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Circolazioni mediterranee*
di Giuseppe Galasso
Se si parla di Mediterraneo, la parola e la nozione di circolazione e tutte le idee ad esse connesse vengono subito alla mente. È così nella realtà storica, ed è così anche nella tradizione letterariamediterranea. Il poema che con ogni ragione può essere definito mediterraneo per eccellenza è l’Odissea, ossia il poema che narra – all’altezza poetica di Omero – la lunga peregrinazione del suo protagonista dall’uno all’altro capo di questo mare.
Un mare singolare per tante ragioni. Si tratta di un mare che si è determinato per caso. È, infatti, una parte dell’Oceano Atlantico che è rimasto prigioniero delle terre fra le quali si stende, dallo Stretto di Gibilterra ai Dardanelli, con una minore, ma non trascurabile appendice costituita dal Mar Nero al di là dei Dardanelli. Allo stesso tempo, è anche un caso unico al mondo. Come a me pare sempre opportuno ricordare, già nel ’500, nel secolo XVI, questa singolarità fu esplicitamente notata. Fra i missionari inviati a cristianizzare i Caraibi qualcuno scrisse che non vi era alcun altro Mediterraneo; e aveva ragione. Si parla – è vero – anche di Mediterraneo caraibico, americano, ma non è la stessa cosa del Mediterraneo che costituisce l’areamarina conclusa che viene indicata con questo nome. E in Asia e altrove sarebbe ancora più difficile trovare un’area marina davvero equivalente a quella mediterranea e conclusa come essa è: una sorta di hortus conclusus fra tre continenti.
Questo unicum della geografia mondiale è anche diventato un unicum della storia mondiale, e lo è diventato assai presto grazie proprio alla circolazione umana – e non solo umana – che esso ha sollecitato fin dall’alba della storia che conosciamo o che possiamo fondatamente ricostruire. In questa storia il Mediterraneo appare, invero, fin dall’inizio condannato, per così dire, alla circolazione: a essere teatro e stimolo a una circolazione ininterrotta, anche se più o meno intensa secondo i tempi e i casi, i soggetti e gli oggetti della circolazione. Una condanna dettata, alla sua base, dalla geografia, per la posizione del mare fra Asia, Europa e Africa, ma, come dicevo, ben presto ratificata e aggravata dalla storia.
Basta pensare a come è avvenuto il popolamento e la diffusione dell’uomo, dell’animale uomo. Come è noto, nessuno ormai sembra più dubitare che le origini dell’uomo siano nell’Africa orientale, e che di lì si sia propagato in ogni direzione questo nuovo protagonista della storia del mondo, che era la trasformazione di un precedente genere animale.
Il Mediterraneo ha rappresentato un percorso tra i più importanti fra quelli lungo i quali l’umanità di origine africana si è trasferita in Europa. È vero che è giunta in Europa anche dal Medio Oriente per via di terra, girando intorno al Mar Caspio o intorno al Mar Nero, ma ciò non ha tolto alcunché al rilievo e all’importanza determinante del passaggio mediterraneo fra i tre continenti che su questo mare si affacciano.
Non si è trattato, per quel che possiamo supporre, del passaggio soltanto di individui, ma di interi popoli, quale che fosse la consistenza numerica (presumibilmente assai modesta nelle epoche più antiche) di tali popoli. Che tali passaggi preistorici o protostorici abbiano lasciato in questo ambito geografico sedimentazioni profonde del più vario genere è presumibile, anche se documentarlo è, per lo più, impossibile. Ancor più, o, meglio, del tutto ipotetico è che alle più antiche circolazioni mediterranee si sia potuta accompagnare la formazione di realtà, o abbozzi di realtà, complessive antropiche e culturali del Mediterraneo.
Dal punto di vista linguistico si sa, ad esempio, che l’Europa è contraddistinta da una unità linguistica molto forte, poiché, con pochissime eccezioni (lappone, finlandese, estone, ungherese, basco, turco), le lingue che vi si parlano sono tutte della grande famiglia indo-europea. I linguisti parlano, di sostrati linguistici preindoeuropei che si possono notare in varie parti dell’Europa, e in particolare nell’area mediterranea. E, comunque, a realtà preindoeuropee fanno pensare il basco ancor oggi e l’etrusco, che era un problema già per gli antichi. Ciò non vuole affatto dire che nell’ambito del Mediterraneo in remote epoche storiche possa esserci stata una certa unità linguistica. Certamente vuol dire però che comunanze a base geograficamente limitata possano esservi state; e ancor più vuol dire che gli scambi linguistici fra le sponde del mare non dovettero mai mancare.
