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Dalla politica di bilancio alla politica delle riforme: un'analisi della spesa pubblica
di Italico Santoro
1. Il rito della finanziaria

Nel momento in cui scriviamo si sta consumando, come ogni anno, il rito della finanziaria, preceduto e accompagnato da una duplice polemica. La prima, tra maggioranza e opposizione, sull’esistenza o meno di un buco nei conti pubblici, alla quale si è presto sostituita – in presenza dei maggiori introiti fiscali realizzati a partire dal secondo trimestre dell’anno – una diversa polemica circa i meriti di tali maggiori introiti; la seconda, tutta interna alla maggioranza di governo, sull’entità della manovra, con la sinistra radicale (ma non solo) contraria ad una finanziaria “rigorosa”, con tagli significativi alla spesa, e disponibile semmai ad elevare la pressione fiscale. La prima polemica lascia ovviamente il tempo che trova. Quanto alla seconda, con tutta probabilità finirà per prevalere un compromesso tra “rigoristi” e “lassisti”, destinato più a mediare tra esigenze e richieste spesso contrapposte che ad affrontare in profondità i problemi del risanamento e della crescita del “sistema Italia”.
Il punto è che la finanziaria, pur essendo il fulcro della politica economica del governo nel corso dell’anno, incontra un solo e decisivo vincolo esterno, il patto di stabilità tra i paesi aderenti all’euro. E il patto di stabilità si incentra a sua volta sul rispetto di uno soltanto dei quattro parametri che erano alla base degli accordi di Mastricht: il rapporto tra deficit annuale e prodotto interno lordo, che non può essere superiore al tre per cento.
Anche questo vincolo, come è noto, è stato disatteso negli ultimi anni e proprio dai maggiori paesi dell’eurozona: prima Francia e Germania, poi l’Italia. Ma se la sua esistenza consente alle autorità europee di intervenire per verificarne il rispetto, sia pure con la maggiore flessibilità introdotta a partire dal 2003, sfuggono di fatto al controllo delle istituzioni comunitarie sia l’andamento degli altri parametri, sia le modalità e le scelte di politica economica con cui ciascun paese decide di contenere il proprio deficit.
E così l’intero dibattito si concentra, all’interno di ciascuno degli stati dell’eurozona, sull’entità del disavanzo annuale per un verso; e per altro verso sulla distribuzione dei tagli di spesa, sulla maggiore o minore pressione fiscale ed eventualmente sugli incentivi allo sviluppo, sulle misure cioè che sono necessarie o possibili per mantenere il deficit entro i limiti concordati in sede europea. Raramente il dibattito – e le conseguenti decisioni – riguardano i veri problemi strutturali delle diverse economie. Una impostazione questa che se può non agevolare, e qualche volta finisce addirittura per danneggiare, gli andamenti di lungo periodo dei paesi dell’eurozona, è certamente e sempre di danno per quei paesi – Italia in primo luogo – che, avendo accumulato nel tempo un forte debito pubblico consolidato, avrebbero bisogno più degli altri di vere riforme. Come ha sottolineato il Governatore della Banca d’Italia alla riunione dell’Ecofin (i ministri finanziari europei) di Helsinki – e come ha ripetuto anche in seguito – «non si è mai visto un Paese con il debito al 106 per cento del PIL crescere a lungo e in modo sostenibile».


