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Obama e la Federazione Russa. Dal «Russia reset» alla crisi ucraina*
di Eugenio Di Rienzo
Dopo il colpo di Stato di Kiev del 23-24 febbraio 2014, favorito dall’ingerenza negli affari interni ucraini di Washington, di Varsavia e dei Big Three dell’Unione europea (Berlino, Parigi, Londra)1, la frontiera russo-europea è tornata a essere una «linea di faglia» che evidenzia schieramenti rivali sul punto di entrare in rotta di collisione. Albania, Croazia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia, Stati Baltici sono nella Nato, dove entreranno probabilmente, anche Moldavia, Bosnia, Macedonia, Georgia, Finlandia, Svezia per completare l’assedio della Russia2. Anche la Bielorussia è a rischio, e quando un’altra sollevazione di piazza spontanea, oppure manovrata come quella di Kiev, o in alternativa una «rivoluzione di palazzo» obbligherà Minsk a ripudiare la sua lealtà verso il Cremlino, un potenziale schieramento avverso a Mosca sarà penetrato tanto profondamente verso il cuore del territorio russo di quasi quanto fecero le armate del Terzo Reich durante la «Grande Guerra Patriottica»3.


Il tradimento dell’«accordo di Malta»

Pur tra ingenti problemi, dovuti in massima parte all’ancora insufficiente modernizzazione tecnologica dell’esercito russo (ora in netto miglioramento), all’inquietante calo demografico, alla debolezza di un’economia troppo dipendente dalla vendita di energia, ai perduranti affanni del settore agro-alimentare, Vladimir Putin ha risposto alla sfida dell’Occidente riportando, in questa congiuntura come nel passato, un notevole successo nel frustrare i tentativi di penetrare nel near abroad post-sovietico.
Ieri, il premier russo, dopo aver incassato, a denti stretti, la bruciante umiliazione della sconfitta di Belgrado che portò all’indipendenza del Kosovo, pose definitivamente fine al conflitto ceceno (che dimostrò per la prima volta, dopo il crollo dell’Urss, la volontà della Federazione Russa di non rinunciare al dominio del suo hinterland strategico)4, disgregò la Georgia, ricondusse il governo di Erevan nell’orbita di Mosca, rafforzò il ruolo dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (sottoscritto da Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan), rinsaldò i vincoli di amicizia con Cina, Iran, India, Afghanistan, Egitto, Siria, Israele, Grecia, Serbia5.
Oggi l’ospite del Cremlino ha mantenuto la presa sulla Crimea, garantito la libertà di manovra della flotta russa nel mar Nero e il suo accesso al Mediterraneo, inflitto all’Occidente una mortificante sconfitta con l’intervento in Ucraina, la cui sottrazione alla sfera d’influenza di Mosca Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, aveva indicato già nel 1994 come obiettivo primario per impedire alla Russia di ricostituire la pausata dimensione imperiale6.
Per dare un giudizio oggettivo sulla legittimità della risposta politico-militare di Putin al terremoto di Kiev e alle sue conseguenze bisogna comunque ricordare che la maggiore responsabilità per la creazione dell’imbroglio ucraino appartiene agli Stati Uniti e in subordine agli altri azionisti di minoranza della Nato7. Ed è una responsabilità di lunga durata.
Nel marzo 2004 l’Unione europea festeggiò l’allargamento della sua sfera a ben dieci nazioni, di cui quattro (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria) ex membri del Patto di Varsavia e tre (Estonia, Lituania, Lettonia) parte integrante dell’Urss. Questa espansione non avrebbe avuto nulla d’irrituale se, tra 1999 e 2004, questi stessi Stati, con l’aggiunta di Bulgaria e Romania, non fossero divenuti membri della Nato, un’alleanza che, in ossequio alla sua stessa primitiva ragione sociale, avrebbe dovuto essere sciolta dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica8. Evidentemente Bill Clinton e George W. Bush avevano deciso di non onorare la promessa fatta da George Bush senior a Michail Gorbaciov, quando lo persuase a consentire che la Germania unificata entrasse a far parte della Nato assicurandogli, come contropartita, che la coalizione atlantica non avrebbe esteso la sua presenza oltre la vecchia «cortina di ferro».
Quando cadde il Muro di Berlino e l’Europa orientale cominciò a emanciparsi dal regime comunista, il primo Bush incontrò Gorbaciov nel summit di Malta (2-3 dicembre 1989). I due statisti si accordarono per rilasciare un comunicato congiunto della massima importanza dove, sulla base degli accordi raggiunti durante i colloqui, si concordava sul fatto che l’Unione Sovietica dovesse rinunciare a ogni intervento per sostenere gli agonizzanti sistemi comunisti dell’Est, mentre gli Stati Uniti s’impegnavano a non ricavare alcun vantaggio strategico dagli sviluppi politici conseguenti alla decisione del Cremlino.
