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Partiti e condizioni sociali
di Giuseppe Galasso
Non ritorneremo sulla crisi dei partiti come forze politiche organizzate quali abbiamo conosciuto per lunga tradizione e nella loro molteplice e complessa evoluzione nell’Italia prefascista e postfascista. Questa tradizione si è rapidamente dissolta negli scorsi anni Novanta. È uno spettacolo davvero molto poco edificante constatare oggi come i partiti sviluppatisi sulle ceneri dei vecchi partiti socialista, cattolico, comunista non facciano mai riferimento alla loro pregressa tradizione culturale. Che non si riferiscano alla tradizione politica si può capire. Non solo quella tradizione si è chiusa con la fusione (passaggio dallo stato solido a quello liquido) dei vecchi partiti, e poi con la dispersione di questo stato liquido in molti rivoli e rivoletti, ma per gran parte di quelle vecchie strutture politiche si è anche trattato di rimangiarsi i punti fondamentali delle idee e delle proposte politiche su cui erano fondati. Che, però, non vi siano più riferimenti alle culture di quelle forze politiche (culture che ebbero esponenti, momenti e aspetti di notevole rilievo), questo è, francamente, sconcertante, e porta a porre molti interrogativi non solo di storia politica.
Tanto più, poi, si resta sconcertati in quanto anche in altri grandi paesi europei (Germania, Francia, Spagna) in cui si è già avuto o sembra affacciarsi all’orizzonte un certo squinternamento o una crisi profonda dello schieramento politico tradizionale, in nessuno di essi si è, almeno finora, assistito a una tale eclisse, scomparsa e obliterazione non solo delle tradizionali forze politiche, ma anche delle loro culture e idee e strategie di governo.
Nel frattempo, nel giro di poco più di un quarto di secolo, dalla fine degli anni Ottanta in poi, sono nati vari altri partiti: tutti, bisogna dire, a scarsa densità ideologica. Già, in qualche modo, lo dicono le formule stesse usate per definirli: il partito-azienda; il partito personale; il partito dei sindaci; il partito leggero o partito di tipo anglosassone; il partito territoriale; e, finalmente, il partito in rete.
Quest’ultimo pretende di rappresentare il partito della democrazia diretta, resa finalmente possibile, secondo i nuovi profeti del verbo 5 Stelle, dalla tecnologia informatica che permette l’intervento individuale dei cittadini e, quindi, una serie anche frequente su qualsiasi tema in tempo reale. Senonché questo presunto massimo pregio è incredibile e si è dimostrato praticamente del tutto fallace e illusorio; e per di più ha fatto sempre più considerare l’estrema esposizione, che così si avrebbe, del processo politico agli umori mutevoli del momento, propri di ogni corpo sociale, e, per di più, il dato di fatto incontrovertibile che alla consultazione in rete finisce di fatto col partecipare, come finora si è visto, un numero di cittadini di molto più basso dei numeri che fanno parlare di diserzione delle urne, di scoraggiante assenteismo elettorale, di sfiducia verso le istituzioni, e ancor più, verso la democrazia stessa. Riflessioni alle quali se ne possono aggiungere altre. A cominciare, intanto, da quella relativa al senso fisico del processo democratico, per cui la partecipazione fisica personale dei cittadini nei luoghi e nelle occasioni dovute è un elemento morale e politico irrinunciabile perché si possa parlare di democrazia. Credere che il computer possa sostituire i luoghi pubblici di convegno democratico è teoricamente e praticamente inaccettabile (ma, del resto, sembra che se ne vadano accorgendo gli stessi 5 Stelle, fra i quali ci si andrebbe sempre più orientando verso la trasformazione formale del movimento in partito: che sarà un bene per loro e per il sistema politico italiano).
È in questo quadro generale dell’attuale condizione politica italiana che dev’essere considerata quella che rappresenta un altro aspetto singolare e, a mio avviso, negativo sia del dibattito che dell’azione politica nell’Italia di oggi. Ci riferiamo alla perdurante scarsa o nessuna attenzione alla individuazione delle forze sociali che dovrebbero sostenere i programmi e l’azione delle forza politiche agenti sulla scena nazionale. Lo si può capire. Abbiamo tanto parlato da fare indigestione di capitalisti e proletari, operai e contadini, piccola o media o grande borghesia, lotta di classe come motore della storia e altri connessi o somiglianti idoli sociologici e politici. Abbiamo fatto l’esperienza di quel che sono i partiti di classe e dove portano le ideologie che li ispirano. Le prove e le esperienze della storia non passano invano.
La questione, tuttavia, non viene vanificata da considerazioni di questo tempo. Rimane difficile credere che un’azione politica in un regime di libertà possa mai fare a meno di darsi determinati interlocutori sociali. I “blocchi sociali”, le alleanze e le strategie di classe di cui si parlava una volta sono un ferro vecchio, che è difficile mettere a nuovo, ma l’assenza di ogni riferimento sociale strutturato nel discorso politico attuale dà tutti i segni di essere un motivo di suo impoverimento, non di suo arricchimento e apertura. Il classismo come ideologia totalizzante è una cosa. L’assenza delle vive, insopprimibili e innegabili articolazioni della società come interlocutori obbligati e obbliganti delle forze politiche è un’altra cosa. Da nessuno e da niente è stato mai dimostrato che il discorso articolato secondo la fisionomia della società nazionale debba contraddire al discorso al quale ha un inviolabile diritto ogni cittadino, come singolo, appunto, che è titolare di una quota della sovranità nazionale uguale a quella di qualsiasi altro cittadino. Ma di fatto questo puro individuo sovrano è poi sempre connotato in vario modo, e considerarlo in questa sua doppia e inseparabile identità è assolutamente necessario.
Una parte della lontananza dalla politica e dalle istituzioni di cui ci si lamenta in Italia è dovuto anche a questo mancato o scarso riconoscimento della vera, mai elementare condizione sociale del cittadino. Arricchire questa considerazione sociale del cittadino nel senso che abbiamo accennato è perciò una necessità della politica italiana attuale, che non vediamo abbastanza percepita. E non sorprende a risentire di più e a reagire peggio a tale insoddisfacente considerazione siano le aree più povere e disagiate del paese, nelle quali il cittadino come singolo è chiaramente tanto più debole e in difficoltà che in altre aree. Né sorprende che ne risentano di più e vi reagiscano peggio, a livello non individuale, le aree sociali oggi più dilaniate dalla crisi in corso, quali, ad esempio, quelle della borghesia, soprattutto medio-piccola, che appaiono sempre più disorientate e sfiduciate nell’avvertire un destino di impoverimento e di dipendenza a cui non riescono a capire come far fronte.
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