2. Il problema del debito pubblico

Quando Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, annunciò nel settembre del 1992 in una drammatica conferenza stampa che la lira avrebbe abbandonato il Sistema Monetario Europeo1, il debito pubblico italiano aveva raggiunto il 107,7 per cento del PIL e gli interessi corrisposti annualmente il 12,6 (pari al 22,3 per cento della spesa complessiva)2. Malgrado una finanziaria particolarmente rigorosa e qualche intervento strutturale, reso possibile proprio dalle gravi condizioni del paese, nei due anni successivi il rapporto debito-PIL continuò a peggiorare, fino a raggiungere il 124,3 per cento, per poi declinare progressivamente. Nel 2004 si era ridotto al 103,9, un livello comunque insostenibile a fronte di una media dell’eurozona di poco superiore al settanta3. Per di più nel 2005 – segnale allarmante – è risalito al 106,4.
Il maggior contributo al miglioramento del rapporto debito-PIL è venuto peraltro in questi anni dalla forte riduzione degli interessi corrisposti sul debito stesso: nel 1993 avevano raggiunto il 13,0 per cento del prodotto interno lordo e assorbivano il 22,6 della spesa pubblica complessiva, nel 2005 erano solo al 4,6 (pari al 9,5 della spesa). Un andamento virtuoso dovuto in primo luogo a fattori internazionali, come il basso costo delle materie prime ed una crescita economica senza tensioni inflazionistiche, ma anche ad una attenta gestione da parte del Tesoro e della Banca d’Italia. Per fare solo un esempio, i titoli a breve termine, per loro natura più esposti alle intemperie finanziarie e che all’inizio degli anni Novanta si aggiravano intorno al venti per cento del debito complessivo, ne costituiscono ormai meno dell’otto per cento. È perfino inutile aggiungere che a tale favorevole andamento dei tassi hanno contribuito in modo significativo prima il rientro dell’Italia nello SME e successivamente l’adesione del nostro paese all’euro.
Molto meno è stato fatto invece sull’altro versante, quello della riduzione e della riqualificazione delle altre voci di spesa. Calcolata al netto degli interessi, la percentuale della spesa sul prodotto interno lordo, dopo una certa flessione che ha riguardato soprattutto le uscite in conto capitale, è ritornata ai livelli del 1992: 44,0 allora, 43,9 nel 2005. Un dato che conferma come si debba proprio ed esclusivamente all’evoluzione positiva dei tassi di interesse se l’incidenza del debito sul PIL è diminuita sensibilmente e se si è resa possibile perfino una modesta riduzione della pressione fiscale.
Non si giustifica quindi l’ottimismo con cui, di fronte a modesti segnali di ripresa, si guarda da più parti alla condizione complessiva dell’economia italiana, e in particolare all’andamento dei conti pubblici. A preoccupare non c’è solo e non c’è tanto l’inversione di tendenza che si è registrata durante il 2005 nel rapporto tra debito e PIL, ma c’è soprattutto il mutamento in corso dello scenario internazionale che ha consentito negli anni passati una minore incidenza del servizio interessi. Come abbiamo ricordato, a favorire questo processo sono stati il basso costo delle materie prime e la mancanza di tensioni inflazionistiche, due condizioni che sono venute meno e che sono all’origine del rialzo generalizzato dei tassi, prima negli Stati Uniti poi in Europa e in Giappone. È facile prevedere che tale rialzo investirà prima o poi i titoli emessi dal Tesoro italiano e quindi gli interessi corrisposti sul debito.
Tanto più che tali titoli hanno cambiato non solo natura ma anche destinatari. Se a metà degli anni Novanta poco più del quindici per cento era detenuto da “operatori non residenti”, nel 2005 ad essere collocato sull’estero era il 43 per cento4. Questa radicale modifica dei soggetti detentori del debito rappresenta un processo per alcuni versi inevitabile, dovuto alla progressiva integrazione della finanza italiana in quella europea e mondiale, e per altri versi positivo, poiché attesta una maggiore credibilità del nostro paese presso gli operatori stranieri; è però anche vero che in questo modo l’Italia si trova più esposta verso l’estero ed è quindi più vulnerabile nei confronti delle tendenze che si registrano sui mercati internazionali.
Si ritorna così al punto centrale della questione, quello di una sostanziale riduzione del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo. Una riduzione che non può essere quindi solo il frutto di una minore incidenza degli interessi, utile magari negli anni scorsi a mascherare la reale gravità del problema e a millantare politiche di risanamento che erano ben lungi dall’essere adottate, ma deve essere invece il prodotto di un sostanzioso incremento del cosiddetto “avanzo primario”5, e cioè dell’attivo di bilancio al netto del servizio interessi.
Ma anche a questo proposito va fatta una precisazione. Per creare un più consistente avanzo primario non si può far ricorso ad ulteriori incrementi delle entrate tributarie. Ancora una volta valgono le considerazioni del Governatore della Banca d’Italia alla citata riunione dell’Ecofin: «Per una crescita elevata e sostenibile è necessario non dover tassare i cittadini per ripagare il debito pubblico». La pressione fiscale, malgrado qualche ritocco intervenuto negli ultimi anni6, rimane in Italia troppo elevata, ancora al di sopra del quaranta per cento del PIL. Eventuali successi sul fronte della lotta all’evasione non potrebbero perciò che trasformarsi in riduzioni delle aliquote se si vuole puntare – per usare l’espressione di Mario Draghi – ad «una crescita elevata e sostenibile».
Si giunge così al vero cuore del problema. Un risanamento dei conti pubblici che non comprometta ma anzi favorisca lo sviluppo può essere realizzato percorrendo una sola strada, quella di una sostanziosa riduzione della spesa pubblica al netto degli interessi. E siccome non può essere penalizzata ulteriormente la già modesta spesa in conto capitale, non resta che incidere su quella corrente. Come da tempo si auspica, ma puntualmente si disattende.