Si trattò di un gentlemen’s agreement che allora non fu formalizzato per iscritto, ma i cui contenuti si possono evincere dal verbale sovietico del colloquio tra i due premier, nel punto in cui Bush senior, rassicurando il suo interlocutore sul fatto che i profondi cambiamenti politici in corso non avrebbero danneggiato la posizione internazionale della Russia, dichiarava:

I hope you noticed that while the changes in Eastern Europe have been going on, the United States has not engaged in condescending statements aimed at damaging the Soviet Union. At the same time, there are people in the United States who accuse me of being too cautious. It is true, I am a cautious man, but I am not a coward; and my administration will seek to avoid doing anything that would damage your position in the world. But I was persistently advised to do something of that sort, to climb the Berlin Wall and to make broad declarations. My administration, however, is avoiding these steps; we are in favor of reserved behavior9.

L’esistenza del cosiddetto «accordo di Malta» fu poi confermata dalle dichiarazioni del primo ministro inglese, del cancelliere tedesco, del presidente francese e dalla testimonianza dell’allora ambasciatore statunitense a Mosca, Jack Foust Matlock. Più di recente, dopo un lungo periodo di enigmatico silenzio, lo stesso Gorbaciov è tornato su questo punto. Rimproverandosi tardivamente per la passata ingenuità, l’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica ha espresso il rammarico che quell’impegno sia rimasto un semplice accordo verbale senza trasformarsi in un’esplicita convenzione diplomatica dove si sarebbero potute recepire anche le assicurazioni fornitegli allora dal segretario di Stato, James Baker, subito dopo la caduta del Berliner Mauer, secondo le quali «la giurisdizione della Nato non si sarebbe allargata di un pollice verso Oriente».
Come tutte le intese sulla parola, l’accordo stipulato nella piccola isola del Mediterraneo può essere sottoposto a molteplici interpretazioni ma non azzerato nella sua sostanza. Il significato storico del compromesso tra Urss e Occidente era tutto nelle parole pronunciate da Baker: da una parte, la Russia rinunciava alla sua egemonia sull’Europa orientale e, dall’altra, gli Stati Uniti non avrebbero in alcun modo approfittato di tale concessione per allargare la loro influenza su quella regione10.
Lo spirito di Malta fu poi ancora più profondamente tradito dalle pressioni americane per l’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato, esercitate durante il vertice atlantico di Bucarest dell’aprile 2008, alle quali sarebbe seguita la guerra russo-georgiana. Alcuni governi europei si sforzarono di attenuare il clima di crescente tensione. Nella capitale romena, Berlino arrivò a ritardare la discussione sull’ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza Atlantica e più tardi, a Tbilisi, Parigi, dopo l’inizio del conflitto georgiano, riuscì a negoziare un armistizio che permise a Mosca di conservare il controllo dell’Ossezia meridionale e dell’Abkhazia.
Nulla e nessuno poterono però impedire prima la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo da Belgrado (febbraio 2008), apertamente favorita da Stati Uniti e cancellerie occidentali, che costituì un vulnus non rimarginabile per la Russia colpita nel suo antico, storico ruolo di protettrice dell’integrità della nazione serba, poi l’adesione al Patto Atlantico di Albania e Croazia, che avvenne nel 2009 sotto la presidenza di Obama, infine la ripresa dei negoziati finalizzati a integrare Georgia e Moldavia nella Nato.




Dalle sanzioni al confronto bellico

L’ascesa di Obama parve creare un clima meno conflittuale con la Federazione Russa. Il 6 marzo il segretario di Stato, Hillary Clinton, comunicò al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov che l’amministrazione Usa intendeva sviluppare un processo di distensione con Mosca. Il programma del «Russia reset» fu bene accolto dal Cremlino. Nel luglio 2009, il Presidente della Federazione Russa, Dmitry Medvedev, dichiarò che, da quel momento, l’aviazione statunitense avrebbe potuto sorvolare lo spazio aereo russo per approvvigionare le basi americane in Afghanistan.
A quell’annuncio che diede inizio a una fase di collaborazione tra le due potenze nel Paese-chiave dell’Asia centrale, destinata a perdurare anche dopo l’inizio della crisi ucraina, fece seguito la decisione di Obama di rinunciare all’installazione dello scudo missilistico in Europa orientale (17 settembre 2009) e, nel marzo 2010, quella russo-statunitense di ridurre il loro arsenale nucleare. Nel maggio successivo, infine, Washington e Mosca, insieme a Pechino, concordarono sulla necessità di imporre sanzioni al regime di Teheran e tre giorni dopo Obama rinunciò al progetto di colpire la Russia, accusata di esportare armi in Iran, con un embargo militare. Iniziò allora una fase di cooperazione diplomatica tra Casa Bianca e Cremlino, che, anche nella sua fase crepuscolare, è stata utile per impedire l’intervento franco-britannico contro la Siria, nel settembre 2013 e per risolvere, il 26 gennaio 2016, il decennale problema delle ritorsioni economiche contro l’Iran.
