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La trilogia di Sossio Giametta
di Alessandro Novembre
Sossio Giametta (Frattamaggiore, 1929) è noto tra gli studiosi schopenhaueriani principalmente per le sue traduzioni italiane di Schopenhauer (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Milano 1995; Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano 2006; I due problemi fondamentali dell’etica, Milano 2008; Sulla volontà nella natura, Milano 2010) e di Nietzsche (del quale ha tradotto tutte le opere più quattro volumi di frammenti postumi, collaborando all’edizione curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari). Queste iniziative, pur nella loro grande rilevanza culturale e editoriale, rappresentano solo una parte della sua ricca attività intellettuale, che lo ha visto anche traduttore di Cesare, Spinoza, Goethe, Hegel e Freud, nonché autore di libri di saggistica filosofica e letteraria.
I tre volumi Il bue squartato (Milano 2012), L’oro prezioso dell’essere (Milano 2013) e Cortocircuiti (Milano 2014), che qui recensiamo, costituiscono idealmente un’unica opera tripartita e rappresentano il bilancio propriamente filosofico, o teoretico, della sua radicale e appassionata frequentazione di tutti quegli autori. La tripartizione concerne non tanto il contenuto, quanto piuttosto la forma: il primo volume è un’intervista condotta da Giuseppe Girgenti, Professore di Storia della Filosofia antica presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano; il secondo volume è una raccolta di saggi filosofici; il terzo volume è una raccolta di elzeviri e altri pezzi brevi introdotti da un racconto autobiografico.
Giametta non prova alcun imbarazzo, né ha alcuna reticenza, ad affrontare apertamente i problemi “tradizionali” della filosofia, come l’essere, il divenire, la verità, l’esistenza di Dio, il male nel mondo, la libertà – tutti quei problemi che l’uomo può soltanto, più o meno consapevolmente, cercare di mettere da parte (e oggi sembra appunto questa la principale regola di galateo della filosofia accademica), a tutto vantaggio dei più disparati divertissements, finanche intellettuali o, in senso molto depotenziato, “filosofici”. Giametta si serve perciò, correntemente, di una terminologia e di una concettualità che oggi molti ritengono superate. Consapevole di questa urtante “inattualità”, egli la rivendica (nietzscheanamente) come un contrassegno di valore (cfr. p.e. Il bue squartato, p. 143). D’altra parte, il ricorso alla medesima terminologia dei “suoi” autori gli consente di instaurare con essi un dialogo diretto e molto intenso, che investe sia l’interna consistenza dei loro sistemi, sia la capacità, da parte di questi ultimi, di rendere conto in modo adeguato o esauriente del «mondo» che, nostromalgrado, ci sta davanti. Il dialogo diviene così, immediatamente, un grande agone filosofico, nel quale l’inevitabile – e pur nobile – venerazione per i maestri deve essere sacrificata all’amore per la verità (Amicus Plato…; cfr. Cortocircuiti, pp. 15-16). Di questo agone e di questo ingente “sacrificio” – che finisce col coinvolgere altri grandi pensatori occidentali (come Platone, Agostino, Vanini, Marx e Heidegger) – potremo qui presentare solo alcuni momenti. Si rilevi intanto che questa coraggiosa impostazione di fondo porta Giametta a confrontarsi principalmente con i “suoi” autori e, più in generale, con gli autori “classici”.
