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Spadolini e il MBCA*
di Giuseppe Galasso
Non è affatto da credere che il MBCA sia stata una gloriosa pensata di Spadolini, un tributo pagato da lui alla propria ambizione di passare (come si suole dire) alla storia per qualche suo titolo di uomo di governo. Questa ambizione in lui certamente non mancava, ed era anche, spesso, esibita con quella signorile petulanza, con quella sua disarmante schiettezza e ingenuità, che formavano una delle sue note caratteriali più evidenti e conosciute e che, per l’assoluta buona fede e disinteresse della sua passione civile e del suo modo di essere e di fare il politico, erano una delle fonti principali della così larga simpatia da cui egli era circondato.
In realtà Spadolini stesso mise sempre in rilievo i precedenti dell’idea che a lui riuscì di mettere in atto. Gli stava a cuore mettere in evidenza specialmente alcuni momenti di questa vicenda. Era ricorrente la sua citazione di Ruggero Bonghi quale istitutore nell’ambito della Pubblica Istruzione di «una direzione generale che avviasse e coordinasse la prima ed ancora embrionale azione di tutela dei beni artistici ed archeologici dell’Italia unita […] per la quale non esistevano comunque validi strumenti legislativi». Solo nel periodo giolittiano – ricordava – vi era stata «una prima intuizione del bene artistico come “bene pubblico” da tutelare secondo le leggi dello Stato e non secondo l’arbitrio dei privati», per cui si ebbe «negli anni fra il 1902 e il 1909 una vera rivoluzione». Fino ad allora «le leggi sulle cose d’arte erano rimaste, o quasi, le stesse degli Stati pre-unitari, oscillanti fra la protezione retorica e le tolleranze ammiccanti». Si ebbe, invece, con Giolitti, «una vera e propria politica dello Stato», con leggi, scriveva, «su cui, attraverso modificazioni e integrazioni successive, riposa ancora quello che è stato fatto nel trentennio [allora] della Repubblica». (“, V-VI).
Da questa seminagione giolittiana finì col derivare alla fine della guerra del ’15-’18 la «costituzione di una competenza autonoma, di un’amministrazione distaccata per le Belle arti e le antichità», riprendendo e aggiornando «il vecchio voto di Ruggero Bonghi». Senonché, quelli tra il 1919 e il 1923 erano stati «quattro effimeri anni», cancellati dall’avvento del fascismo, che, scriveva ancora Spadolini, «sopprime il sottosegretariato per le Belle Arti, quello dei Pompeo Molmenti, dei Giovanni Rosadi e dei Giovanni Calò, e riassorbe la vecchia direzione generale, di bonghiana memoria, nelle strutture della pubblica istruzione, ormai avviate all’elefantiasi». Quindi una breve fiammata dopo la fine della guerra del 1940-1945 con il governo Parri, con il quale rinasceva con Carlo Ragghianti il sottosegretariato per le Belle arti, «ma, concludeva Spadolini, dura quanto il governo Parri, sei mesi esatti» (“, pp. VI-VIII). Poi, con il IV governo Rumor, durato dal luglio 1973 al marzo 1974 era stato istituito il ministero per i Beni culturali, affidato a Camillo Ripamonti, sostituito da Giuseppe Lupis, come ministro ai beni culturali e all’ambiente, nel V governo Rumor, durato dal marzo al novembre 1974, quando, con la costituzione del IV governo Moro, a quel ministero era andato Spadolini. E Spadolini, appunto, già il 14 dicembre 1974, a neppure un mese dalla nascita del governo, otteneva la promulgazione di un decreto legge che istituiva il ministero per i beni culturali e ambientali, convertito nella legge n. 5 del 29 gennaio 1975, pubblicata col n. 43 sulla Gazzetta Ufficiale del successivo 14 febbraio.
Come si vede, Spadolini evidenziava al massimo la vicenda dei beni culturali come capitolo della pubblica amministrazione in Italia, sia pure attenendosi solo agli aspetti eminenti del problema. Meraviglia solo, nel suo excursus storico, l’assenza del nome di Giuseppe Bottai, autore delle due leggi la 1089 e la 1425 del 1939, sulle quali fu istituzionalmente definita la competenza del ministero alla sua nascita con Spadolini. Ma lo si può forse spiegare col fatto che l’attenzione di Spadolini era rivolta soprattutto al problema istituzionale di uno specifico ministero di settore più che alla definizione legislativa della materia da affidare all’auspicato ministero.