Il «Russia reset» entrò comunque in crisi precocemente, già alla fine del 2011, quando la sfiducia con cui parte delle élites russe avevano accolto, da subito, il processo di appeasement si rafforzò di fronte alla volontà americana di estendere e rafforzare il fronte est dell’Alleanza Atlantica11. Fedele al programma del suo predecessore, ribadito con l’introduzione del Nato Enhancement Act (8 marzo 2012), Obama continuò a favorire il riarmo di Polonia, Repubblica Ceca, Romania e iniziò a premere su Bruxelles per ottenere l’inclusione dell’Ucraina nell’Unione europea, alla quale avrebbe dovuto far seguito, con prevedibile automatismo, l’ingresso di Kiev nella Nato12.
Fallito questo obiettivo, per l’appoggio del Cremlino alla rivolta nel Donbass, iniziava la guerra delle sanzioni contro Mosca. Non avendo ottenuto quelle ritorsioni tutto l’effetto sperato, si aprì la fase del confronto bellico tra Occidente e Russia. Durante il vertice Nato di Newport del 4 settembre 2014, il segretario generale Anders Fogh Rasmussen annunciò la costituzione di una forza d’intervento immediato (Spearhead) provvista di quattro basi-deposito in Estonia, Lituania, Polonia e Romania13, e il completamento del programma Ballistic Missile Defence destinato a neutralizzare la deterrenza russa in caso di conflitto atomico14. La decisione di innalzare l’escalation militare non costituiva una misura d’eccezione dettata dall’incrudelirsi della guerra civile ucraina, ma si configurava piuttosto come una mossa pianificata, fin dal maggio 2014, da un rapporto depositato da ventidue senatori repubblicani, capeggiati dall’ex candidato alla Casa Bianca, John McCain.
Con il Russian Aggression Prevention Act of 2014 si sosteneva la necessità di un potenziamento del fianco orientale della Nato (poi reso esecutivo nel vertice di Newport), e di misure preventive contro «nuove aggressioni russe» a tutela del regime di Kiev e di altri Stati europei ed eurasiatici. Tali misure riguardavano pressioni di Washington su Bruxelles per accelerare l’ingresso di Ucraina, Georgia e Moldavia nell’Unione europea, al fine di «consolidare la democrazia nell’Est Europa», l’impegno degli Stati Uniti a impedire la partecipazione della Russia al G8 e alla Banca mondiale «se Mosca non avesse rispettato l’integrità territoriale dei suoi vicini e se non si fosse uniformata agli standard politici delle società democratiche», finanziamenti a Organizzazioni non governative disposte ad agire per «migliorare la governance democratica nella Federazione Russa».
La difesa dell’Ucraina e di altri Paesi contro l’«aggressione russa» doveva comportare, poi, la concessione di un prestito di 100 milioni di dollari per il riarmo dell’esercito di Kiev e in alternativa la fornitura di dispositivi antiaerei, anticarro, sistemi d’arma a tecnologia avanzata; l’invio di materiale bellico su «semplice richiesta» agli altri «governi minacciati da Mosca»; il riconoscimento di Ucraina, Georgia e Moldavia come «Maggiori Alleati Non-Nato», in modo da equiparali, di fatto, ai membri dell’Alleanza; accordi bilaterali di mutua cooperazione strategica con Bosnia, Kosovo, Montenegro, Azerbaigian, Serbia15.
Il confronto militare con la Russia ha portato a un notevole rafforzamento del fronte Nato sul Mar Nero, al formale invito rivolto al Montenegro di aderire alla coalizione (dicembre 2015), alla partecipazione, in spregio a tutti i trattati, della Polonia alle manovre nucleari dell’Alleanza, durante l’esercitazione Steadfast Noon 2014, all’invio di mezzi, materiali, addestratori statunitensi in Ucraina, all’accelerazione delle trattative per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella North Atlantic Treaty Organization16.
Se i negoziati in questa direzione arriveranno a buon porto, come tutto lascia supporre, gli Usa saranno in grado di arruolare nell’intesa avversa a Mosca due nemici storici della Russia che dal golfo di Finlandia potrebbero agevolmente minacciare San Pietroburgo con un attacco areo-navale, con la stessa facilità con la quale un’aggressione terrestre potrebbe penetrare nel territorio della Federazione Russa, oltrepassando il lunghissimo confine ucraino, pianeggiante, privo di ostacoli naturali e sito a soli 480 chilometri da Mosca.




«La guerra fredda dopo la guerra fredda»

Siamo così di fronte all’inquietante scenario, che è stato recentemente definito «l’inizio della guerra fredda dopo la guerra fredda». Un inizio che era ampiamente testimoniato dal rapporto del National Defense Panel, redatto, il 31 luglio 2014, da un gruppo di ex alti funzionari civili e militari di fede democratica e repubblicana. Questo documento individuava come principali minacce alla sicurezza degli Stati Uniti non più la Corea del Nord, l’Iran e l’Iraq (le tre nazioni che per GeorgeW. Bush costituivano il cosiddetto «Axis of Evil»), ma la Cina e la Russia17.