Ciò induce, inoltre, a notare che le circolazioni mediterranee non hanno mai riguardato soltanto gli uomini quali individui fisicamente costituiti: sono state anche le circolazioni di tutto ciò che gli uomini sono soliti o sono in grado di portare con sé (usi, costumi, tecniche, idee, concetti e preconcetti, utensili, attrezzi, credenze etc. etc.). E questo non è una banalità, non è un’osservazione oziosa o superflua sol perché è chiaro che l’uomo si sposta sempre e ovunque con tutto ciò che porta con sé. È un’osservazione che tende a sottolineare quanto nel caso del Mediterraneo ciò che l’uomo ha portato con sé nel corso del tempo sia stato eccezionalmente più importante dell’uomo stesso. Ediciamo questo perché il popolamento, il numero degli uomini, l’abbondanza di braccia e di energie, di ingegni, di slanci etc. sono dati elementari, ma fondamentali e imprescindibili nello studio dell’incivilimento umano, ma sono ben lontani dall’esaurire l’intero significato che i movimenti degli uomini hanno sempre e che il Mediterraneo sembra aver avuto per sua vocazione di esaltare e potenziare.
Il Mediterraneo si è, così, qualificato fin dalle sue origini come unmare-ponte, un mare di connessione, di passaggio, di apparentamenti, incroci, fusioni, di influenze e di suggestioni, di ricezioni e di restituzioni, e, in ultimo, di mescolanze, per così dire, tra quelli che vivono intorno alle sue rive. Questo aspetto del Mediterraneo come mare in cui si specchiano e reciprocamente si riflettono le popolazioni rivierasche è stato anch’esso colto fin dall’antichità.È sempre bellissimo rileggere il passo di Platone, nel Fedone, dove si dice che “gli uomini vivono intorno al Mediterraneo come ranocchi intorno ad uno stagno”. E Platone aveva ragione di dire stagno, perché il Mediterraneo, rispetto ad altri mari o agli oceani, è certamente un piccolo specchio d’acqua,ma bellissima è soprattutto l’idea dei ranocchi intorno allo stagno, che suppone e insinua la funzione, appunto, di ponte del Mediterraneo, di mare che è stato il teatro di passaggi e percorsi, di scambi e di rapporti di ogni genere tra gli uomini che vi vivono attorno; il mare di circolazioni ininterrotte che determinano anche una sua circolarità, una sua intelaiatura riflessa e riflettente, per evidente o latente, per poco o molto consistente che sia questa sua funzione circolare.
Peraltro, il mare-ponte, il Mediterraneo del quale è storicamente sempre molto vivo il panorama di circolazioni e di circolarità, non ha funto solo da ponte. Ha funto anche da barriera, da mare-barriera, e da forte barriera. Quest’aspetto duplice del Mediterraneo, ponte e contemporaneamente barriera, ritorna sempre in tutte le epoche della storia, e in alcune epoche con la massima evidenza.
È importante da questo punto di vista tenere sempre presente il dato storico da cui risulta che in tutta la sua storia, fin da quando ne possiamo intravvedere qualcosa, il Mediterraneo solo una volta è stato unito politicamente, ed è stato per pochi secoli sotto Roma, nell’impero romano. Poi, anche quando è stato un mare-ponte, sotto e sopra il ponte ci sono state ostilità, rotture, guerre, vicende di sterminio e di devastazione, di cui a volte neppure ci si sapeva spiegare l’origine e il perché (si ricordi il caso dei “popoli del mare” che intorno al 1200 a.C. invasero l’Egitto, e di cui nulla si era in grado di dire quanto a provenienza e caratteri).
