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Tra Labriola e Gramsci*
di Marcello Montanari
1. Nei Quaderni del carcere di Gramsci si trovano due giudizi su Labriola assai divergenti.Nel primo, dopo aver ricordato la risposta di Labriola alla domanda su come educare un papuano (“provvisoriamente lo renderei schiavo”), Gramsci osserva: «il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello “pedagogico-religioso” delGentile […] lo storicismo di Labriola e del Gentile è di un genere assai scadente» [Q. 11, §1]. Il secondo giudizio è ben diverso. Gramsci scrive, infatti, che «il Labriola, affermando che la filosofia della prassi è indipendente da ogni altra corrente filosofica, è autosufficiente, è il solo che abbia cercato di costruire scientificamente la filosofia della prassi» [Q. 11, § 7]1.
La contrapposizione appare netta, ma il fatto che la seconda affermazione sembra essere successiva (si tratta, infatti, della prima e dell’ultima nota dello stesso quaderno) non significa che la prima debba essere automaticamente ignorata, come se la riflessione ultima potesse escludere la precedente. E, in verità, quei due giudizi finiscono con il cogliere la complessità della riflessione di Labriola. Individuano due componenti del pensiero del cassinate, che coesistono nonostante una loro apparente antinomia, e rendono visibile un progredire non lineare del suo pensiero. Gramsci, in definitiva, evidenzia la ricchezza di quel pensiero, ma non ne dimentica i limiti e le inadeguatezze (in particolare, l’incomprensione della natura del colonialismo). Ne valorizza l’idea della storia come prodotto del solo agire umano, ma non ne ignora la insufficiente analisi del proprio tempo.
Ricostruire tale complessità del pensiero di Labriola, e ricostruirlo nel suo divenire, richiede una rilettura integrale della sua opera e, quindi, un recupero dei suoi scritti pre-marxisti. Richiede, inoltre, la messa in disparte della lettura che ne fece Togliatti in un saggio del 19542, collocando Labriola in una linea che – muovendo dallo hegelismo di Spaventa – lo congiungeva alla riflessione di Gramsci. L’interpretazione togliattiana aveva, sicuramente, dei fondamenti e delle “pezze d’appoggio” e aveva, soprattutto, legittime preoccupazioni politiche. Essa intendeva costruire una tradizione culturale che supportasse l’idea della specificità e dell’autonomia teorica del marxismo italiano. Inoltre, si poneva l’obiettivo di attrarre nell’orizzonte marxista una generazione di intellettuali che si era formata alla scuola di Croce. Sennonché, in questo suo voler “canonizzare” il Labriola, Togliatti finiva con il perdere di vista i limiti dello storicismo del Labriola, che non riusciva a produrre una compiuta analisi delle trasformazioni sociali, che nel passaggio “da un secolo all’altro” erano già visibili. Inoltre, nel tentativo di saldare il pensiero di Labriola con quello di Gramsci, finiva con lo sminuire – in quel saggio – la originalità teorica del pensatore sardo.
A una rilettura completa di tutti gli scritti di Labriola offre un contributo notevole la raccolta delle opere edita da Bompiani, con una prefazione assai ricca e stimolante di Luca Basile e un prezioso apparato critico messo a punto da Lorenzo Steardo. Al volume si aggiunge una post-fazione di Biagio de Giovanni, che è un invito a collocare Labriola al di là della tradizione marxista.

2. Leggere Labriola oltre il marxismo significa, innanzitutto, prendere atto del fatto che Labriola giunge al marxismo per vie tortuose (ammesso che ci sia mai stata una linea diretta Hegel-Marx) e portandosi appresso un bagaglio di interrogativi e problemi che originavano dalla sua antecedente “coscienza filosofica”. Il primo risultato, che il volume citato raggiunge, è, infatti, quello di mettere in evidenza come il procedere della riflessione di Labriola non abbia nessuna interna teleologia. Non v’è un passaggio lineare dallo hegelismo al marxismo. Anzi, v’è, in Labriola, un dimenticare Hegel, per ritornare a Kant (con il suo riflettere sui fondamenti etici dell’agire) e solo a partire da qui ritrovare Marx.