Il ritmo eccezionalmente rapido dell’iter legislativo che diede vita a tale ministero si spiega con elementi che Spadolini conosceva bene per esserne stato magna pars. In effetti, la nascita del ministero era stata già decisa nel corso delle trattative interpartitiche che diedero vita al IV governo Moro, e fu a questo patto che Spadolini successe inizialmente a Lupis quale ministro. La particolare sintonia tra Ugo la Malfa, che in quel governo fu vicepresidente del Consiglio, e Aldo Moro (tanto che si parlò del governo Moro-La Malfa) agevolò indubbiamente la riuscita dello sforzo istitutivo del ministero. In effetti, però, si trattava di un’esigenza culturale e politica ormai matura nella società italiana. Non solo almeno dagli anni ’50 si era avuto uno straordinario sviluppo di discussioni, associazioni, iniziative che reclamavano una nuova politica dei beni culturali e del paesaggio, come politica non solo di tutela, ma di attiva gestione del patrimonio storico-culturale e paesistico degli italiani, ma questo sviluppo aveva anche raccolto già qualche frutto più che degno di considerazione. L’istituzione del ministero senza portafoglio affidato a Ripamonti nel 1973 non si spiegherebbe senza questa ormai quasi ventennale battaglia culturale, in cui si impegnarono nomi eminenti della cultura italiana. Fu così che quando Spadolini, promulgata la legge istitutiva del ministero, che rinviava a successivi decreti delegati, poté subito facilmente avviare un gruppo di studio incaricato di predisporne una prima stesura, che fu presieduto da Massimo Severo Giannini, e del quale furono chiamati a far parte varie personalità di autorevoli studiosi o competenti, mentre molto Spadolini si avvalse anche della collaborazione dei presidenti dei Consigli superiori di allora, tra i quali si ritrovavano Argan, Pallottino e altri nomi ben noti alla cronaca culturale del paese.
Nella sua fondamentale onestà intellettuale Spadolini aveva, dunque, ben presente di essere colui che portava al momento decisivo e alla svolta ultima della realizzazione operativa un’istanza che non era una sua invenzione o, come prima dicevo, una sua gloriosa pensata. È tipico del suo modo di pensare e della sua moralità di uomo pubblico che egli sentisse il fascino di una collocazione storica pregna di una lunga e nobile tradizionemolto di più che la tentazione del rivoluzionario innovatore. Si faceva, tuttavia, un vanto, e aveva ragione, di aver pensato alla via del decreto legge come la più conveniente per attuare il disegno istitutivo che si perseguiva, e avrebbe, perciò, innumerevoli volte in seguito richiamato e sottolineato che quello era l’unico caso di ministero italiano nato con un decreto legge anziché, come di rito, con una previa legge. E merito suo fu pure la rapidità dell’iter parlamentare. Egli era entrato in parlamento nel 1972, ma sorprende come si sia subito impadronito delle tecniche o, meglio, prassi di comunicazione, di relazione e di colloqui e contatti peculiari del momento politico-parlamentare. La Malfa aveva avuto davvero un’idea felice nel pensare a lui come a una grande personalità del mondo culturale, universitario e giornalistico che poteva essere una non minore personalità del mondo politico.
Soprattutto, poi, fu, anche se non esclusivamente, sua l’idea del ministero quale venne di fatto realizzato, ossia come una nuova branca politico-istituzionale della pubblica amministrazione. Quando era stato istituito nel IV e mantenuto nel V governo Rumor il ministero, senza portafoglio, tenuto da Ripamonti e da Lupis, lo si era concepito come competenza ministeriale,ma non esisteva come struttura della pubblica amministrazione, che fu, per l’appunto, il grande passo in avanti che Spadolini fece segnare al problema. Per Spadolini il ministro senza portafoglio aveva, anzi, perfino aggravato il problema istituzionale dei beni culturali, alimentando aspettative a cui non aveva corrisposto nulla.
Un’altra particolarità del procedimento seguito allora da Spadolini – già dalle trattative per il governo del 1974, cui partecipò, alla preparazione dei decreti delegati – va poi segnalata, perché dà piena l’idea del suo modo di pensare e fare politica, e ciò, in particolare, in connessione col ruolo, che sentiva tanto a sé congeniale, di uomo di governo. Fu allora una sua costante preoccupazione quella di interessare al suo progetto la più larga parte possibile dell’opinione nazionale più interessata alla materia e in essa più esperta attraverso un serie fittissima e continua di contatti e discussioni in privato con professori, studiosi in generale, tecnici dei vari settori di tale campo, giornalisti autorevoli e personalità, e anche funzionari e dirigenti ministeriali e del settore, che per un qualsiasi motivo potevano essere ritenute da contattare ai fini della discussione che Spadolini promuoveva sulla istituzione e ogni altro problema del nuovo ministero.