Tra i suoi “maestri” e interlocutori ideali,Giametta riserva un ruolo privilegiato a Schopenhauer: «Per quello che ne so io, Il mondo di Schopenhauer è il più bel libro di filosofia, il più completo, il più profondo. Forse bisogna aggiungere anche il più onesto, per la lealtà verso il lettore» (Il bue squartato, p. 62). È «il più bello», perché la visione del mondo esposta in esso, nonostante «la monumentale costruzione concettuale su cui è basata […], è una visione ad alto tasso poetico; è la visione di un poeta tragico»; questa «strutturazione artistica» è ciò che «rende l’opera impressionante e indimenticabile, fonte di vere e proprie conversioni filosofiche» (L’oro prezioso dell’essere, p. 252). È il libro «più completo», perché in esso convergono, in modo quasi miracoloso, i tre grandi e distinti talenti, ovvero le tre “anime”, di Schopenhauer: il filosofo, il moralista e l’artista (Il bue squartato, p. 65). Da questa straordinaria ricchezza dell’opera deriva la sua peculiare complessità, che sfocia talvolta persino in una conflittualità interna di quelle tre dimensioni, nessuna delle quali è disposta a subordinarsi naturalmente alle altre. Le contraddizioni della filosofia schopenhaueriana rappresentano infatti, secondo Giametta, l’altra faccia della medaglia della sua ricchezza: più precisamente, esse si originano dalla convivenza del filosofo in senso stretto, che mira a ricondurre tutta la realtà ai principi fondamentali del sistema, e del moralista, che predilige invece l’istanza dell’esperienza immediata, il punto di vista dell’uomo; ne risulta un intreccio problematico e grandioso di filosofia e moralismo, «che nessun altro filosofo offre con la stessa articolazione, efficacia e pregnanza» (Idem, pp. 65-66; L’oro prezioso dell’essere, pp. 251ss.). Il mondo come volontà e rappresentazione è inoltre il «più profondo» tra tutti i libri di filosofia, perché il sistema esposto in esso «può vantarsi di essere la stele di Rosetta che permette di decifrare il linguaggio misterioso inscritto nella natura, come nessun sistema aveva fatto prima» (L’oro prezioso dell’essere, p. 269; cfr. anche Il bue squartato, pp. 70ss.). È infine il libro «più onesto», non solo per la sua ineguagliata chiarezza, ma anche «per la coraggiosa ammissione del male senza edulcorazioni»: Schopenhauer chiama il male, semplicemente, «male» (Il bue squartato, p. 62). Al contrario di Hegel, che affermava di guardare in faccia il negativo, ma solo per poi risolverlo in un positivo superiore, Schopenhauer fissa il negativo così bene e così a fondo, da non poter più pensare di risolverlo – quel negativo radicale, che si manifesta non soltanto come male e dolore, ma anche solo come l’impossibilità di comprendere esaustivamente la vita stessa.
La disincantata tematizzazione del male e del dolore del mondo costituisce uno dei principalimeriti filosofici di Schopenhauer, ma è da lui così potentemente formulata, da far sì che il suo sistema risulti addirittura, su questo specifico punto, unilaterale ed eccessivo: «È criticabile per esempio la negazione della gioia che non sia un liberarsi dal male e dal bisogno […]. Nel respirare ci sono due felicità, canta Goethe, una è l’inspirare e l’altra è l’espirare» (L’oro prezioso dell’essere, p. 257). Il mondo come volontà e rappresentazione è, secondo la celebre metafora di Jean Paul, un freddo e malinconico lago norvegese, su cui non si specchia mai il sole; «ma il sole c’è e brilla sempre […], anche quando da noi è notte. Brilla sui buoni e sui cattivi» (Idem, p. 258).
Analoga – e in una certa misura conseguente – unilateralità negativa presenta agli occhi di Giametta la determinazione del «fondamento della morale» nella compassione, Mitleid, e «l’esclusione della Mitfreude, la gioia che si prova per la felicità degli altri: una cosa bella e umana come poche altre, simmetrica al Mitleid […], col suo stesso valore» (L’oro prezioso dell’essere, p. 288). Esistono casi eminenti di moralità («un artista, uno scienziato, un politico, che lottano per tutta la vita per dare all’umanità o alla società il frutto del loro ingegno», oppure un soldato che uccide i nemici per eroismo) non immediatamente riconducibili alla compassione (Ibidem). Il vero fondamento della morale è piuttosto, secondo Giametta, «la solidarietà biologica dei membri della specie», che può connotarsi in “positivo”, come Mitfreude, oppure in “negativo”, come Mitleid (Ibidem). In virtù dell’appartenenza alla specie e della sua conformazione di individuo, l’uomo «vive in una tensione continua tra forze centripete e forze centrifughe: è la tensione morale»; «la mente appartiene all’individuo, il cuore alla specie» (Idem, pp. 287-288).
La dottrina schopenhaueriana della «libertà intelligibile» della volontà è, secondo Giametta, un ulteriore punto debole del sistema, anzi quasi un corpo estraneo, perché consta di affermazioni che non rispettano, ma varcano, il limite dell’esperienza (L’oro prezioso dell’essere, p. 269). Certamente, da un punto di vista strettamente sistematico, la dottrina del carattere intelligibile e della «libertà» a esso connessa costituiscono un tratto epistemologicamente problematico del pensiero di Schopenhauer; le ricerche più recenti, tuttavia, documentano come la metafisica della volontà sia stata formulata da Schopenhauer anche come uno sviluppo della dottrina del carattere intelligibile esposta nella Dissertazione del 1813 (cfr. p.e.M. Koßler, Die Entstehung von Schopenhauers Willensmetaphysik, in Goethe, Schopenhauer, Nietzsche. Saggi in memoria di Sandro Barbera, a c. di G. Campioni, L. Pica Ciamarra, M. Segala, Pisa 2011, pp. 441-449).