Tranne il periodo dell’unità romana, che intorno a Roma ne determinò anche una notevole unità civile e culturale, il Mediterraneo è stato, dunque, sempre diviso, sempre caratterizzato da una grandissima diversità di popoli e di culture. Con Roma ci si riferisce, naturalmente, anche all’antica Ellade e al suo inapprezzabile lascito culturale, di cui Roma fu l’erede storica, onde non a torto, da questo punto di vista, si è definito quello di Roma come impero grecoromano (e anche in questo caso avevano già capito tutto gli stessi romani: Graecia capta ferum victorem cepit; la Grecia, vinta, vinse il rude vincitore). Fu nel quadro di questo impero che fiorì la civiltà ellenistico-romana, la cui importanza nella storia mondiale è assolutamente particolare, perché è in essa che è venuto fuori il cristianesimo, e perché nel patrimonio scientifico e intellettuale del mondo ellenistico-romano si ritrovano anche gli elementi di base o le radici della scienza e della cultura moderne.
Già prima di questa fase ellenistico-romana c’era stato, peraltro, quello che per un certo tempo fu definito come il “miracolo” dei greci.Specialmente nella prima metà del secolo XIX si credeva che i greci avessero inventato la civiltà. Poi le cose sono state messe a posto, e si è visto che i greci erano stati molto tributari del Vicino Oriente, e che – se mai se ne potesse parlare – la gloria di “patria della civiltà”andava piuttosto assegnata all’area che va dalla Mesopotamia all’Egitto, dalla quale sono venuti i primi mezzi e strumenti del progresso culturale e materiale della nostra tradizione di civiltà. I greci, dunque, non hanno avuto la gloria del miracolo della civiltà. Hanno, però, avuto la gloria non minore, probabilmente maggiore, di aver fatto, nella fase più classica e caratterizzante della loro storia, un ottimo uso del capitale civile di cui poterono profittare, facendolo fruttificare e incrementandolo in misura più che sostanziosa e in modo del tutto geniale con le loro ulteriori opere, invenzioni, sperimentazioni e scoperte, che hanno formato anch’esse una pietra miliare impreteribile nella considerazione storica della civiltà umana e costituendo la solida e preziosa base sulla quale si è svolta poi la fase ellenistica e, apparsa Roma, ellenistico-romana.
A parte, quindi, l’epoca ellenistico-romana, il Mediterraneo è stato sempre una molteplice e vivace compresenza di popoli, culture, religioni, civiltà, potenze diverse, ed è da questa sua complessa e pluralistica struttura che deriva la necessità di una considerazione anch’essa molteplice delle dimensioni generali e fondamentali della storia del Mediterraneo.
Già indica una di tali dimensioni quel carattere di mare-ponte e, insieme, mare-barriera, di cui abbiamo già parlato. Si badi, però, che questa contrapposizione funzionale non va affatto intesa come un’alternativa rigida, totalizzante: o ponte o barriera. Molto più spesso il mare agisce, nello stesso tempo, da ponte e da barriera.
Una seconda dimensione deriva dalla esperienza ricorrente del Mediterraneo come mare di guerre e di battaglie, che è un altro aspetto imprescindibile del Mediterraneo come teatro e stimolo dei più diversi modi e tipi di circolazione; già a partire dalle sorti delle culture e delle civiltà mediterranee. In Germania si diceva una volta, con una espressione molto colorita, che le idee navigano sempre nella scia delle grandi corazzate. Dove vanno le grandi corazzate, lì poi vanno anche le idee. Questo si è verificato più volte nel Mediterraneo, anche e proprio attraverso l’impressionante serie di battaglie e di guerre che ne costellano la storia, a partire se non altro dallo scontro memorabile fra egiziani e ittiti alla fine del XIII secolo a. C. per il controllo dell’area siro-palestinese fino alle guerre balcaniche, medio-orientali e nord-africane degli inizi del secolo XXI. Attraverso i millenni le battaglie e le guerre hanno portato, comunque, a instaurare nel Mediterraneo a volte una maggiore circolazione, a volte maggiori barriere, e non sempre coloro che hanno perduto sul campo di battaglia hanno perduto pure, o almeno non hanno perduto nella stessa misura che sui campi di battaglia, per quanto riguarda gli elementi di una civiltà e le idee. Una considerazione storica indiscriminata del Mediterraneo da questo punto di vista non è semplicemente possibile, perché urta coi fatti più evidenti.