3. La riqualificazione della spesa e le condizioni per lo sviluppo

Alla ripresa di una crescita strutturale e duratura non basta peraltro una riduzione significativa del debito pubblico. C’è bisogno anche di una maggiore produttività del sistema e di una maggiore competitività delle imprese. E quindi di una diversa allocazione delle risorse che abbia come obiettivo sia quello di abbassare i costi diretti e indiretti delle diverse fasi del processo produttivo sia quello di potenziare le infrastrutture materiali e immateriali. A cominciare, naturalmente, dalle “infrastrutture della conoscenza”.
Ma in un sistema produttivo come quello italiano, caratterizzato dalla scarsa presenza di imprese di medie e grandi dimensioni – le sole capaci di condurre in proprio la ricerca e di trasformarla in innovazione –, quest’obiettivo non può essere perseguito senza un apporto sostanzioso di fondi pubblici. E invece le risorse destinate a ricerca e sviluppo non raggiungono l’1,2 per cento della spesa complessiva, poco più della metà di quanto investe la Germania, meno della Gran Bretagna, dove però ai fondi pubblici si accompagna una forte presenza dei privati. Per ottenere risultati significativi bisognerebbe puntare, in un breve arco temporale, a raddoppiare questa percentuale.
C’è poi il problema, anch’esso decisivo per ridare competitività al “sistema Italia”, delle infrastrutture materiali: dai primi anni Novanta non solo non sono state rafforzate, ma sono state sacrificate ogni volta che si è presentato il bisogno, in occasione delle finanziarie, di operare tagli alla spesa pubblica. È venuto il momento di invertire questa tendenza se non vogliamo isolare l’Italia dal resto dell’Europa.
Alla necessità di ridurre la spesa pubblica si aggiunge così quella di rivederne la composizione. Tenendo conto di questa duplice esigenza, in un saggio scritto nel 2004 Pierluigi Ciocca e Guido Maria Rey ipotizzavano – per raggiungere l’obiettivo di una stabile ripresa economica, con un tasso di sviluppo annuo del prodotto interno lordo attestato intorno al tre per cento – «una diminuzione dell’incidenza della spesa corrente di oltre sei punti percentuali del prodotto entro il 2009»7. Assumendo come valida questa ipotesi, si tratterebbe di ridurre la spesa corrente, in via strutturale e nell’arco di cinque anni, all’incirca di un quindici per cento. E, in termini quantitativi, di una cifra pari a 80-90 miliardi di euro calcolati ai valori del 2004. Uno sforzo che gli stessi autori definiscono “senza precedenti”, ma che viene considerato una condizione indispensabile per riprendere il cammino della crescita.
Se questo è il quadro di fondo – e altri non se ne intravedono –bisogna allora porsi alcune domande: quali sono i capitoli della spesa corrente sui quali si può intervenire per operare tagli così significativi? Per raggiungere quest’obiettivo c’è bisogno di riforme strutturali o possono bastare semplici aggiustamenti al bilancio? E, nel primo caso, può essere la legge finanziaria – sia pure orientata sulla prospettiva di un quinquennio – lo strumento giusto per una ristrutturazione della spesa corrente di tali proporzioni? È a queste domande che cercheremo di dare risposta nei paragrafi successivi.