Abbandonato lo hegelismo di Spaventa, Labriola si imbatte in Spinoza e in Herbart, in una visione “totale” della libertà e in un formalismo etico (ancora kantiano), che avevano la forza di riproporre la discrasia tra il reale e l’ideale, tra l’incompiutezza della modernità e la necessità del suo compimento. Ciò che in quei due autori (in Spinoza e in Herbart, dico) Labriola veniva ricercando era, infatti, una fondazione della “libertà morale”: un modo di coniugare la libertà individuale con la formazione di un ordine civile (e di un sistema di leggi) che – come Socrate aveva insegnato – fosse degno di obbedienza. E, infatti, il saggio Della libertà morale (1873) si chiude con una felice sintesi tra libertà politica e etica pubblica. «La libertà politica, – scrive Labriola – dalla quale abbiamo preso le mosse, non ha, dunque, valore senza la morale efficacia del carattere: e quando lo stato non è, o non si adopera ad essere somma e coordinamento di istituzioni educative, la libertà riesce alla negazione di sé stessa» [A. Labriola, Tutti gli scritti ecc., cit., p. 783]. Dove, la critica spinoziana del libero arbitrio e il concetto della libertà come “conoscenza adeguata” dei nessi causali, che regolano la vita associata, si coniugano con l’idea di una volontà trascendentale, che non può essere incapsulata entro un determinismo naturalistico.
Il giovanile hegelismo di Labriola è, qui, dissolto in una più attenta riflessione intorno alla stessa problematicità del rapporto tra carattere trascendentale dell’“io psichico” (o della soggettività) e vita sociale. L’adesione alla filosofia hegeliana era dettata dalla convinzione che lo Stato fosse il luogo del pieno compimento della sintesi di libertà e eticità: lo Stato come luogo della libertà ed esso stesso strumento di liberazione. Era questa l’idea di Stato di cui si era nutrito il Risorgimento liberale: l’idea che il formarsi dello Stato nazionale dovesse coincidere con un nuovo sistema di eticità. Il giovane Labriola era hegeliano, perché la costruzione del nuovo Stato era il segno di una volontà di liberazione; non l’imporsi di un dover essere, ma “il movimento reale delle cose” che doveva sfociare in un nuovo sistema di relazioni intersoggettive e di legami sociali.
L’attenzione alla filosofia di Herbart (e attraverso Herbart a quella di Kant) nasce dal dissolversi di questo disegno (o di questo sogno). Non si può, infatti, dimenticare che gli anni ’70 dell’Ottocento sono gli anni in cui, anche in Italia si giunge alla crisi e alla critica dell’hegelismo (si pensi anche all’itinerario intellettuale di De Sanctis). Viene meno l’idea, che aveva nutrito tanta parte dello hegelismo della razionalità della storia o del suo lento, ma inarrestabile, fluire verso il compimento della Ragione. Sono gli anni in cui, nello storicismo tedesco e nella psicologia sociale, emerge l’idea di una dimensione del vitale difficilmente riconducile entro i paradigmi della sola Ragione. Negli anni ’70 e ’80, con il progressivo emergere dei “mali d’Italia” e con lo scolorirsi del disegno di uno Stato unitario quale sintesi di libertà ed eticità, svanisce anche il giovanile hegelismo di Labriola. Egli non può che iniziare a riflettere sulla distanza, forse incolmabile, tra il reale e l’ideale, tra l’essere e il dover essere. Non era, però, nell’eticismo di Herbart che poteva ritrovare gli strumenti teorici necessari per comprendere la realtà italiana post-unitaria. Occorreva, invece, ripensare il metodo e i contenuti della conoscenza storica e ritrovare categorie analitiche più adatte alla interpretazione della genesi delle formazioni sociali e del loro “movimento storico” (la natura delle forze sociali in conflitto, le loro contraddizioni e i loro obiettivi).