C’è, inoltre, da aggiungere che dal punto di vista militare il Mediterraneo perde gradualmente di importanza dopo la scoperta dell’America. Come nel commercio, così accade dal punto di vista militare. Lepanto da questo punto di vista è forse l’ultima grande battaglia mediterranea importante. Adesso il revisionismo storico che è una caratteristica dei nostri tempi, e che appare spesso inconsulto, ha ridimensionato la tradizionale valutazione di Lepanto quale battaglia decisiva per l’equilibrio delle forze tra la potenza islamica dell’impero ottomano e le potenze e i paesi cristiani che nel Mediterraneo lo fronteggiavano. Due anni dopo – si dice – la flotta turca, completamente ricostruita, era ancora più forte. Qui non è il caso di discutere di un tale revisionismo. Basterà dire che, da un punto di vista sostanziale, non c’è ragione di sovvertire la valutazione tradizionale di Lepanto. Resta fermo, infatti, che a Lepanto il fulcro essenziale e decisivo del confronto non era quello fra potenze cristiane e impero ottomano, bensì, piuttosto, fra impero ottomano e impero spagnolo; e quell’evento fece capire a Costantinopoli qualcosa di molto importante, e cioè che, se le potenze cristiane del Mediterraneo si univano fra loro, come era accaduto a Lepanto, intorno alla Spagna, diventava oltremodo difficile sconfiggerle. Il governo ottomano fece, insomma, a Lepanto la stessa esperienza che per via terra, nell’altro settore decisivo della valle del Danubio, avevano già fatto, puntando su Vienna, nel 1529 e nel 1532, e che avrebbero ripetuto, riportandone una disfatta decisiva, nel 1683. In tutti questi casi, nonostante l’ambiguo comportamento della Francia, i turchi dovettero concludere che, per quanto la loro fosse una grande superpotenza militare, un’azione delle potenze cristiane in Europa in appoggio alla Casa d’Austria e alla Spagna era superiore alle sue forze.
Dopo di allora, comunque, le grandi battaglie della storia europea e mondiale non si combattono più nel Mediterraneo. Fa eccezione per un certo verso, ma solo per un certo verso, la campagna napoleonica in Italia nel 1796-99. Già da prima della metà del secolo XVI il fronte caldo e decisivo della storia europea è sul Reno, a cui poi si aggiunge il Danubio. Anche nella seconda guerra mondiale lo sbarco angloamericano nel Mezzogiorno d’Italia ha preceduto il D.Day e lo sbarco in Normandia, ma si sa che la strategia anglo-americana prevedeva che la campagna d’Italia dovesse essenzialmente mirare ad attrarre sul fronte italiano quante più divisioni tedesche possibile per sottrarle al Vallo Atlantico e indebolirlo, come sostanzialmente accadde.
Per la terza delle dimensioni di cui andiamo parlando, il Mediterraneo non ha, invece, mai perduto la sua importanza. È la dimensione delle religioni e delle culture. Aveva acquisito questa importanza mondiale già nell’età antica, e poi non l’ha più perduta. Sono fiorite qui, intorno al Mediterraneo, le tre grandi religioni monoteistiche apparse nella storia. Quella israeliana è una piccola religione dal punto di vista del numero dei credenti, ma non è qui, come si sa, la ragione della sua dimensione storica emondiale: la parte dell’ebraismo nella storia mondiale lo dice da sé. Il cristianesimo e l’islam sono invece enormi anche nelle loro dimensioni numeriche, ed entrambi hanno rivelato una impressionante capacità di espansione al di là delle loro regioni di origine, una capacità espansiva che nessun’altra religione mondiale ha rivelato.
È così non solo per la religione, bensì anche per la cultura, sulla base della cultura ellenistico-romana per il versante cristiano, e, per l’islam, sulla base dei fondamenti della sua cultura determinatisi nei primi due o tre secoli della sua storia. Nel mondo moderno il dinamismo e la creatività del versante cristiano si sono imposti, di certo, come di gran lunga superiori, portando, fra l’altro, anche a un fenomeno di secolarizzazione che si mostra sempre più ampio e sempre meno resistibile. Sarebbe, tuttavia, errato ritenere l’ambito dell’islam immobile ed esaurito nelle sue spinte innovative e creative. La storia, in particolare, dalla metà del secolo XX in poi dimostra largamente che quello dell’islam è un mondo tuttora vivo nel profondo delle sue ispirazioni, nella sua capacità espansiva, nelle sue proiezioni verso il futuro, per quanto il suo livello di sviluppo scientifico e tecnico sia ancora lontano da quello del mondo occidentale. È anzi, anche per l’apporto di questa vitalità dell’islam che il Mediterraneo ha iniziato il XXI secolo con un rinnovato ruolo mondiale di centralità e di grande rilievo.