4. La spesa corrente e la sua dinamica interna

Se si esamina la spesa corrente nel suo insieme (estrapolandola dal cosiddetto conto economico consolidato delle Amministrazioni pubbliche) emerge con evidenza che essa viene utilizzata in grandissima parte – poco meno dell’ottanta per cento – o per “prestazioni sociali” (previdenza, sanità, assistenza) o per retribuzioni ai dipendenti. Nel 2005 alle prestazioni sociali sono stati destinati 281,5 miliardi di euro – circa il cinquanta per cento del totale – e alle retribuzioni dei dipendenti 155,5 miliardi (27,5 per cento)8. Mentre questa seconda voce ha quanto meno ridotto la sua incidenza rispetto al 1992 – quando rappresentava il 31,7 per cento della spesa complessiva – con una flessione pressoché costante, le “prestazioni sociali” l’hanno invece accresciuta, soprattutto durante la metà degli anni Novanta. Si è poi drasticamente ridotto il peso di altre componenti, come i contributi alla produzione, che hanno praticamente dimezzato la loro incidenza percentuale (anche a seguito di un ripiegamento dello stato imprenditore). Diventa difficile di conseguenza, per chi volesse intervenire in maniera incisiva sulla spesa pubblica sia nel senso di una sua riduzione sia nel senso di una sua riqualificazione, non incidere sulle due voci che ne rappresentano la grandissima parte, e in particolare su qualcuna delle voci che compongono le prestazioni sociali. A proposito delle quali va rilevato – e sull’argomento torneremo di seguito – che è la spesa previdenziale a fare la parte del leone, con due terzi circa del totale.
Queste considerazioni sono rafforzate da un’analisi incentrata sui soggetti che effettuano la spesa. Tali soggetti sono raggruppati in tre grandi categorie: le amministrazioni centrali, quelle locali e gli enti di previdenza. Nel 2005 gli interventi, depurati dai trasferimenti ad enti pubblici che ricadono ovviamente sotto la responsabilità dei destinatari finali, risultavano così distribuiti: per il 43,0 per cento venivano effettuati dagli enti di previdenza, per il 31,3 per cento dalle amministrazioni locali (in pratica regioni, province, comuni e comunità montane) e solo per il 25,7 da quelle centrali9.
Se poi si guarda al trend complessivo a partire dal 1992, si constata che gli enti di previdenza hanno accresciuto la loro incidenza dal 35,6 al 43,0 per cento, malgrado i correttivi introdotti dalle riforme Dini e Maroni (e dopo che la colpevole assenza di iniziative nella seconda metà degli anni Novanta ne aveva spinto la quota di spesa fino al 45 per cento); che la partecipazione degli enti locali alla spesa complessiva è cresciuta quasi di tre punti; che quella delle amministrazioni centrali si è ridotta di dieci punti.
Queste considerazioni non solo avvalorano quanto si è già detto sul costo delle “prestazioni sociali” ma introducono un nuovo elemento di riflessione, quello del ruolo degli enti locali nella determinazione della spesa pubblica e di conseguenza della necessità di una loro maggiore responsabilizzazione nella politica di risanamento10.
Si possono così trarre alcune prime conclusioni. Se una riduzione (e una riqualificazione) della spesa pubblica è la via obbligata per rilanciare lo sviluppo dell’economia italiana, tre sono le materie su cui intervenire: il costo dell’apparato pubblico, che peraltro è il solo su cui finora – come si è visto – qualche risultato si è ottenuto; le “prestazioni sociali”, con particolare riferimento alla previdenza; la spesa degli enti locali, che tende non solo a lievitare, ma spesso a mutuare le peggiori tendenze delle amministrazioni centrali. È da una miscela di queste tre forme di intervento che può scaturire una “politica”, quale oggi è necessaria per assicurare quella crescita stabile e duratura che pure è possibile ma che è ben lungi dall’essersi delineata nel nostro paese.