Oggi una possibile soluzione della crisi ucraina resta confinata all’interno del «triangolo strategico», composto da Usa, Germania e Francia, che ormai poggia prevalentemente sull’asse tedesco-statunitense. Dopo che le correnti del Dipartimento di Stato, più favorevoli al riarmo di Kiev e al suo inserimento nella Nato, hanno subìto una provvisoria battuta d’arresto, Obama ha deciso di delegare la gestione della crisi alla Merkel che, sotto il mantello di un’aggressiva retorica atlantista, è sembrata muoversi, pur tra mille tentennamenti, per riallacciare le fila del dialogo con Putin, seppure nell’ambito di una dimensione transatlantica e non più eurocentrica18.
L’opposizione dell’amministrazione Obama a una ripresa delle relazioni tra Bruxelles e Mosca è restata comunque immutata anche dopo gli accordi di Minsk (settembre 2014-febbraio 2015). Così come si è mantenuta inalterata la volontà di Washington di sabotare la «Rapallo energetica» che lega Russia e Unione europea. C’è una grave preoccupazione, infatti, che aleggia nelle stanze della Casa Bianca, del Pentagono, del Dipartimento di Stato e in quelle che ospitano i comitati d’affari della finanza e dell’industria statunitense: la nascita di un asse Berlino-Mosca che farebbe dell’Eurasia, e cioè del blocco continentale costituito da Unione europea e Federazione Russa, la più grande potenza globale esistente19.
Occorre, inoltre, aggiungere che il prevalere della strategia statunitense ha portato, tra 2014 e 2015, a una grave, seppur silente, spaccatura tra i soci della Nato, e di conseguenza tra i partner europei, dovuta alla sua bulimia burocratica, all’assenza di un rapporto paritetico tra gli Stati membri e al protagonismo di Polonia, Romania, Repubbliche baltiche, che si è profilata anche durante il vertice di Varsavia (8-9 luglio 2016)20. In questo momento l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord è scissa in due tronconi contrapposti. La coalizione, nata il 4 aprile 1949, è divisa tra Stati favorevoli a riprendere e, se possibile, incrementare il dialogo con Mosca e ad avviare con essa una cooperazione idonea a contrastare la minaccia dell’islamismo militante (Italia, Francia, Germania, Ungheria, Grecia) e altri (Regno Unito, Turchia, Paesi del vecchio blocco socialista, nazioni scandinave e dell’Europa settentrionale) che considerano la Federazione Russa un potenziale nemico da contenere e possibilmente da spodestare dal suo status di Big Power21.
La funzione politica dell’Alleanza Atlantica – tradizionale camera di compensazione fra le esigenze statunitensi e quelle dei suoi alleati – è stata snaturata in favore della sua dimensione più strettamente militare rilanciata con forza dalla Casa Bianca, in coincidenza della crisi ucraina, con la riscoperta della deterrenza nei confronti di Mosca come mission e vision dell’organizzazione 22. Gli ultimissimi eventi non mi pare abbiano cambiato la situazione. Il fallimento del Consiglio Nato-Russia, il fiacco discorso di Obama a Hannover (20 e 23 aprile), la repentina accelerazione di un rapporto di cooperazione tra Kiev e Bruxelles hanno dimostrato ancora una volta la volontà della Casa Bianca di mobilitare gli alleati europei nella «mini-Cold War» contro Mosca, a scapito dell’impegno in Medio Oriente e Africa settentrionale23. Il recente vertice Nato di Varsavia non ha mutato questa linea di tendenza, perché lo sganciamento di Washington dallo storico «Patto d’acciaio» con Riyad e il parallelo tentativo di operare un completo riallineamento con Teheran pare debba essere interpretato soprattutto come un tentativo di completare l’accerchiamento strategico della Russia24.




La «luna di miele» tra Pechino e Mosca

Quello che per ora è certo, è che la sfida lanciata da Obama ha spinto la Federazione Russa a stringere un’innaturale alleanza con la Cina, destinata a durare finché la ripresa del drive toward the East di Mosca verso l’Asia centrale non entrerà in rotta di collisione con il drive toward the West di Pechino in aree tradizionalmente connesse alla sua «periferia imperiale»25. La linea dura mantenuta dal Cremlino sulla questione ucraina può costituire, infatti, il precedente di un’analoga azione della Cina per riunire o conservare sotto la sua sovranità, soffocando con la forza movimenti centrifughi e separatisti, regioni che storicamente sono parte integrante dei suoi domini o della sua antica sfera d’influenza: Taiwan, Tibet, Mongolia, Xinjiang, Hong Kong, Macao, Nepal, Bhutan26.
L’attuale «luna di miele» tra Pechino e Mosca, che proprio la politica di Obama, impegnata a stringere un patto di mutua assistenza con tutti i Paesi potenzialmente ostili alla Cina (Australia, Corea del Sud, Tailandia, Giappone, Filippine, Indonesia e ora persino il Vietnam), ha contribuito a favorire, trova comunque la sua ragion d’essere su motivi di ordine politico ancora più fondamentali. Il progetto dell’«Asia armoniosa» promosso dalla leadership cinese e quello dell’«Ordine eurasiatico» auspicato da Putin sono radicalmente alternativi al programma di egemonia globale perseguito da Washington. Mosca e Pechino concordano sull’esigenza di costruire un sistema di sicurezza e cooperazione multipolare, fondato sull’espansione di accordi regionali con i Paesi vicini. Questo sistema, al cui interno la Russia sarà costretta a lasciare a Pechino il ruolo di socio di maggioranza, si presenta come alternativo, grazie alla costruzione di un «mercato unificato eurasiatico», al disegno politico-economico di «indirect rule» unipolare perseguito da Washington27.
