera novità sarebbe quella di scoprirlo effettivamente tale, e, se risultasse vera, sarebbe di certo una novità di prima grandezza e dalle imprevedibili conseguenze.
Dando, comunque, per fondato e accettabile quanto abbiamo finora osservato, ben più importante di simili fatalmente azzardate previsioni di giudizio sarebbe un bilancio sereno e completo degli otto anni di Barack Obama per procurarsi elementi indispensabili e realistici del punto da cui partirà la gestione Trump. Questi otto anni si sono conclusi con la tensione con la Russia coltivata in ultimo da Obama per la polemica sulle interferenze telematiche ed elettorali imputate ai russi nella campagna americana per la presidenza; e con la tensione anche maggiore che il presidente uscente ha provocato con Israele dopo il voto contrario dato all’ONU sui nuovi insediamenti di Israele nei territori disputati con i palestinesi. Anche a prescindere da tali più recenti avvii, si sa che è andata via via crescendo, nel corso soprattutto del suo secondo mandato presidenziale, la tendenza a un giudizio non positivo, o alquanto poco positivo, della complessiva azione di governo di Obama. Senza assolutamente prescindere dagli elementi che possono ispirare e motivare un tale giudizio, a noi sembra che, nel complesso, un tale giudizio sia ingeneroso e infondato, e per la politica interna del presidente uscente forse ancor più che per la sua politica estera. La partenza di Trump potrà certamente farlo capire ancora meglio. Ma sarebbe un atto di giustizia storiografica e di intelligenza politica certamente, e da molti punti di vista, oltremodo utile giungere, comunque, a un giudizio su Obama e sulla sua duplice presidenza al di fuori delle polemiche e delle passioni o interessi o altro di effimero, che fatalmente condiziona la grande maggioranza di coloro che oggi ne parlano, dentro e fuori degli Stati Uniti.
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