5. Una politica per la spesa pubblica

È del tutto improbabile che una tale politica possa essere perseguita attraverso le normali manovre di bilancio. Pur raschiando il fondo del barile, le finanziarie hanno prodotto solo aggiustamenti, utili di sicuro per evitare il collasso del paese ma del tutto insufficienti per promuovere una nuova fase di crescita.
E per di più, come si è visto, molti dei centri decisionali sui quali bisognerebbe incidere si sono trasferiti progressivamente dalle amministrazioni centrali a quelle locali, per non parlare del peso esercitato dagli enti di previdenza. Anche per la materia che più si presterebbe ad essere oggetto delle politiche ordinarie di bilancio, quella del costo dei dipendenti pubblici, è difficile che si possano ottenere ulteriori risultati senza che gli sforzi delle amministrazioni centrali siano assecondati da quelli degli altri centri di spesa. E se è vero per un verso che una quota ancora eccessiva delle uscite correnti viene destinata dalle amministrazioni centrali a retribuzione del personale (circa il 61 per cento al netto dei trasferimenti), è altrettanto vero che forme di sprechi si vanno sempre più manifestando proprio nelle realtà locali, presso le quali, oltre tutto, si è fatta strada negli ultimi anni una pericolosa tendenza, quella a moltiplicare gli interventi di natura economica, soprattutto nelle cosiddette “utilities”, spesso gestite al riparo da ogni possibile concorrenza. Secondo una ricerca effettuata dall’Istituto Bruno Leoni e dalla Adam Smith Society, le municipalizzate sono tuttora, per il settanta per cento, sotto il controllo completo degli enti locali, che comunque conservano la maggioranza anche in quasi tutte le altre. Solo il tre per cento opera in condizioni di mercato. Non a caso il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, ha parlato di “socialismo municipale” e di nuovi monopoli, quelli locali. C’è insomma il rischio che, liquidate le partecipazioni statali, la logica dell’interventismo pubblico in economia finisca per riaffermarsi in periferia, moltiplicando aziende che «significano voti, posti di lavoro, uomini e poltrone» – per riprendere le parole del presidente dell’Antitrust – ma generano inefficienze e danneggiano i consumatori.
A conclusione di questa disamina dell’andamento della spesa pubblica, e della sua incidenza sul presente e sul futuro dell’economia italiana, può essere forse avanzata qualche proposta. Le manovre di bilancio operate attraverso le leggi finanziarie rappresentano – come si è detto – la via maestra per contenere i deficit annuali; ma solo in minima parte possono essere utili, invece, al progressivo riassorbimento del debito consolidato. A questo scopo sono necessarie riforme incisive, destinate a rimuovere le cause che ne sono all’origine e a modificare in profondità l’attuale consistenza e distribuzione della spesa pubblica11.
Tra queste riforme ne ricordiamo alcune, tutte in vario modo presenti nel dibattito politico e che di sicuro potrebbero costituire altrettanti stimoli positivi per l’economia nel suo insieme. In primo luogo, l’elevazione dell’età pensionabile a sessantacinque anni, eccezion fatta per i lavori usuranti (che sono sempre meno e riguardano un numero decrescente di lavoratori). Se ne avverte la necessità, se ne parla da tempo, ma incrostazioni ideologiche, resistenze culturali e timori politici hanno finora impedito ogni vera riforma in questa direzione. Per un paese in cui l’età media è rapidamente cresciuta, fino ad essere tra le più elevate al mondo, l’attuale struttura del sistema pensionistico è un puro anacronismo, che oltretutto non consente una maggiore diffusione di altre forme di intervento sociale e contribuisce a sfornare anziani inoperosi piuttosto che a creare una società di cittadini attivi12. Come osserva Maurizio Ferrera, «il “pensionismo” italiano [...] è il frutto di un modello di welfare che ha puntato quasi tutto sulla previdenza e quasi niente sulle altre forme di protezione sociale»13. Ed è proprio questo modello che va cambiato.