In ogni caso, lo sgretolamento del nostro naturale narcisismo e del conseguente antropomorfismo, che ci inducono a credere di poter asservire e sistematizzare (o “razionalizzare”) la vita una volta per tutte, viene indicato da Giametta come uno dei più grandi e peculiari risultati della filosofia di Schopenhauer, il quale, sulla scia di Kant (e in aperto contrasto con gli idealisti), ha denunciato la vanità – nel senso sia di presunzione, che di inconcludenza – di ogni umano «assalto al cielo» (L’oro prezioso dell’essere, p. 249ss.). Qualsiasi discorso sulla vita, per potersi costituire, deve necessariamente infrangere «l’unità, la compattezza, l’integrità, l’infinità, per così dire la levigatezza della vita» stessa (Idem, p. 243). È proprio questa la fondamentale premessa (antinarcisistica) del filosofare di Sossio Giametta: il riconoscimento della «vita nella sua concretezza problematica, nella sua ambiguità irrisolvibile e nel suo invincibile mistero» (Il bue squartato, p. 11).
La pars costruens del suo discorso – l’«essenzialismo» – può essere giustificata solo se intesa in essenziale subordinazione a questa premessa (anche se l’autore non esplicita questo punto). La tesi secondo cui «sul piano assoluto esiste solo l’essenza», ovvero l’«Essere» o «Dio sconosciuto», non costituisce evidentemente una (l’ennesima) teoria metafisica, bensì la conseguenza dell’impossibilità di qualsiasi metafisica definitiva o esaustiva, visto che noi possiamo conoscere solo le «condizioni di esistenza», ossia la mastodontica «struttura» entro cui la Realtà si manifesta (Cortocircuiti, pp. 16-17). È solo all’interno di questa «struttura», e dunque da un punto di vista non assoluto, che per Giametta esistono il male e il dolore, ossia, in una parola, il negativo: «l’Essere o Dio è tutto e solo positivo» (Idem, p. 17). Per la riconduzione del problema del «male» alla distinzione di due differenti punti di vista sulle cose e per il riferimento all’«Essere», Giametta si richiama, rispettivamente, a Spinoza e Parmenide, presentando anzi la propria prospettiva come «una forma rinnovata e approfondita di parmenidismo, arricchito e illustrato, all’effetto, da una vasta fenomenologia» (Idem, p. 18). Tuttavia, è escluso che l’uomo possa conseguire una conoscenza delle cose sub specie eternitatis, perché qui non vale il principio secondo cui pensiero (noei=n) e Essere (ei)=nai) sono la stessa cosa (fr. B3); vale piuttosto il principio opposto: l’«Essere» è ciò che l’uomo non può, e non potrà mai, “pensare”. Le considerazioni di Giametta sull’«Essere» sono perciò da intendere come le linee di fuga verticali del suo discorso; non come la base, ma, semmai, come la vetta. La base del suo discorso, poste le suddette premesse, non può che essere osservativa, in ottemperanza a una metodologia di tipo appunto “fenomenologico” (in senso lato), più che “razionalistico” (in senso stretto).
Ogni pagina di questi volumi è un robusto richiamo alla concretezza del filosofare – quella preziosa concretezza, che sola può restituire il legame della riflessione filosofica con la vita. Lo stile di scrittura, che, pur nel rigore concettuale, eccelle per chiarezza, freschezza ed eleganza, rispecchia questo richiamo. Giametta non è interessato ai virtuosistici giochi di prestigio concettuali o linguistici (aborriti da Schopenhauer), che troppo spesso vengono praticati dai sedicenti o cosiddetti “filosofi”; egli ha dimira «la filosofia vera e propria, che prende cuore e stomaco e tutto» (Il bue squartato, p. 265). Il suo discorso è rivolto esclusivamente a chi è disposto a cercare, nella “sabbia” dei concetti e delle parole dei filosofi, l’“oro” della vita. L’agone con gli autori considerati diviene perciò, in ultima analisi, un agone con lo stesso mistero del mondo, che si apre e si chiude (idealmente) con un silenzioso e solenne inchino a quest’ultimo.
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