L’aver provocato il riavvicinamento tra Mosca e Pechino non è stato, però, il solo vulnus inferto dall’amministrazione Obama alla sicurezza del mondo occidentale e al ruolo guida degli Stati Uniti. All’assenteismo politico e militare di Washington nella grande crisi mediorientale ha fatto riscontro, infatti, l’attivismo di Mosca. In Siria, Putin e Lavrov, come già in Ucraina, hanno saputo incrociare, con spregiudicatezza e grande efficacia, intervento militare e iniziativa diplomatica, registrando una vittoria sul campo e un successo strategico di grande importanza che ha portato alla formazione di un’«alleanza sciita» a trazione russa (Iran e Iraq), tollerata se non addirittura incoraggiata da Israele. Alleanza che, dopo gli attentati di Parigi, ha rischiato di inglobare anche la Francia, essendo Putin e Hollande, nel novembre 2015, gli unici attori internazionali decisi, per interessi dissimili ma coincidenti, a realizzare la debellatio completa dello Stato Islamico28.



Stati Uniti e Cina riusciranno a evitare la «trappola di Tucidide»?

A pochi mesi dalla fine del suo mandato Obama si trova di fronte alla scelta più difficile della sua presidenza: deciderà di scendere a compromessi con Putin, rinnovando l’intesa contro la minaccia jihadista stretta con la Federazione Russa dopo l’attentato del World Trade Center, pur d’infliggere un colpo mortale all’Ansar al-Dawla al-Islamiyya, oppure abbandonerà la Casa Bianca senza aver affrontato quella che egli stesso ha definito «la più terribile minaccia che pesa sull’Occidente».
Nonostante alcuni segnali di dialogo, i risultati meramente interlocutori del vertice moscovita tra il segretario di Stato John Kerry, Lavrov e Putin, svoltosi il 23-24 marzo 2016, non hanno portato ad alcun progresso. I perduranti tentennamenti di Obama a premere con decisione sugli oppositori di Bashar Hafiz al-Assad, sulla Turchia, sulle altre potenze sunnite, per agevolare il proseguimento dell’offensiva russo-siriana in direzione di Aleppo e al-Raqqa, rischiano di minare la possibilità di dare una risposta globale alla minaccia del Daesh e di debellarlo in Libia. La mancata intesa tra Mosca e Washington impedirà di ostacolare la penetrazione dello Stato Islamico, dalle aree calde dell’Africa settentrionale e occidentale all’Europa meridionale, e non consentirà agli Stati Uniti di recuperare la loro credibilità nei confronti di una Russia rivelatasi maestra nel ristabilire la sua influenza in Medio Oriente.
Questo problema è stato finalmente percepito anche dall’amministrazione americana e dal suo più scomodo ma anche più potente alleato nella regione: la Turchia di Recep Tayyip Erdo an. Il 13 luglio 2016, Kerry ha raggiunto Mosca per sottoporre a Putin il programma di una «close military coordination» contro il Califfato che potrebbe trasformare, con un colpo di bacchetta magica, la Russia da «Public Enemy Number One» in Europa orientale, a principale alleato nel Levante. Solo poche settimane prima Ankara, responsabile del proditorio abbattimento del Sukhoi Su-24, avvenuto nel novembre 2015 sul cielo siriano, aveva iniziato un processo di appeasement con Israele, Siria, Russia mirato a porre i presupposti dell’attacco finale contro le roccaforti dell’esercito islamista.
Probabilmente questo processo subirà un brusco arresto, dopo il fallito colpo di Stato della notte del 15-16 luglio 2016, con il quale un gruppo di militari si erano proposti di defenestrare il premier turco Erdo an. Difficile comunque è cogliere la fisionomia politica di questo evento almeno finché non si saranno individuati i sostegni esterni (Washington, Berlino, la Nato, con il tacito consenso di Mosca?), di cui ha goduto l’alzamiento, rapidamente stroncato dalla reazione delle truppe lealiste, dalla mobilitazione popolare e forse da una precipitosa marcia indietro dei grandi attori internazionali. Un alziamento, in ogni caso, che Obama ha condannato solo dopo varie ore dal suo inizio e che se, coronato da successo, avrebbe avuto un effetto destabilizzante globale molto superiore a quello provocato dal coup de force di Kiev.