Conviene, allora, muovere da quello che può essere considerato il “quarto” dei saggi sul materialismo storico, perché in esso l’analisi dei limiti della costruzione dello Stato italiano spiega perché sia divenuto necessario definire una prospettiva teorica in grado di intrecciare comprensione storica e divenire storico.

3. In Da un secolo all’altro Labriola assume come proprio oggetto d’analisi l’era liberale, caratterizzata, a suo avviso, dalla formazione degli Stati nazionali e, in particolare, dall’emergere della Germania come nuova potenza europea. Questa indagine, che valorizza i processi sociali e politici di carattere progressivo originati dalla Rivoluzione francese, si chiude mettendo in evidenza i limiti dell’esperienza italiana. L’Italia, scrive Labriola, «è parsa troppo piccola al confronto della sua grande storia. A Stato nuovo costituito con la capitale naturale, s’è finito per pigliar notizia più accertata e più tranquilla delle altre nazioni, e a riconoscere che per grande Stato siam troppo piccoli. Ed ecco a che si riduce: il non aver corrisposto all’aspettazione» [A. Labriola, Tutti gli scritti ecc., p. 1685].
Dunque, secondo Labriola, al “passaggio di secolo” diviene manifesto che la formazione dello Stato unitario italiano non ha «corrisposto alle aspettative»: il secolo liberale non ha prodotto, almeno in Italia, una nazione in grado di corrispondere alle domande di libertà e di equilibrio sociale, che il movimento risorgimentale aveva sollevate. Ed è la consapevolezza della debolezza italiana che obbliga a un ripensamento e delle “leggi di movimento” della storia e della stessa natura delle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni dell’800. A Labriola è chiaro che si è in presenza della fine dell’età liberale “classica” e di fronte al formarsi di un nuovo ordine sociale. Queste trasformazioni richiedono nuove categorie interpretative. Si tratta, cioè, di ritrovare la connessione tra il “movimento storico” e la comprensione di questo stesso movimento.
È questo il tema che attraversa la Prolusione del 1887: come si generano le organizzazioni sociali (“le neo-formazioni”) e come è possibile comprendere i meccanismi che ne regolano le mutazioni. L’indagine si concentra, così, sulla individuazione delle leggi che scandiscono questi mutamenti. E la prima considerazione che Labriola sviluppa è che i sistemi o «plessi di attività» non mutano unicamente per un accumularsi di eventi – secondo un ritmo puramente cronologico –, ma secondo una “causalità strutturale”, diremmo noi oggi. Scrive Labriola che non si può «immaginare o credere che il supposto di legge si debba ritrarlo dall’ordine ovvio della cronologia estrinseca degli avvenimenti, secondo che la storia è di solito narrata, e che vada poi applicata come mezzo probabile di previsione. Il significato di legge in questa particolare accettazione è analogo a quello della morfologia delle scienze organiche; e consiste precisamente nel riconoscere le condizioni di corrispondenza; o d’azione reciproca, da cui nasce un dato tipo». [A. Labriola, Tutti gli scritti ecc., cit., p. 1073]. Ne deriva che la comprensione delle leggi del divenire storico non può emergere dal «cumulo delle infinite notizie», ma dall’individuazione dei caratteri morfologici di un determinato organismo sociale. La storia è, così, concepita come un organismo che evolve non in maniera lineare-cronologica, ma secondo una temporalità scandita dalla sua costituzione morfologica. La critica herbartiana al formalismo logico di Kant e alla dottrina hegeliana della dialettica conduce Labriola a una concezione organica della storia; ad una concezione della storia che respinge ogni prospettiva monistica o evoluzionistica, perché il “movimento storico” risulta essere segnato da una molteplicità di forze sociali e di ambiti culturali che “fanno massa” e si unificano sulla base della loro “inclinazione” o struttura morfologica. È respinta l’immagine di un Soggetto (lo Spirito o l’Io Trascendentale) che procede verso un Fine ultimo.