Ciò gli consentì non solo di raccogliere molti pareri e suggerimenti importanti ai suoi fini, bensì anche di fare in modo, nella misura del possibile, che l’innovazione istituzionale da lui sostenuta non apparisse una delle tante riforme calate dall’alto, attraverso un procedimento di ordine tutto politico nel senso meno ampio e condiviso del termine, ma come qualcosa che, almeno nell’ambito degli addetti e degli interessati alla questione la si sentisse come qualcosa che nasceva anche, se non soprattutto, per una spinta e con una soddisfacente partecipazione della società civile. Io stesso ricordo sia una colazione che una riunione pomeridiana nella bella casa di Elena Croce, in piazza Benedetto Cairoli, a Roma, in cui si parlò soprattutto della denominazione dell’istituendo ministero e dell’accoppiamento di cultura e ambiente.
Spadolini avrebbe poi scritto che l’«unità fra mondo della cultura e pubblica amministrazione» che nella precedente esperienza italiana «non era stato possibile realizzare» doveva «diventare dato acquisito e motivo permanente di una nuova politica per i beni culturali» (ibc, p. V). Quel suo modo di portare in case e salotti di amici i problemi del settore erano già una pratica applicazione di questo principio direttivo della politica del settore, che egli, certo non a caso, propugnava.
D’altra parte, benché nella conclusiva fase spadoliniana le cose procedessero, come già detto, con una notevole rapidità, non bisogna credere che tutto filasse assolutamente liscio. Opposizioni politiche, interessi accademici e professionali, resistenze burocratiche, tradizionalismi politico-istituzionali, rapporti consolidati nella gestione operativa del settore formarono un grumo, in parte dissimulato, e perciò più insidioso, di difficoltà e di ostacoli, che Spadolini fu molto bravo nel superare, riuscendo per lo più a disinnescare queste mine prima che la loro pericolosità raggiungesse la fase esplosiva.
Del resto, anche nel mondo propriamente culturale non mancarono perplessità, se non pure qualcosa di più, rispetto all’idea del nuovo ministero così com’essa si configurava.
Gli archivi di stato, ad esempio, erano stati fino ad allora un campo di competenza – per antica tradizione, non soltanto italiana – del ministero dell’Interno. Che passassero a un ministero di nuova istituzione quale il MBCA lasciava perplessi alcuni dei maggiori competenti ed esperti di archivistica. Il loro dubbio era che, lasciando un ministero di tanto peso istituzionale e politico come quello dell’Interno, gli archivi perdessero di importanza nel quadro della pubblica amministrazione italiana. Sarebbero potuti diventare un ramo minore di un ministero minore. E ciò perché nell’ambito del nuovo ministero le Belle Arti, come allora si diceva, avrebbero avuto una incontrastabile egemonia. Inoltre, l’Interno era un ministero con un suo consistente portafoglio, nelle pieghe del cui bilancio si riusciva sempre a trovare per gli archivi qualcosa di più di quanto era dovuto per le relative previsioni. Così la pensava, ad esempio, Ruggero Moscati, la cui competenza ed esperienza in materia erano indiscutibili; e Moscati, col quale Spadolini aveva un molto cordiale rapporto, non mancò di dirglielo apertis verbis, e non solo nelle lunghe conversazioni preparatorie dell’iniziativa di cui abbiamo accennato. Ma, d’altra parte, poiché si trattava di riunire in uno stesso ambito ministeriale l’intero patrimonio storico-culturale del paese, sarebbe stato davvero difficile pensare che ne restassero fuori gli archivi con le loro collezioni di carte e documenti costitutivi, anzi fondamento imprescindibile della memoria e, come essa, dell’identità nazionale. Lo stesso Moscati lo riconosceva, e amava anche affermare che, consule Spadolini, ossia non solo, come allora si diceva senza timore di dire una banalità, un autentico “uomo di cultura”, ma anche uno storico sia di mestiere che di collocazione, nulla sarebbe potuto accadere di male agli archivi.
Un pensiero del tutto opposto prevalse, invece, per quanto riguardava le biblioteche. Ci si lamentava per esse da tempo che, confinate, com’erano, nel mare magnum della Pubblica Istruzione, esse non ricevessero, né avrebbero mai potuto ricevere, tutta la dovuta attenzione. Un’attenzione che avrebbero potuto senz’altro ricevere in un ministero più piccolo e, per così dire, istituzionalmente specializzato nella cura del patrimonio nazionale. Era questa la grande speranza – per fare un altro esempio di indubbia autorevolezza – di Franco Venturi, che su una vastissima esperienza delle biblioteche italiane ed europee proseguiva e realizzava in quegli anni il grande disegno del suo Settecento riformatore (poi, sia detto per inciso, malgrado ciò, egli sarebbe stato un acerrimo critico della gestione delle biblioteche italiane tanto da dedicare la seconda parte del quinto volume del suo Settecento, edita nel 1990, «a chi riaprirà le biblioteche d’Italia», afflitte in quegli anni da una incredibile serie di chiusure e di limitazioni d’uso). E, peraltro, anche per le biblioteche non erano in pochi a temere una fatale egemonia delle Belle Arti, praticamente dominanti per le dimensioni e l’attrattività del loro patrimonio e delle conseguenti attività e il connesso rapporto col pubblico su ogni altro settore del nuovo ministero, come già si deplorava che fosse accaduto nell’ambito della Pubblica Istruzione.