«Grande», dunque, «è la confusione sotto il cielo», pur non essendo, davvero, «la situazione eccellente». Una confusione creata, in massima parte, dal colpevole dilettantismo della politica estera americana di questi ultimi sette anni, le cui linee-guida sono state dettate dal primo Presidente afro-americano avventatamente insignito 2009 del Premio Nobel per la pace con la motivazione di «aver contribuito con i suoi sforzi straordinari a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Eppure, in questo lungo periodo, Obama non è stato né il «re fannullone» né il «presidente pacifista» né l’amletico «realista riluttante» della politica internazionale come hanno sostenuto molti commentatori, superficiali o interessati29. Né tantomeno, però, l’inquilino della Casa Bianca è stato il decisore di buona volontà tradito dalla malafede dei suoi alleati europei: immagine che la narrazione auto-apologetica del suo mandato vorrebbe accreditare30.
Le debolezze e l’apparente irragionevolezza della sua strategia internazionale riflettono, invece, perfettamente, le linee portanti della politica estera americana e le ambizioni di edificare un ordine mondiale unipolare. La politica di scontro/confronto con la Russia per il controllo dell’Eurasia, che ricalca ad litteram il canovaccio illustrato da Brzezinski nel 199731, fa parte di questo copione. Esattamente come l’abbandono del Medio Oriente, dell’Africa settentrionale e di conseguenza dell’Europa mediterranea e balcanica al loro destino, favorito dal programma che prevede di trasformare gli Stati Uniti da acquirente a esportatore di energia grazie allo sfruttamento intensivo dei giacimenti di shale oil e di shale gas32, rientrano nel progetto del «World Order» statunitense. Un progetto che vede nella crescita economica, militare, demografica, finanziaria della Cina il suo principale avversario a medio termine33 .
Per vincere questa partita, Washington è determinata a sbarazzarsi di un ipotetico «nemico alle spalle», come la Russia, fingendo di ignorare che l’offensiva tattica di Putin in Ucraina nascondeva in realtà una difesa strategica, perché Mosca, dopo il dicembre 1991, indebolita sul piano economico e demografico e di conseguenza neppure lontanamente paragonabile all’Unione Sovietica per quello che riguarda la potenza del suo apparato militare-industriale, è indubbiamente sulla difensiva nella politica mondiale34. Sempre per guadagnare la posta di questo nuovo «grande gioco», Obama si è dimostrato pronto a depotenziare il fronte sud della Nato e a condannare l’arco di crisi che va dal Levante alla Libia agli orrori di un conflitto interreligioso interminabile e i suoi alleati agli effetti destabilizzanti che il terrorismo e le incontrollate e incontrollabili ondate migratorie di massa stanno provocando35.
Tutto ciò costituisce per il presidente americano un prezzo accettabile, se questo costo consentirà alla superpotenza atlantica di concentrare in Estremo Oriente il grosso delle sue forze in attesa dell’Armageddon che dovrà a opporla a Pechino36. Uno scontro che, se si verificherà, dovrà essere rubricato anche come la conseguenza della strategia dell’«american pivot to Asia» inaugurata proprio da Obama tra 2010 e 201137.
In controtendenza con la profezia secondo cui la Cina avrebbe dovuto preservare e potenziare un amichevole rapporto di collaborazione con gli Usa38, Graham Allison ha osservato che il futuro delle relazioni sino-statunitensi deve essere analizzato seguendo il modello euristico proposto da Tucidide, che individuò la causa primaria della guerra del Peloponneso nel timore di Sparta per l’espansione inarrestabile di Atene39. Anche oggi l’eventualità di un conflitto globale può trovare la sua genesi nel mutamento dell’equilibrio di forza tra due potenze rivali, una egemone, autoproclamatasi custode dello status
quo
, l’altra emergente e revisionista del vigente ordine mondiale. In questa prospettiva, un conflitto tra Washington e Pechino, come momento di massima crisi della nuova «geopolitica degli imperi»40, appare probabile, salvo che l’Aquila americana e il Drago cinese non riescano a impegnare tutte le loro energie intellettuali per arrestare la folle corsa verso la «trappola di Tucidide».
