L’orizzonte culturale entro cui si muove il Labriola della Prolusione non è distante da quello del Dilthey della Introduzione alle scienze dello spirito (1883-1890). Nel capitolo conclusivo del primo libro di questa opera3 Dilthey sostiene che: a) la conoscenza storica non si risolve nel “cumulo di notizie”, ma si realizza connettendo le diverse funzioni e ambiti sociali (sistemi culturali, organizzazione “esterna” della società, orientamenti religiosi); b) occorre conoscere l’uomo insieme alla sua società e alla storia che egli crea: l’uomo è un ente storico; c) il pensiero (e, in particolare, la conoscenza storica) scaturisce dalla stessa esperienza vissuta e in essa torna a radicarsi nella forma di sistemi culturali. Su questa linea Dilthey, qualche anno dopo, giungerà a definire la categoria della connessione come quella categoria che «sorge dalla vita stessa», «in quanto la vita stessa è una connessione strutturale in cui stanno gli Erlebnisse e cioè le relazioni che possono essere immediatamente vissute»4.
La connessione tra il divenire della storia e comprensione storica era il problema di Dilthey. È questo stesso problema che Labriola porta dentro di sé nell’accostarsi al marxismo. Il marxismo è da lui interrogato a partire da questo nodo teorico. La sua indagine non muove più dall’idea di un divenire della Ragione, ma dalla consapevolezza che la conoscenza nasce sul terreno stesso di una esperienza multiforme dei “mondi vitali” (spesso estranei al “mondo della ragione”) e, solo in quanto è radicata in questa esperienza, la conoscenza può tornare ad essere un criterio di orientamento pratico.
È una prospettiva teorica che si muove nell’orizzonte culturale del neokantismo, più che nell’orizzonte di una filosofia della storia di stampo hegeliano5. Una prospettiva che, pur restando sul terreno della metodologia della conoscenza storica, aiuta a riflettere sull’irrazionalità del divenire storico (sulle contraddizioni reali). Nella sua lettura dei testi marxiani, Labriola muove da questo nodo teorico: dalla necessità di ripensare il nesso divenire della ragione/prassi storica.

4. I problemi sin qui delineati trovano un ulteriore sviluppo nello scritto In memoria del Manifesto dei comunisti (1895). È nel Manifesto di Marx e Engels che Labriola rintraccia quella filosofia che gli consente di saldare storia e conoscenza della storia. È nel marxismo che egli ritrova quel metodo che, nascendo dallo stesso divenire storico, fornisce un’analisi morfologica delle società moderne e delle loro mutazioni morfologiche. Il comunismo teorizzato da Marx, sostiene Labriola, non è una «fabbrica di rivoluzioni», ma è l’espressione di un “movimento reale”: è il modo in cui un soggetto sociale determinato interpreta se stesso in relazione alle tendenze strutturali della società. In questo senso, egli può affermare che «il nerbo, l’essenza, il carattere decisivo di questo scritto [= Il Manifesto dei Comunisti] consistono del tutto nella nuova concezione storica, che gli sta in fondo, e che esso stesso in parte dichiara e sviluppa, quando nel resto non vi accenni, e non vi rimandi, o non la supponga soltanto. Per questa concezione il comunismo, cessando dall’essere speranza, aspirazione, ricordo, congettura o ripiego, trovava per la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della sua propria necessità, cioè nella coscienza di esser l’esito e la soluzione delle attuali lotte di classe» [Labriola, Tutti gli scritti, cit., p. 1151]. Il comunismo è, dunque, necessità storica e coscienza di questa necessità. Esso «non sorge se non nel momento in cui il moto proletario, oltre ad essere un resultato delle condizioni sociali, ha già tanta forza in sé da intendere che queste condizioni sono mutabili, e da intravvedere con quali mezzi e in che senso possano essere mutate» [ivi, p. 1158].
