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Referendum: si e no
di G. G.
Il referendum istituzionale del prossimo 4 dicembre segnerà, quale che sia per esserne l’esito, una data di grandissima importanza nella storia politica dell’Italia contemporanea. È talmente evidente che affermarlo o, anche soltanto, come ora noi qui, ricordarlo diventa una banale ovvietà. Il che non toglie che affermarlo o ricordarlo non sia, a sua volta, quanto mai opportuno.
Come e perché si sia giunti al referendum è noto. È stato per iniziativa del Governo, che ha voluto così sottrarre all’imputazione di arbitrario eccesso di potere parlamentare le riforme istituzionali che esso Governo aveva portato all’esame e all’approvazione del Parlamento. Lasciando da parte ciò che al riguardo si può osservare in punto di diritto, è stata una decisione di grande saggezza politica; e tale essa resta anche se a determinarla possono essere state ragioni di tattica politica o elettorale.
Congiuntamente alle questioni istituzionali sottoposte al referendum fu varata – come è ben noto – una modificazione in senso maggioritario della legge elettorale. Il referendum verte sulle materie istituzionali in discussione, non sulla nuova legge elettorale. È accaduto, tuttavia, che nella campagna elettorale referendaria la materia elettorale abbia occupato un luogo di pari, se non preminente, rilievo. Ha preso, anzi, altrettanto e perfino maggiore, rilievo anche nelle discussioni per il si o per il no all’interno di forze politiche e di gruppi parlamentari che pure avevano appoggiato la riforma istituzionale nel suo iter parlamentare. Così è accaduto – come è ben noto – soprattutto all’interno del partito democratico, nel quale una parte per nulla trascurabile ha ripetutamente annunciato che si sarebbe battuta per il no al referendum elettorale se nel frattempo non fosse stata cambiata la nuova legge elettorale.
L’accoppiamento della materia elettorale e di quella referendaria nel dibattuto e nella lotta politica era, peraltro, addirittura fatale, così come lo era stato nell’operato del governo, autore e promotore sia della riforma istituzionale, sia delle nuove norme elettorali. Queste norme, nel loro più forte significato ed effetto, vanificano oltretutto le possibilità di costituire con grande facilità gruppi e gruppetti politici, dentro ed eventualmente fuori dei partiti, trasformando così la normale dialettica politica delle correnti all’interno dei partiti in un contrasto pluripartitico, e, nel caso di gruppi al di fuori dei partiti, dando modo, invece, a ogni più piccola aggregazione di volontà o di interessi, di giocare da forza politica condizionante e, al caso, determinante nei più varii e anche più rilevanti momenti della vita politica. E quando si parla di correnti e di gruppi, si parla pure, ovviamente, di loro capi e sottocapi, dei
leaders, anche minimi, il cui nome riempie spesso le cronache politiche dei regimi in cui una tale dinamica politica è possibile.
È comprensibile, quindi, che una tale legge elettorale abbia sollevato reazioni durissime in un’ampia sezione del mondo politico. Vi ha contribuito, per di più, il fatto che il premio di maggioranza previsto dalla legge è riservato al partito con più voti dal 40% in su. Gli esponenti dei partiti minori auspicano che il premio venga conferito non a un partito, ma alla eventuale coalizione di partiti cha raggiunga la soglia del
quorum previsto. In tal caso – è chiaro – i partiti minori manterrebbero sostanzialmente tutto il loro potere condizionante e interdittivo.
Ad accrescere le ostilità scatenatesi sul referendum si è aggiunta la sua personalizzazione, il suo pratico trasformarsi in un referendum pro o contro Renzi.
Ne è responsabile lo stesso presidente del consiglio dei ministri, che iniziò la discussione referendaria affermando che in caso di bocciatura delle riforme proposte dal governo egli avrebbe addirittura lasciato la politica, avrebbe “cambiato mestiere”. Poi, però, la personalizzazione – e con il preciso intento di infliggere a Renzi una sconfitta totale e risolutiva – è stata fatta nel più pesante dei modi possibili, dagli avversari di Renzi, ossia, in pratica, dall’intero arco dell’opposizione al governo, di qualsiasi settore politico: destra, centro o sinistra. Né si è fermata qui. Nella prospettiva di una tale sconfitta di Renzi, anche una parte notevole del suo stesso partito si è dichiarata contraria alla riforma istituzionale. Una parte ancor più notevole ha dichiarato di accettare la riforma solo a patto di una modifica sostanziale della nuova legge elettorale. E davvero non si capisce - se non in relazione a un triste scadimento delle lotte interne al partito - come siano potute passare a schierarsi per il no e a fare attiva propaganda in tal senso esponenti democratici di peso (ad esempio, Bersani) che per tre volte (tre volte!) in Parlamento hanno dato voto favorevole alla riforma. Non si capisce questo in nessun modo, ed è per questo che le postume giustificazioni di quel voto favorevole e la sua successiva sconfessione sono inaccettabili e inducono a non liete riflessioni sul costume politico vigente in Italia anche dove si ha la presunzione che le cose stiano meglio.