NOTE
* Pubblico qui, con qualche aggiunta dettata dal rapido evolversi degli eventi, il saggio che doveva apparire nel volume Gli Stati Uniti e l’eredità della presidenza Obama, Mondadori Editore. Quando il volume era già in bozze, l’ente committente, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, mi ha irritualmente comunicato la sua decisione di non volerlo più pubblicare perché connotato da sentimenti smaccatamente filorussi ed eccessivamente antiamericani. Ringrazio Giuseppe Galasso, che pure non condivide tutti i contenuti di questo articolo, di aver accettato di ospitarlo sulla sua rivista in nome della libertà di discussione intellettuale.^
1 George Friedman - Marc Lanthemann, A More Assertive German Foreign Policy, in «Stratfor Global Intelligence», 4 febbraio 2014; George Friedman, New Dimensions of U.S. Foreign Policy Toward Russia, in «Stratfor Global Intelligence», 11 febbraio 2014; Michael McFaul - Stephen Sestanovich - John J. Mearsheimer, Faulty Powers. Who Started the Ukraine Crisis?, in «Foreign Affairs», novembre-dicembre 2014.^
2 Michael E. Brown, Nato’s Biggest Mistake. The Alliance Drifted from Its Core Mission and the World is Paying the Price, in «Foreign Affairs», 8 maggio 2014.^
3 George Friedman, Ukraine and the «Little Cold War», in «Stratfor Global Intelligence», 4 marzo 2014. Per un’analisi della crisi ucraina nel quadro geopolitico globale si veda Eugenio Di Rienzo, Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2015.^
4 Babak Rezvani, Reflections on the Chechen Conflict: Geopolitics, Timing and Transformations, in «Middle Eastern Studies», vol. 50, n. 6, 2014, pp. 870-890.^
5 Sul restart della Russia di Putin nello scenario internazionale cfr. Marlène Laruelle, Russian Nationalism and the National Reassertion of Russia, Routledge, London 2009; Svante E. Cornell - S. Frederick Starr (a cura di), The Guns of August 2008. Russia’s War in Georgia, M.E. Sharpe, New York-London 2009; Roger E. Kanet (a cura di), A Resurgent Russia and the West. The European Union, Nato and Beyond, Dordrecht Republic of Letters, Dordrecht 2009; Andrei P. Tsygankov, Russia and the West from Alexander to Putin. Honor in International Relations, Cambridge University Press, New York 2012, pp. 237 segg.^
6 Zbigniew Brzezinski, The Premature Partnership, in «Foreign Affairs», marzo-aprile 1994, p. 80.^
7 Jack F. Matlock, Ukraine. The Price of Internal Division, 1° marzo 2014; Henry Kissinger, How the Ukraine Crisis Ends, in «The Washington Post», 6 marzo 2014; John J. Mearsheimer, Why the Ukraine Crisis Is the West’s Fault, in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2014.^
8 Michael MccGwire, Nato Expansion: «A Policy Error of Historic Importance», in «International Affairs», vol. 84, n. 6, 2008, pp. 1281-1301.^
9 Il Soviet Transcript of the Malta Summit, composto di 35 ff., è conservato nell’Archivio della Fondazione Gorbaciov, Fond 1. Opis. Si veda f. 10. per la citazione. Estratti di questo documento sono stati già pubblicati dallo stesso Michail Gorbaciov, Gody Trudnykh Reshenii, 1985-1992, Alfa-Print, Moskwa 1993, pp. 173-185. La traduzione dal russo in inglese del verbale è stata curata da Vladislav Zubok e Svetlana Savranskaya, per conto del National Security Archive, think-tank che è emanazione della George Washington University. Durante il summit di Malta, George Bush e Gorbaciov convennero sulla necessità di arrivare a un accordo sulle forze convenzionali in Europa (il cosiddetto CFE), ritenendolo l’elemento fondante per arrivare alla «indispensable foundation for new European relationship and for a future security architecture in the continent». Sul punto, si veda il Joint Statement on CFE del 26 maggio 1990, sottoscritto dai due premier, depositato nella Bush Presidential Library, alla segnatura 33.03. Ringrazio il professor Matteo Luigi Napolitano per avermi messo a disposizione questa documentazione.^
10 George Friedman, Georgia and the Balance of Power, in «The New York Review of Books», 25 settembre 2008; Mark Kramer, The Myth of a No-Nato-Enlargement Pledge to Russia, in «The Washington Quarterly», n. 32, 2009, pp. 39-61; Mary Elise Sarotte, A Broken Promise? What the West Really Told Moscow About Nato Expansion, in «Foreign Affairs», settembre-ottobre 2014; Joshua R. Itzkowitz Shifrinson, Put It in Writing. How the West Broke Its Promise to Moscow, in «Foreign Affairs», 29 ottobre 2014.^
11 Si veda rispetivamente Lilia Shevtsova, Lonely Power. Why Russia has failed to become the West and the West is weary of Russia, Carnegie Endowment for International Peace, Washington, 2010, pp. 271 e 282 sgg.; Robert H. Donaldson- Joseph L. Nogee, The Foreign Policy of Russia. Changing Systems, Enduring Interests, M.E. Sharpe, New York, 20145, pp. 398 sgg.^
12 Morgan Lorraine Roach - Luke Coffey, Nato Enlargement Should Top Obama Agenda in Chicago, in «The Heritage Foundation», 19 marzo 2012, pp. 1-3. Sul punto, si veda James Nixey, Russian Foreign Policy Towards the West and Western Responses, in The Russian Challenge, Chatham House, The Royal Institute of International Affairs, London 2015, pp. 33-39.^