La comprensione delle forme del divenire storico e la stessa criticità del comunismo sono, così, incardinate sulla forza del movimento operaio. Il comunismo critico (ovvero: la gnoseologia storica) nasce sul terreno della democrazia (ovvero: sul processo di democratizzazione che lo stesso comunismo produce)6.
Ritorna, per questa via, il tema delle “neo-formazioni”. L’analisi storica e sociale, contenuta nel Manifesto, è un’analisi di tipo morfologico, in quanto ne configura e prevede una mutazione del vecchio sistema sociale sulla base della stessa azione del movimento dei lavoratori. La previsione morfologica è tale, perché legata alle stesse capacità di questo movimento di progettare una nuova formazione sociale. Divenire storico e comprensione storica si saldano, perché lo stesso soggetto che produce la democratizzazione della società produce la conoscenza del mondo che investe con la sua pratica. Per dirla con Vico, si conosce la morfologia sociale, in quanto la si crea (o ricrea). La nuova concezione marxiana della storia, così come Labriola la reinterpreta, consiste nel conoscere la storia, nel mentre la si fa.
È questo, a mio avviso, il punto più avanzato della riflessione di Labriola: prassi e teoria, storia e conoscenza storica giungono (devono giungere!) a saldarsi. E, probabilmente, era questo aspetto dello storicismo di Labriola che Gramsci intendeva valorizzare. Sennonché, è subito da aggiungere che tale discorso si muove, ancora, sul terreno della “filosofia della storia”. Se le risposte sono nuove, perché insistono sulla centralità del movimento proletario e non più sugli Erlebnisse, le domande si collocano sul terreno dello storicismo neo-kantiano: del Dilthey che teorizzava la connessione tra storia e conoscenza storica (e che ricercava le condizioni di conoscibilità della storia). Si disegna, così, una gnoseologia che reclama l’indagine delle mutazioni morfologiche, ma che, di fatto, resta vuota di contenuti analitici. E questo accade perché Labriola resta aggrappato ad alcuni aspetti della teoria marxista che, in verità, non consentono una corretta comprensione proprio di quei mutamenti morfologici che sono già in atto alla fine dell’ ’800. Egli, cioè, percepisce che la società sta mutando sotto i suoi occhi e che per “leggerla” occorre una nuova metodologia, ma è proprio nell’accettazione acritica di alcune categoria marxiane (in particolare, della teoria del valore-lavoro) che si manifestano nella sua riflessione i limiti di una piena comprensione delle “leggi del movimento storico”. Da qui, la sua difficoltà nel produrre un’analisi politica della nuova e complessa realtà sociale e il suo giudizio sul colonialismo. Ciò che appunto Gramsci indicava come limite del suo storicismo.