La ricchissima storia culturale del Mediterraneo, la sua vicenda di grande mare-ponte e mare-barriera, gli scambi intensissimi di ogni ordine che si sono intessuti fra le sue rive nel corso dei millenni e varii altri elementi ci portano direttamente al problema della mediterraneità. Sia consentito affermare subito che intorno all’idea della mediterraneità si è costruita una delle mitologie più dannose al Mediterraneo, ai popoli mediterranei, alla cultura mediterranea e non mediterranea; e ciò per la semplice ragione che la mediterraneità non è un’entità antropologica o un’entità definibile in altro modo strutturale: non è un ente, non esiste l’ente mediterraneità; la mediterraneità è una condizione storica, e questa condizione storica è sempre stata plurima, è sempre stata diversa.
Gli storici, quando non hanno più niente da dire al riguardo, risolvono questo problema parlando di unità nella diversità o di diversità nell’unità. A contentarsi di questa, poco geniale, formula c’è da starsene contenti; e, in effetti, faute de mieux, la si può pure adottare, purché col sorriso sulle labbra e con una certa, diciamo, levità di spirito. In realtà, noi stiamo oggi a fatti molto più sconvolgenti che nel passato di questa condizione di unità-diversità del Mediterraneo.
Qui il discorso si farebbe molto complesso perché vi rientrano aspetti, fenomeni, circostanze di tutti i generi: culturali, demografici, economici, sociali, religiosi, politici, e via dicendo, per cui può apparire preferibile fermarsi su qualche punto soltanto di una così vasta e intricata realtà.
Vorremmo riferirci, innanzitutto, alla novità costituita dalla irruzione nella storia del Mediterraneo, in forma macroscopica e in dimensione massiccia, di un terrorismo diverso da quello di altre epoche storiche e cresciuto fortemente nella seconda metà del secolo XX. La novità di questo terrorismo non sta soltanto nelle sue particolari tecniche politico-militari, bensì anche nel suo evidente rapporto con qualcosa di più profondo che sta dentro il Mediterraneo. Cominciato immediatamente all’indomani della seconda guerra mondiale per il conflitto israelo-palestinese, lo sviluppo di questo terrorismo è poi proseguito in diverse declinazioni. Basti pensare alle vicende che vanno dal terrorismo legato alla questione dell’indipendenza algerina a quello di Al Qaeda e a quello dell’ISIS, con implicazioni ideologiche e politiche via via più profonde e molto più generali, fino a giungere a uno spontaneismo diffuso, individualistico, non mosso da una qualche direzione locale o centrale o, comunque, più generale, come si è visto specialmente nel “terrorismo dei coltelli” e in altre iniziative terroristiche individuali che appaiono autopromosse e autogestite.
Rispetto a un tale differenziato e progressivo sviluppo perfino un episodio come quello dei quattro attacchi portati agli Stati Uniti l’11 settembre 2001 – un episodio impressionante per la sua audacia, la sua portata, i suoi obiettivi, la sua complessiva efficacia, la sua minuziosa preparazione, le sue molto ben studiate tecniche – perde qualcosa del valore assoluto, “epocale”, come allora si disse, per cui si ritenne che segnasse una svolta nell’intera politica mondiale. Si pensi, ad esempio, all’autoproclamazione di un nuovo Stato islamico integralista, l’ISIS (sigla europea, Islamic State of Iraq and Syria; per gli Stati Uniti dal 2014 ISIL, Islamic State of Iraq and the Levant; in arabo la sigla è Da’ish o Daesh), nato in Iraq nel 2006 ed estesosi in Siria dal 2012, che, infine, si è trasformato nel 2014 in califfato. Si è formato, infatti, così, un centro politico che si avvale della seduzione che l’idea del califfato di per sé esercita sempre nel mondo islamico, nel quale essa si identifica coi tempi originari della grandezza e delle glorie dell’islam. L’ISIS mira a un “islam puro”, in vista del quale la strategia del terrore in tutte le orme possibili si congiunge alla esortazione e all’orientamento al jihad totale e globale, con obiettivi che, secondo una dichiarazione del 1° luglio 2014, vanno dai paesi islamici dell’Asia centrale a Roma e alla Spagna e dovrebbero essere raggiunti entro il 2020. Le adesioni all’ISIS in Egitto, in Libia, in Nigeria (con BokoHaram) e altrove e le iniziative spontanee che si sono avute in varii paesi europei e non, riferendosi allo stesso ISIS dicono chiaramente le dimensioni assunte dal fenomeno, che non può, perciò, più essere considerato una faccenda interna del mondo islamico, né può essere liquidato come un puro e semplice problema di terrorismo, per quanto estreme e sconvolgenti si siano rivelate le forme della sua pratica terroristica.