La seconda proposta comincia ad entrare solo ora nell’agenda politica ma sembra raccogliere consensi sempre più vasti. Le entrate degli enti locali si fondano ancora troppo sui “trasferimenti”, e cioè su una finanza derivata che ne deresponsalizza le decisioni. E invece certe scelte – assunzione di personale in eccesso, manifestazioni faraoniche e dispendiose, partecipazioni discutibili in enti economici – debbono essere sottoposte alla valutazione degli interessati attraverso lo strumento dell’imposizione fiscale. I cittadini potranno così eleggere i governi locali orientandosi sulla base non solo delle proposte programmatiche ma anche del loro costo, e magari rifiutarsi di pagare tributi più elevati preferendo invece un maggior rigore e amministrazioni meno dispendiose. In breve più autonomia fiscale a fronte di più responsabilità politica14.
Questo problema acquista una rilevanza ancora maggiore alla luce del processo di decentramento regionale avviato nel 2001 e tuttora in atto. Non a caso è un punto sul quale richiamano l’attenzione anche Ciocca e Rey nel saggio già citato, sottolineando “l’obbligo d’interrogarsi, con grande attenzione contabile, sulla coerenza tra la necessità di contenere la spesa pubblica corrente e una strategia di decentramento regionale”.
È questa un’osservazione che indirettamente ci introduce alla terza proposta. È proprio necessario, dopo il compiuto dispiegarsi della riforma regionale, tenere ancora in vita le province? Di una loro soppressione si parlò già negli anni Settanta, quando risultò chiaro che le regioni avrebbero avuto non solo una funzione di coordinamento e di programmazione ma anche compiti di gestione (divenuti tra l’altro, con gli anni, sempre più estesi). L’idea fu poi lasciata rapidamente cadere e a prevalere fu il principio, tipicamente italiano, della conservazione degli enti, di tutti gli enti, anche di quelli che le modifiche istituzionali o il passare del tempo rendono pressoché desueti. E così le province non solo sopravvissero, ma aumentarono di numero, e probabilmente continueranno a crescere ancora, insieme, naturalmente, con i relativi costi.
Certo, l’incidenza di tali costi sul totale della spesa pubblica rimane modesta, all’incirca il due per cento, come modeste sono d’altro canto le funzioni tuttora attribuite alle province. Ma stanno lievitando: in dieci anni, tra il 1995 e il 2004, il loro peso sulla spesa complessiva delle tre principali istituzioni locali è cresciuto quasi di un terzo, dal 4,0 per cento al 5,9.
Con la nascita e il consolidamento delle regioni, le province si sono trasformate in realtà essenzialmente in centri di aggregazione del consenso, che poco hanno a che vedere con l’articolazione territoriale dello Stato democratico e molto con la pura gestione del potere. Il che sarà ancora più vero, almeno per alcune zone del paese – che sono poi le più significative – quando saranno istituite le aree metropolitane. Non sarebbe il caso allora di cogliere questa occasione per ripensare seriamente l’intera struttura delle amministrazioni locali, tagliando dove possibile una spesa che contribuisce ad appesantire non poco la finanza pubblica?
A queste proposte altre se ne potrebbero affiancare, aggiuntive o (ma ne dubitiamo) alternative. E in ogni caso servirebbero a confermare comunque un’esigenza, quella di affiancare alla politica di bilancio, che per quanto rigorosa sarà sempre inadeguata rispetto ai problemi della finanza pubblica italiana, un percorso di riforme incisive che sole possono prosciugare le fonti dalle quali viene alimentato in modo strutturale il nostro disavanzo. Ma c’è una classe politica disposta a battere questa strada?