Nessuno, ciò nonostante, ha il diritto di supporre che questa opposizione esterna e interna a Renzi sia mossa tutta e soltanto da interessi di fazione. È, invece, da supporre che nell’opposizione a Renzi giochino anche i motivi di opportunità e di preoccupazione istituzionale e politica che sono addotti dagli oppositori più credibilmente pensosi del bene pubblico. Nessuno può, però, neppure impedire che si abbia l’impressione e ne nasca il giudizio che l’opposizione alla persona e alla linea politica di Renzi e alla sua azione sia il vero fondamento del no che si propugna per il 4 dicembre, perché questa impressione e questo giudizio appaiono più che confortati dal concreto svolgimento della campagna referendaria.
Renzi, corretto anche dal primo e maggiore dei suoi fautori, Giorgio Napolitano, ha poi mutato la sua primitiva impostazione e ha finito col dichiarare che l’esito del referendum non influirà né sulle sorti del governo né sul prosieguo della sua attività politica. Questo non ha, però, in nulla attenuato la personalizzazione del problema nel senso che si è detto. Semmai, l’ha addirittura accentuata, in quanto ha fatto temere che la sconfitta al referendum non porterebbe più a un abbandono del campo da parte del presidente del Consiglio dei ministri.
La nuda cronaca di queste vicende conferma, così, la centralità dell’azione di Renzi nella politica italiana da quando egli ha assunto la direzione del partito democratico prima e la guida del governo poi. Che questa centralità si sia poi concentrata in una proposta di riforma costituzionale non può essere considerato puramente casuale. Indica, infatti, che l’azione di Renzi mira ad andare oltre la pur necessaria quotidianità del governo dei problemi nazionali, ponendosi il problema pregiudiziale degli istituti di tale governo.
La retorica (alquanto ingenua) della Costituzione italiana come “la più bella del mondo” non ha impedito, come si sa, che ancor prima, ma soprattutto dagli anni ’80 in poi la necessità di una revisione dell’ordinamento costituzionale italiano si sia fatta sempre più evidente. Intorno a questa necessità giocò, a suo tempo, molte energie, in particolare, Bettino Craxi; e questo impegno concorse a incrementare l’imputazione e la satira politica che qualificavano il
leader socialista come un velleitario aspirante a rinnovare i nefasti del fascismo e di Mussolini.
Passati gli anni di Craxi, l’attualità politica del problema istituzionale sembrò declinare, ma in realtà continuò ad essere più o meno viva, e trovò una molto parziale espressione in varii mutamenti della legge elettorale; quasi che i nodi istituzionali da affrontare potessero essere sciolti con espedienti elettorali miranti a ottenere quella stabilità e quella forza della direzione politica del paese di cui si avvertiva la deleteria carenza nei riti e negli andamenti della politica italiana.
Con Renzi il problema della riforma istituzionale è stato impostato soprattutto in una triplice direzione: superamento del bicameralismo perfetto, rafforzamento della guida del governo, riequilibrio dei poteri fra Stato e Regioni.
Le soluzioni proposte su questi punti sono imperfette? Si potrebbe facilmente concedere, considerando che nessuno ha mai inventato un ordinamento perfetto, e che la riforma perfetta in materia istituzionale non è mai esistita da nessuna parte, né è lecito pensare che possa esistere. Si aggiunga che, come la perfezione, così neppure la stabilità istituzionale si è mai davvero vista. Alcuni paesi, come la Francia, hanno una tradizione per cui nel giro di poco più di duecento anni si sono avute non meno di una quindicina di costituzioni alquanto diverse fra loro. Gli Stati Uniti mantengono la loro costituzione dal 1787, ma l’hanno corredata di una ventina di “emendamenti”, che l’hanno alterata, su molti punti, sostanzialmente. In Italia lo Statuto albertino del 1848 è rimasto in vigore esattamente per cento anni, ma ha visto sperimentare al suo interno in successione la monarchia costituzionale, la monarchia parlamentare, un regime liberale sempre più intriso di democrazia, la dittatura fascista e il ritorno alla liberaldemocrazia nel 1943-1948. Gli inglesi si sono addirittura risparmiati il fastidio di avere una costituzione, e sono riusciti, per questa via, ad assicurare al loro paese una sorprendente plasmabilità istituzionale alle progressivamente mutate esigenze nazionali.