Che il Mediterraneo abbia dato i natali a questo terrorismo e ne sia apparso come un fertile terreno di coltura non può essere considerato puramente casuale. Bisogna, al riguardo, allargare lo sguardo all’intero bacino del Mediterraneo. Emergono allora – a tacer di non poco di altro – almeno due teatri di grande, indiscutibile rilievo: quello delle feroci guerre nell’ambito della ex Jugoslavia, e quello delle più recenti complicazioni in Turchia. Ed emergono per ciò stesso problemi e interrogativi su quel che questa collocazione mediterranea ha significato per la natura di questi fenomeni, che della realtà mediterranea appaiono così sconvolgenti. Che cosa vuol dire, a questo proposito, la mediterraneità? Che cosa vuol dire che proprio in grazia della così atroce vicenda di questi fenomeni il Mediterraneo sia tornato al centro della storia mondiale come non lo era da tempo? Non è forse da credere che questi sviluppi terroristici abbiano portato alla mediterraneità un attacco, abbiano determinato al suo interno una implosione di cui non possiamo ancora vedere e giudicare tutte le conseguenze?
L’altro punto sul quale appare opportuno fermarsi è, malgrado ogni apparenza, ancora più importante del terrorismo, più ancora del quale riguarda la vita umana e civile delle popolazioni interessate. Si tratta delle migrazioni internazionali attraverso il Mediterraneo: un fenomeno, in ogni senso, gigantesco.
Beninteso, non è la prima volta nella storia che popolazioni in determinate condizioni si trasferiscano in massa in altri luoghi. Nel caso di due grandissimi imperi, l’impero romano e l’impero cinese, si è fatta questa esperienza. Per due o tre secoli prima delle finali invasioni del V secolo, i germani hanno attraversato le frontiere dell’impero, vi immigravano, vi facevano molte volte carriera e si adattavano a fare i mestieri che potevano fare, e soprattutto i soldati. Lo stesso facevano mongoli, manciuriani e altri popoli nomadi ai confini dell’impero cinese prima che i mongoli e i tartari invadessero quell’antico impero come i germani invasero quello romano, e con la stessa pratica osmotica.
Qui non siamo di fronte a un uguale fenomeno. C’è stata la parte osmotica, sperimentata per varii decennii, fin dagli anni ’50 del XX secolo. Già dai primi anni del secolo XXI si tratta di tutto un altro tipo di migrazione. Si tratta di una, come suol dirsi, “migrazione biblica” per le sue dimensioni, con centinaia di migliaia di persone che si spostano nei paesi dell’Europa occidentale a un ritmo crescente, e con un movimento di cui non si vede che una scarsa o, più spesso, nessuna capacità di governo sia nei paesi di origine, sia, e soprattutto, nei paesi di arrivo.
È comprensibile che i paesi di origine vedano con grande favore una emigrazione che li libera di molti problemi, per cui, in fondo, a una soluzione della questione migratoria essi non sono interessati. Una decompressione demografica dei loro paesi li porta su una strada di maggiore governabilità, nonché di maggiore disponibilità di risorse. È nei paesi di arrivo che ne nascono problemi formidabili che vanno dall’accoglienza ai conflitti etnici, culturali, religiosi che l’insediamento di tanti immigrati determina.