5. La chiave per comprendere i limiti del marxismo di Labriola è la sua difesa della teoria del valore-lavoro di fronte alla crisi del marxismo, provocata soprattutto dal revisionismo di Bernstein e di Croce, che avevano fatto tesoro delle tesi elaborate dall’“economia pura” e, in particolare, da Böhm-Bawerk. Concludendo il suo scritto A proposito del libro di Bernstein (1899), Labriola afferma che «la crisi del marxismo non è che il sintomo di un fatto assai semplice e umanamente spiegabile; che, cioè, alcuni se ne vanno, ed altri s’accasciano per via» [A. Labriola, Tutti gli scritti, cit., p. 1650]. Egli vede che molto dello spirito revisionista deriva dal disincanto che circola nella socialdemocrazia a seguito dei non soddisfacenti risultati ottenuti dalla “lotta di classe”. Ma, se pur legittima, la sua riprovazione di quanti “se ne vanno” o “si accasciano” resta una reazione emotiva che non diviene un’analisi razionale di tale crescente disincanto. E l’emotività, o la delusione per il “nuovo” atteggiamento di chi si riteneva un collaboratore e un amico, caratterizza una lettera a Croce del febbraio 1898: «Per tutte queste vedute incomplete, immature o erronee tu mi hai l’aria di un epicureo che mediti su le forme del pensiero, ignaro della vita. Ma vuoi persuaderti che quella teoria del valore-lavoro ha una portata più larga di ciò che importi alla corrente economica, come spiegazione terra terra dei fattarelli di tutti i giorni? Tu pigli il lavoro come una cosa esterna rispetto al tuo pacifico ozio di epicureo contemplante – e quindi non puoi intendere perché la teoria del valore-lavoro abbia rivoluzionato tutta la concezione della vita e della storia, in quanto l’economia è la scienza dell’ordinamento della produzione»7. E, ancora in polemica con Croce, nel Postscriptum all’edizione francese (1898) di Discorrendo di socialismo e di filosofia, ribadisce queste sue osservazioni, irridendo il concetto di “economia pura” e ribadendo che la teoria marxiana del valore-lavoro connota un determinato modo di produzione: l’economia capitalistica industriale. Questa teoria – egli aveva scritto nelle pagine del Discorrendo – è la legge specifica e fondamentale del modo di produzione capitalistico. Essa è non è né un «factum empirico» né una «semplice posizione logica», ma «la premessa tipica, senza della quale tutto il resto non è pensabile» [ivi, p, 1407]. Labriola rivendica, così, il carattere ermeneutico della categoria marxiana del valore-lavoro. Non di una categoria dell’economia pura si tratta, ma di una categoria politica che consente l’indagine dei rapporti di forza tra le classi. Essa è lo strumento teorico che consente di decifrare la natura del processo di accumulazione capitalistica e di comprendere il meccanismo di riduzione del lavoro a forza lavoro, la riduzione della vita e dei “mondi vitali” alla sola sfera economica8.
È sufficiente questo a sbarazzare il campo dalle critiche mosse dal revisionismo e dall’“economia pura”? A mio avviso, no!
Non è qui il luogo per ripercorrere le tesi di Böhm-Bawerk intorno al rapporto produzione-consumi o quelle di Croce sulla teoria del valore-lavoro come paragone ellittico9. È, invece, opportuno sottolineare che quelle tesi erano ben lungi dal sottovalutare la portata della teoria del valore-lavoro e non ignoravano che quella teoria avesse «rivoluzionato tutta la concezione della vita e della storia». Erano ben consapevoli che su di essa si innestava gran parte dell’iniziativa politica del movimento proletario e della visione della storia che a tale politica era legata. Sennonché, le loro obiezioni ponevano l’accento sul complessificarsi delle società contemporanee: sulla loro irriducibilità ad una “società di soli lavoratori”. Quelle critiche ponevano in rilievo una mutazione che era intervenuta nel processo di accumulazione capitalistica: percepivano e visualizzavano lo spostamento del centro del meccanismo capitalistico dalla sfera della produzione alla sfera dei consumi; dicevano che era già avviata una trasformazione della società capitalistica industriale in una società dei consumi.
In questa nuova realtà, star fermi alla centralità della teoria del valore-lavoro, ancorché riletta in chiave politico-ermeneutica, significava, di fatto, non favorire la “liberazione” della forza lavoro dalla sua forma di merce, ma riproporre una forma di “socialismo ricardiano”, cioè: una ideologia politica necessaria e assai utile per legittimare la lotta del proletariato per una redistribuzione del plusvalore estorto, ma insufficiente nel delineare una risoluzione della contraddizione tra la complessità sociale e la tendenza del processo capitalistico a chiudere quella complessità nella cerchia dell’economico o, se si vuole, a contabilizzare l’intera vita.