NOTE
1 La valuta italiana perse allora, in pochi giorni, circa il trenta per cento del suo valore.^
2 Per questo, come per molti altri dati del presente paragrafo, cfr. Tavola I.^
3 Al di sopra del settanta per cento, oltre l’Italia, sono solo la Grecia con il 107,5 e il Belgio con il 93,3. Cfr. Relazione annuale della Banca d’Italia, 31 maggio 2006.^
4 Cfr. Tavola II.^
5 Avanzo primario che peraltro, dopo aver toccato nel 1997 il picco del 6,6 per cento, si è progressivamente ridotto fin quasi ad azzerarsi.^
6 Cfr. Tavola I.^
7 P. Ciocca e G.M. Rey, Per la crescita dell’economia italiana, in «Economia italiana», 2 (2004).^
8 Cfr. Tavola III.^
9 Cfr. Tavola Tavola IV.^
10 È da sottolineare, a questo proposito, la rapida impennata del debito che le amministrazioni locali hanno contratto in questi ultimi anni e che tra il 1998 e il 2005 è più che raddoppiato in rapporto al prodotto interno lordo: dal 2,5 al 6,1. In queste condizioni è difficile ipotizzare una politica di rientro dal debito consolidato che non passi attraverso una riduzione consistente della spesa corrente degli enti locali.^
11 È questo il parere, oltre che di numerosi esperti, di istituti internazionali indipendenti. L’agenzia di rating Standard & Poor’s sottolinea come lo sforzo di disciplina fiscale «dovrà durare non una finanziaria, ma anni». Aggiungendo che la Finanziaria è solo un’opportunità «per fare chiarezza, soprattutto per quanto riguarda i risparmi sulla spesa pubblica», ma che i problemi dei conti pubblici italiani «sono strutturali» e vengono «dall’alto livello del debito, dall’invecchiamento della popolazione, dalla scarsa credibilità della politica fiscale».^
12 Non è certo un caso se da un recente sondaggio internazionale, commissionato dall’American Association of Retired Persons e condotto in dieci paesi sviluppati, risulta che per la maggioranza degli italiani (53%) andare in pensione significa smettere completamente di lavorare (a fronte di una media del 31%). Evidentemente il concetto di “invecchiamento attivo” deve percorrere, nel nostro paese, ancora molta strada.^
13 M. Ferrera, La riforma decisiva: cambiare mentalità, in «Corriere della Sera», 7 settembre 2006.^
14 Sulla necessità di responsabilizzare i diversi centri pubblici di spesa attribuendo loro il compito di reperire risorse ha insistito anche il nuovo Governatore della Banca d’Italia nella sua prima Relazione annuale all’Assemblea dei partecipanti.^





Tavola I^
Principali indicatori di bilancio delle Amministrazioni Pubbliche
(in percentuale del PIL)