La portata assunta dal fenomeno nell’Europa occidentale non deve, peraltro, far credere che l’Europa sia la sola area del mondo a subirlo. In forma diversa lo stanno subendo anche gli Stati Uniti, in particolare per l’immigrazione attraverso la lunghissima frontiera messicana, senza contare quella che, comunque, avviene attraverso i Caraibi, per cui la popolazione ispanica è cresciuta moltissima negli States e si è parlato già anche di adottare lo spagnolo come loro seconda lingua ufficiale. Né si tratta solo di immigrazione ispanica. Nei modi più varii negli Stati Uniti si riversa una immigrazione di altra provenienza che contribuisce a fare del problema degli allogeni un problema di grande rilievo politico e sociale anche per gli americani.
L’Europa occidentale rimane, comunque, certamente il fronte mondiale più caldo di questi problemi, e ciò proprio per l’imponenza presa dai movimenti che si svolgono attraverso il Mediterraneo. Sono problemi che vanno molto al di là del fatto puro e semplice dell’arrivo dei migranti con le difficoltà, già esse enormi, della loro accoglienza e prima assistenza. Il loro punto culminante nasce, infatti, dal loro stabile insediamento nei paesi di arrivo e nelle difficoltà, molteplici e di non breve durata, dell’integrazione di questa ondata di immigrati. Da questo punto di vista non sono i termini numerici del problema a preoccupare, anche se la loro dimensione statistica è certamente anch’essa una fonte di difficoltà di non piccolo momento (a cominciare dal problema del lavoro in paesi che hanno già talora a loro interno una disoccupazione notevole). Dopo tutto, l’Europa occidentale ha ancora oltre quattrocento milioni di abitanti; e, anche se vi immigrassero parecchi milioni di persone, i problemi sarebbero (come già sono) enormi, ma il locale equilibrio etnico-culturale non ne sarebbe ancora drammaticamente sovvertito. Il vero problema di fondo, la difficoltà in ogni senso maggiore è quella dell’integrazione.
In Europa si fa un gran parlare di cultura non solo dell’accoglienza e del dialogo, ma anche dell’integrazione generale e immediata. Queste posizioni appartengono largamente, come è ben noto, anche alla cultura laica europea. Qui, però, si tratta di una questione che è complessa e difficilissima per i tanti assi culturali, antropologici, sociali. Può bastare l’ecumenismo cattolico o cristiano, può bastare l’ideologia umanitaria laica a offrire le chiavi religiose, ideologiche da cui è essa è intessuta e che possono riservare nella loro progressiva vicenda storica (e, di fatto, già riservano) tutte le enormi problematicità delle questioni di questo genere nella inedita, nuovissima forma storica con la quale attraverso il Mediterraneo si è posta quella attuale? Per ora appare solo possibile notare come questi problemi che il Mediterraneo oggi impone all’Europa siano ormai considerati di un interesse non limitato, geograficamente, alla stessa, sola Europa. Non è un caso che abbiano cominciato a occuparsene le Nazioni Unite; ed è anche un po’ paradossale questo ritorno del Mediterraneo in ragione delle migrazioni che lo attraversano, così come per il terrorismo, al centro dell’attenzione mondiale.
Sembra quasi che quello che non aveva fatto il canale di Suez, che pure ha avuto tanta importanza, nel riportare il Mediterraneo in posizione mondiale di maggiore centralità lo stiano facendo le cose che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi e delle quali stiamo cercando di parlare.
Tornerà, con questo, il Mediterraneo a essere un “mare mondiale” come lo è stato per tanto e tanto tempo? A dispetto della solennità dell’espressione, “mare mondiale” vuol dire semplicemente che si indica così uno spazio nel quale si producono gli eventi e i processi che risultano poi più determinanti per la storia del mondo. A volere un po’ forzare le cose, si può dire che il Mediterraneo lo è stato sempre meno da quando è declinato il suo rilievo da questo punto di vista sul piano militare, ossia, come abbiamo detto, dalla seconda metà del secolo XVI. Il terrorismo e le migrazioni della seconda metà del secolo XX e inizi del secolo XXI sembrano riportarlo, dopo quattro secoli, in una tale condizione: che è la ragione per cui abbiamo parlato di una certa paradossalità di questo fenomeno. Paradossalità in quanto il relativo ritorno del Mediterraneo al centro della più stringente e urgente attualità della politica mondiale avviene su basi che non vedono un protagonismo europeo in qualche modo paragonabile a quello dei lunghi secoli in cui l’Europa stessa è stata protagonista determinante delle cose del mondo e ha avuto nelle sue mani il destino dei popoli e dei paesi del Mediterraneo.