Se, infatti, giungiamo a riconoscere che la teoria del valore-lavoro segnala la riduzione del lavoro a merce, della vita all’economico, e che tale riduzione è l’effetto del dominio del capitale, allora non è dall’economico, (cioè: dal lavoro in quanto produttore di valori; dal luogo dell’isolamento della FL) che occorre ripartire, ma, al contrario, occorre svelare le connessioni esistenti tra le diverse sfere e i diversi momenti della riproduzione sociale complessiva. Pensare la teoria del valore come “premessa tipica” non aiuta a comprendere che la sfera della produzione non è più determinante e che il comando dell’economia è, ormai, fuori dalla stessa sfera economica.
In definitiva, Labriola avrebbe dovuto superare l’idea della teoria del valore-lavoro come “premessa tipica”. Invece, riproponendone la centralità contro le interpretazioni revisioniste, egli non vede che le tesi di un Croce o di un Bernstein sono il segno di una modificazione dei meccanismi di accumulazione del capitale e degli stessi “mondi vitali”. E, a guardar bene, il suo giudizio sul colonialismo non è una semplice “svista”, perché matura proprio in questo orizzonte teorico; in una visione del succedersi delle “neo-formazioni” come un progressivo procedere dal modo di produzione antico a quello feudale e alla società capitalistica, per giungere, infine, al socialismo seguendo le leggi di movimento dettate dalla contraddizione tra lavoro salariato e capitale. Ma, in questo schema, la formazione sociale capitalistica appare come un tutto compatto, incapace di auto-trasformarsi e di produrre al suo interno dei mutamenti “rivoluzionari”. È, invece, la visualizzazione di questa continua rivoluzione-restaurazione delle forme capitalistiche a costituire uno dei cardini della gramsciana filosofia della prassi. Certo,Gramsci ha di fronte a sé una forma “pienamente dispiegata” di “democrazia dei consumi”: l’americanismo. Ed è a partire dall’analisi di questa realtà che egli opera una rottura epistemologica con quel marxismo che muoveva ancora dalla centralità della sfera della produzione (e della teoria del valore-lavoro). Ma, allora, se questo è vero, immaginare una congiunzione tra il marxismo di Labriola e quello di Gramsci diviene assai difficile.








NOTE
* A proposito di: Antonio Labriola, Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell’educazione, a cura di Luca Basile e Lorenzo Steardo, post-fazione di Biagio de Giovanni, Bompiani, Milano 2014, pp. 2058.^
1 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975. Le citazioni sono alle pp. 1367 e 1507-08.^
2 Cfr. P. Togliatti, Per una giusta comprensione del pensiero di Antonio Labriola, in Id., la politica culturale, a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 307-371.^
3 Cfr. W. Dilthey, introduzione alle scienze dello spirito, tr. it. di G. A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 154-159.^
4 W. Dilthey, Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico, in Id., Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1982, p. 299.^
5 Qui, naturalmente, prendiamo in considerazione la lettura di Hegel che dominava nella seconda metà dell’ ’800 e non la filosofia di Hegel in quanto tale.^
6 Scrive Labriola: «Il comunismo critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse. È, sì, tutt’una cosa col movimento proletario; ma vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza della connessione che esso ha, o può e deve avere, con l’insieme di tutti i rapporti della vita sociale» (Tutti gli scritti, cit., p. 1174).^
7 A. Labriola, Lettera a Benedetto Croce del 28 febbraio 1898, in Id., Epistolario, 1896-1904, introduzione di E. Garin, a cura di V. Gerratana e A, A. Santucci, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 851.^
8 Su tutto ciò Luca Basile, nella sua introduzione, riprende ampiamente una tesi elaborata, anni fa, da Biagio de Giovanni nel saggio: Il criticismo di Marx, in AA. VV., Filosofia e politica. Scritti dedicati a Cesare Luporini, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 179-202.^
9 Per un’analisi di questi temi rinvio al mio volume Il revisionismo di Gramsci, in via di pubblicazione presso le edizioni Biblion di Milano.^
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