Qualsiasi ordinamento istituzionale è, dunque, imperfetto e mutevole. Un ordinamento che non lo fosse sarebbe solo una camicia da imbalsamazione di quelle persone vive e reattive che sono le istituzioni non nella loro architettura teorica, bensì nel loro concreto vivere, che significa anche evolvere, nella storia quotidiana, nel continuo e visibile fluire della vita dei popoli e dei paesi che le adottano. Né in ciò vi è alcuna sottovalutazione delle specificità e delle diversità istituzionali. Le istituzioni sono fondamenti impreteribili di ogni società politica, scritte o non scritte, semplici o complesse che siano. Le istituzioni congeniali al liberalismo e alla democrazia sono inconfondibili così come quelle di altri tipi di regime nel loro ambito. Inconfondibili, ma non prive affatto, anzi ricche di possibili varianti e diversificazioni. La discussione su un ordinamento non è mai materia di pura tecnica, mai semplice questione di diritto pubblico da rimettere ai competenti giuristi di tale diritto, la cui voce è indispensabile e utile ascoltare, ma non può pretendere di fornire ipotetiche soluzioni “scientifiche” di questioni, che sono di diritto, ma sono anche calate nel sempre ribollente fermento di tutto ciò che noi chiamiamo e consideriamo vita politica.
Nel caso della riforma proposta dal governo Renzi tutto ciò appare di un’estrema chiarezza, e si deve anche a questo se la discussione al riguardo è così vivace e partecipata. Il senso di questa riforma ha, infatti, una fortissima valenza sia istituzionale che politica: una valenza che appare accresciuta dalla connessione con la legge elettorale e, ancor più dalla connessione con la “questione Renzi”.
La riforma proposta minaccia una “svolta autoritaria”, consegnando “tutto il potere a un uomo solo”? È soprattutto quando si sbandierano questi argomenti che la connessione tra il referendum istituzionale e la legge elettorale appare nella massima evidenza. Il dubbio su tale punto è, tuttavia, il meno accettabile fra quelli avanzati in materia. La riforma proposta non tocca in nulla la sovranità del Parlamento o le competenze degli organi giurisdizionali di presidio giuridico e costituzionale. Meno che mai attenta alle libertà politiche degli italiani e al loro diritto di esercitarle.
Ancor più grave è che, se questo (diciamo così) eccesso polemico è evidente, non meno evidente è che chi cade in questo eccesso dimostra, nel più manifesto dei modi possibili, di non avere alcuna stima e fiducia nel senso che gli italiani hanno del valore del liberalismo e della democrazia, nel radicamento di queste idee e della loro prassi nella società italiana. Siamo, peraltro, del tutto disposti a riconoscere senza riserve che preoccuparsi delle sorti della libertà e della democrazia sempre, anche quando le acque appaiono più tranquille, sia un bene e un merito. La reazione, diceva Francesco De Sanctis, non è una bene educata signora che si presenti alla nostra porta bussando con discrezione il campanello. Ma ritenere che con Renzi, con la sua riforma, col suo tipo di politica, col suo modo di fare politica si vada verso un regime autoritario e monocratico ci appare, nelle concrete condizioni politiche, culturali e morali dell’Italia contemporanea, come un’idea alquanto balzana. Se poi si riflette sul fatto, anch’esso indubbio, che alla riforma istituzionale del governo non si è opposto nulla di altrettanto definito, e che idee chiare e distinte appaiono solo quando si parla della legge elettorale, si finisce col comprendere anche meglio alcuni aspetti essenziali del contrasto in atto.
A noi vuol sembrare che la serie di queste considerazioni renda senz’altro chiaro quanto sia poco accettabile quella autentica demonizzazione del “si” che si pratica dall’inizio della campagna referendaria. Una demonizzazione tanto meno accettabile in quanto rinnova stili e procedure della lotta politica in Italia che perpetuano quelli delle ripetute, analoghe e infelicissime esperienze precedenti, dalla pretesa “legge truffa” dei primi anni ’50 in poi. Da questo perpetuarsi non può venire al paese – è chiaro – alcun beneficio. Può venire solo, ancora una volta, il negativo di una tale prassi, che in passato si è rivelato in più occasioni gravemente nocivo anche in momenti di particolare importanza per la vita del paese.
A noi sembra pure che l’approvazione della riforma istituzionale che sarà votata il 4 dicembre prossimo rappresenterebbe un sicuro passo in avanti del paese, conferendo maggiore sicurezza, dinamismo e funzionalità agli istituti della liberaldemocrazia italiana. Certo, se la riforma sarà respinta, si andrà avanti lo stesso e se ne potrà tentare un’altra. Se il governo cade, se ne farà un altro, e, nel caso peggiore, si andrà a nuove elezioni. Nessuno può neppure negare, però, che, se prevarrà il “no”, non solo si sarà perduto una importante occasione di rinnovamento della vita pubblica italiana, non solo dovrà passare molto tempo, molto acqua sotto i ponti di Roma prima che si abbia di nuovo una occasione così importante, ma certamente lo stato attuale, così frammentato e confuso, della politica nazionale diverrà ancora più tale, con sviluppi e incertezze di una estremamente imprevedibile pericolosità per il futuro vicino e meno vicino della vita nazionale.
Non è il timore del “salto nel buio”, e tanto meno è un piccolo espediente di polemica politico-elettorale. È una meditata e ragionevole riflessione sulle questioni in gioco col referendum di dicembre, condotta sulla scorta dell’esperienza ormai settantennale che si è fatta in Italia del regime liberaldemocratico all’italiana.
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