Su questa complessa base storico-politico-culturale nacque, dunque il ministero spadoliniano. Lo contraddistingueva, nell’idea di base di Spadolini e dell’opinione che egli seppe così bene rappresentare e far valere, il concetto che si doveva trattare di un ministero non della cultura,ma del patrimonio culturale; e, in quanto tale, non dei beni culturali, ma per i beni culturali: dunque, un mistero di servizio che sarebbe potuto riuscire tale soltanto se non fosse diventato, secondi termini dello stesso Spadolini, un “ministero burocratico”, come tutti gli altri, bensì un “ministero di competenti”, quindi anche caratterizzato da un’alta cifra scientifica del suo lavoro di conservazione e di promozione del patrimonio nazionale da sottrarre a ogni prassi di lottizzazione di qualsiasi sorta e da amministrare con una intransigente considerazione di esso come “bene pubblico”, quale l’avevano concepito gli uomini che avevano impiantato e avviato l’apparato amministrativo dell’Italia unita. E per questa ragione Spadolini pensava pure a un rapporto organico e costruttivo fra il ministero e l’università, ossia il massimo e naturale organo nazionale della ricerca scientifica.
Erano ideali e idee non proprio di facile, piena attuazione, e Spadolini stesso diceva di muoversi, con tutto ciò che questo significava, tra “contestazione” e “utopia”. Egli mirava a un ministero essenzialmente di indirizzo e di guida, poiché gli sembrava che «tutto il resto – come disse in una intervista del gennaio 1976 – cioè la gestione e la funzione, [andasse] rimesso agli enti locali, alle regioni, ai comuni» (bc, p. 187). Ma questo alto ideale era largamente condizionato da innumerevoli problemi, a cominciare da quello dei fondi e del personale che si avevano a disposizione. Alcuni problemi non furono per allora neppure toccati se non per quanto ne era assolutamente necessario ai fini del perfezionamento largamente delle procedure istitutive del ministero. Tali furono certamente proprio quelli dei rapporti con le regioni e gli altri enti locali o con l’università. Tale, fra altri, fu il problema dei beni culturali ecclesiastici, al quale Spadolini era particolarmente sensibile, poiché vi portava, oltre tutto, anche tutta la sua esperienza di storico a tutto tondo dell’intreccio dei rapporti fra Stato italiano nazionale e unitario, mondo cattolico italiano e la Chiesa con la curia e con l’opinione cattolica internazionale dopo il 1870. E per ciò, nella discussione parlamentare per la conversione del decreto legge istitutivo del ministero, egli auspicava che la materia fosse inserita nella revisione di cui allora si parlava del Concordato del 1929.
Erano problemi non facili ad affrontarsi in sé e per sé, che tanto più lo erano poi nella congiuntura politicamente complessa della vicenda conclusiva per l’istituzione del ministero. Spadolini non poteva, d’altronde, vedere e prevedere tutto e tutto prevenire e risolvere. Il primo a saperlo era egli stesso. In quella stessa discussione parlamentare dichiarava, non a caso, anzi con accenti particolarmente forti, che quello era «soltanto il primo passo per la grande opera culturale del paese», il primo passo ai fini di quei «valori, troppo spesso dispersi, frantumati o negletti», ai quali il nuovo ministero avrebbe dovuto accudire.
Il ministero fu, infatti, da lui subito concepito, come un grande work in progress, un perpetuo lavoro in corso, un compito storico e civile inesauribile, che doveva legare, inanellare gli italiani di ogni generazione nel sentire i beni culturali nella loro fisionomia insopprimibilmente duplice di grandi valori universali, di patrimonio dell’umanità, come oggi si ama dire, e, insieme, di deposito e testimonianza primaria dell’identità nazionale e civile degli italiani e della patria italiana.
Una sola cosa – direi – Spadolini considerò fin dal primo momento definitiva al pari dell’innovazione istituzionale costituita dal neonato ministero, e fu, senz’alcun dubbio, l’assegnazione ad esso della sede del Collegio Romano, un’assegnazione pregna per lui di alti significati, che rende opportuno sentirli evocare dalle sue stesse parole. «L’apertura – scriveva nel dicembre 1976 – che anima il neonato ministero».







NOTE
* Intervento tenuto in occasione della cerimonia di intitolazione a Giovanni Spadolini della Sala Grande già del Consiglio Nazionale, Roma, Collegio Romano, 4 agosto 2016.^
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