Aggiungeremmo soltanto – a questa già troppo lunga esposizione di una tematica difficile da stringere in un’unica prospettiva per la novità e la complessità del quadro che si è delineato o che si va delineando del Mediterraneo e del contesto mondiale che ad esso è più che mai proprio – la domanda se questo quadro possa mai consentire di riproporre di nuovo il tema della mediterraneità.
Abbiamo già notato che la mediterraneità ha costituito un mito tra i più diffusi nella cultura non solo europea.Vi fu anche chi pensò a una trattazione sistematica di antropologia mediterranea (ricordo il libro, ad esempio, di John Davis, tradotto in italiano già nel 1977, che proponeva un’antropologia comparata delle società mediterranee). Qui vorremmo ripetere che non c’è nulla che davvero autorizzi a pensare a un homo mediterraneus, soggetto di una particolare antropologia mediterranea. La mediterraneità come condizione storica, sia pure in una serie innumerevole di forme e di paradigmi che non consentono alcuna statica e univoca definizione,è, invece, certamente un dato di esperienza storica ben determinata e determinabile, ed è unicamente in questo senso il problema. Ma, se in tal senso riparlassimo di Mediterraneo e di mediterraneità, dovremmo ben presto riscoprire e rimeditare l’elementare dato di fatto che la mediterraneità non solo non si ritrova al di fuori della storia del Mediterraneo, ma, ancor più, che essa non consiste in altro che in questa storia, ossia nella storia dei popoli e delle culture e civiltà che nel corso del tempo si sono succeduti o avvicendati sulle rive di questo mare, e le cui esperienze non si sono mai fuse in una simbiosi unificante, si sono sempre sviluppate in una autonomia e in un reciproco protagonismo, che rende approssimative, come si è detto, anche le formule della diversità nell’unità o dell’unità nella diversità.
Una storia sempre tutta da costruire e ricostruire, nella quale ritroveremo sempre, inevitabilmente, i problemi delle circolazioni mediterranee – nel Mediterraneo, dal Mediterraneo, verso il Mediterraneo – e i problemi di circolarità mediterranea, per cui, allo stesso tempo o alternativamente, in tutto o parzialmente e settorialmente, il Mediterraneo si è sempre posto, ha sempre vissuto ed è stato sempre vissuto quale mare-ponte e mare-barriera.
E tutto ciò è tanto più interessante e istruttivo in quanto le dimensioni delle realtà mediterranee sono sempre state dimensioni a misura di uomo. Già le misure fisiche, geografiche del Mediterraneo sono modeste rispetto a quelle dell’orografia, dell’idrografia, della talassologia, della demografia di altre parti del mondo. Tutto è stato prevalentemente così nel Mediterraneo: piccoli insediamenti e piccoli popoli. Ciononostante, il Mediterraneo ha potuto essere un “mare mondiale” per la eccezionale originalità, rilevanza e conseguenze della storia che vi si è vissuta, e che dalle piccole dimensioni a misura d’uomo ha portato ai grandi imperi e agli straordinari e assolutamente decisivi conseguimenti culturali e civili e di altro ordine, per cui l’esperienza storica del mediterraneo resterà sempre una pietra miliare di eccezionale rilievo nella storia dell’avventura umana. Sarebbe bello se in futuro – quale che debba essere la parte del Mediterraneo e dei suoi popoli nella storia dell’uomo e del mondo – si potesse tenere viva sulle rive di questo mare la misura d’uomo della sua realtà e della sua tradizione, che non ne ha in alcun modo impedito, e che può semmai averne sollecitato, quei conseguimenti civili, culturali e di ogni altro ordine di cui abbiamo fatto cenno.




NOTE
* Testo della relazione tenuta alla Summer School 2016, XI edizione, Procida, 26-30 settembre 2016, a iniziativa del Dipartimento di Studi Umanistici, Dottorato in Studi internazionali, dell’Università “L’Orientale” di Napoli.^
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