19921993199419951996199719981999200020012002200320042005
ENTRATE46.047,345,145,345,747,746,246,445,445,044,545,144,644,4
PRESSIONE FISCALE43,044,041,841,241,643,742,342,441,641,340,841,440,740,6
SPESE56,657,654,352,752,650,349,048,147,448,147,448,548,048,5
di cui: INTERESSI12,613,011,411,611,59,37,96,66,36,35,55,14,74,6
CORRENTI (al netto degli interessi) C/CAPITALE39,5
____
4,6
40,3
____
4,3
39,2
____
3,7
36,7
____
4,5
37,4
____
3,7
37,7
____
3,4
37,3
____
3,8
37,6
____
3,9
37,3
____
3,7
37,6
____
4,2
38,3
____
3,6
39,1
____
4,3
39,4
____
3,9
39,9
____
4,0
SPESE AL NETTO degli interessi44.044,642,941,241,141,141,141,54141,841,943,443,343,9
AVANZO PRIMARIO (saldo al netto degli interessi passivi)2,02,82,14,24,66,65,14,94,33,22,71,71,30,4
INDEBITAMENTO NETTO10,710,39,37,472,72,81,72,03,12,93,43,44,1
DEBITO107,7118,2124,3121,2120,6118,1114,9113,7109,2108,7105,5104,3103,9106,4

Fonte:Relazione Annuale Banca d'Italia. Per gli anni 92-94, relaz. 2002, p. 182 e sg.; per gli anni 95-05, relaz. 2006, p. 169 e sg.




Tavola II^
Quota del debito pubblico detenuta da "operatori non residenti"


15,1%200036,4%
16,0%200135,6%
18,7%200236,5%
22,4%200339,6%
27,4%200438,9%
34,2%200543,0%

Elaborazione su dati contenuti nell'Appendice alla Relazione Annuale Banca d'Italia. 31 maggio 2002 per gli anni 1994-1999; 31 maggio 2006 per gli anni 2000-2005.




Tavola III^
Conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche - Principali voci di spesa corrente - (ripartizione percentuale)


199219961999200020012002200320042005
TOTALE USCITE CORRENTI (al netto degli interessi)100100100100100100100100100
di cui: REDDITI DA LAVORO DIPENDENTE CONSUMI INTERMEDI31,7
____
12,6
30,4
____
12,1
28,2
____
13,1
28,2
____
13,6
28,2
____
13,5
27,8
____
13,6
27,7
____
13,6
27,4
____
13,7
27,5
____
13,7
CONTRIBUTI ALLA PRODUZIONE4,54,13,33,23,12,92,72,72,3
PRESTAZIONI SOCIALI48,450,151,150,750,850,049,649,949,8

Fonte: Elaborazione su dati contenuti nella Relazione generale sulla situazione economica del Paese. 1997 per gli anni 1992 e 1996; 2001 per gli anni 1999-2001, 2005 per gli anni 2002-2005.





Tavola IV^
Conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche - Spesa corrente al netto delgi interessi ripartita per soggetti - (depurati i trasferimetni agli enti pubblici)


1992 migliaia di miliardi di lire%1996 migliaia di miliardi di lire%1999 migliaia di miliardi di lire%2000 migliaia di miliardi di lire%2001 migliaia di miliardi di lire%2002 migliaia di miliardi di lire%2003 migliaia di miliardi di lire%2004 migliaia di miliardi di lire%2005 migliaia di miliardi di lire%
TOTALE USCITE CORRENTI (al netto degli interessi)604,2100718,1100417,5100436,2100457,1100495,5100522,3100546,4100565,7100
AMMINISTRAZIONI CENTRALI216,435,8213,729,7109,726,1114,126,1116,625,4127,225,7138,025,4140,125,6145,525,7
AMMINISTRAZIONI LOCALI173,328,6200,327,8119,129,1127,429,1137,930,1153,130,9158,730,4170,931,3177,231,3
ENTI DI PREVIDENZA215,835,6306,542,6190,244,9196,144,9204,044,6215,243,4225,643,2235,443,1242,943,0

Fonte: Elaborazione su dati contenuti nella Relazione sulla situazione economica del Paese. 1995 per i dati del 1995 per i dati del 1992; 1997 per i dati del 1996; 2001 per i dati 1999-2000-2001; 2005 per i dati dal 2002 al 2005.
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