13 Steven Erlanger - Julie Hirschfeld Davis - Stephen Castle, Nato Plans a Special Force to Reassure Eastern Europe and Deter Russia, in «The New York Times», 5 settembre 2014.^
14 Steven A. Hildreth - Carl Ek, Long-Range Ballistic Missile Defense in Europe, in «CRS Report for Congress», 23 settembre 2009.^
15 Wayne Madsen, «Russian Aggression Prevention Act of 2014»: Another U.S.. Style Violent Regime Change?, in «Global Research», 26 maggio 2014.^
16 Matt Ford, After Crimea, Sweden Flirts with Joining Nato, in «The Atlantic», 12 marzo 2014; Suvi Turtiainen, Sweden and Finland Face Their Russian Fears, in «Real Clear World», 9 aprile 2014; Bill French, A Bad Move. Further Nato Expansion, in «The National Interest», 2 maggio 2014.^
17 William J. Perry - John P. Abizaid (a cura di), Ensuring a Strong U.S. Defense for the Future. The National Defense Panel Review of the 2014 Quadriennal Defense Review, United States Institute of Peace, Washington 31 luglio 2014.^
18 John Lough, Ukraine Crisis Prompts a Sea Change in Germany’s Russia Policy, Chatham House expert comment, 24 novembre 2014.^
19 Dubbioso sulla possibilità di una rinascita della partnership russo-germanica è invece Federico Niglia, L’asse russo-tedesco. Storia e attualità di un mito, in «I Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», n. 8, 2015, pp. 93-114.^
20 Sul punto rimando al mio La Nato e la Federazione Russa. Dalla crisi ucraina alla lotta contro Daesh, di prossima pubblicazione in La lotta al terrorismo transnazionale: un ruolo per la Nato?, fascicolo XI dei «Quaderni del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore».^
21 Rosemary Righter, Nato’s Obama problem. The Alliance is Hamstrung by the Least Atlanticist President Since World War II, in «Politico», 10 dicembre 2015.^
22 George Friedman, Ukraine, Iraq and a Black Sea Strategy, in «Stratfor Global Intelligence», 2 settembre 2014; Id., From Estonia to Azerbaijan: American Strategy After Ukraine, ivi, 25 marzo 2014; James Mackey, Nato’s New Baltic Challenge, in Ann-Sofie Dahl (a cura di), Baltic Sea Security. How Can Allies and Partners Meet the New Challenges in the Region?, Center for Military Studies, University of Copenhagen, Copenhagen 2016, pp. 20-22.^
23 Si veda il commento totalmente negativo sulle ultime mosse della politica estera di Obama, tanto più rappresentativo, perché formulato da Doug Bandow, Senior Fellow presso il «Cato Institute» e già Special Assistant di Ronald Reagan per la politica estera: Russia and Nato Meet: Time For Allies to Call Off Mini-Cold War with Moscow, in «Forbes», 21 aprile 2016.^
24 Irène Mosalli, Le coup de grâce US contre l’Arabie saoudite en 28 pages secrètes sur le 11- Septembre, in «L’Orient. Le Jour», 28 aprile 2016.^
25 Fu Ying, How China Sees Russia. Beijing and Moscow Are Close, but Not Allies, in «Foreign Affairs», gennaio-febbraio 2016.^
26 A. Ulson Gunnar, Chinese Thinking on Crimea: «Taiwan» or «Tibet?», in «New Eastern Outlook», 30 marzo 2014; Gary Sands, Moscow Takes Ukraine, Beijing Takes Mongolia?, in «Foreign Policy Blogs», 25 aprile 2014.^
27 Catherine Putz, China’s Silk Road Belt Outpaces Russia’s Economic Union, in «The Diplomat», 10 marzo 2016.^
28 Tom Rogan, Obama’s Fecklessness on ISIS Pushes France into Putin’s Arms, in «National Review», 19 novembre 2015.^
29 John R. Deni, The Real Rebalancing: American Diplomacy and the Tragedy of President Obama’s Foreign Policy, Strategic Studies Institute and U.S. Army War College Press, Washington 2015; S.R. David, Obama: The Reluctant Realist, Bar-Ilan University, Ramat Gan 2015.^
30 Jeffrey Goldberg, The Obama Doctrine. The U.S. President Talks Through His Hardest Decisions About America’s Role in the World, in «The Atlantic», 21 aprile 2006.^
31 Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, in «Foreign Affairs». settembre-ottobre 1997, pp. 53-57; ID., The Grand Chessboard. American Primacy and Its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, pp. 30 ss.^
32 Vikram Rao, Shale Gas. The Promise and the Peril, Research Triangle Institute Press, Raleigh 2012.^
33 Sulla contesa Usa-Cina e il tramonto del sogno americano della «Unipolar Era», si veda Zachary Keck, America’s Relative Decline: Should We Panic?, in «The Diplomat», 24 gennaio 2014.^
34 D. Bandow, Russia and Nato Meet, art. cit.: «There’s no evidence that Russia covets any other territory, certainly none without an ethnic-Russian majority. Moscow would have a hard enough time conquering and occupying Ukraine, let alone Europe. […] Former Russian Finance Minister, Alexey Kudrin, recently observed that without its reserve funds Moscow would have had to cut military outlays in half after the drop in oil prices. Putin can demand national respect and intervene in small foreign conflicts, but his country is no longer a true Wehrmacht».^
35 Christian Nünlist, The Legacy of Obama’s Foreign Policy, in «CSS Analyses in Security Policy», n. 188, marzo 2016.^
36 Bill Hayton, The South China Sea. The Struggle for Power in Asia, Yale University Press, New Haven - London 2014; Michael Pillsbury, The Hundred-Year Marathon: China’s Secret Strategy to Replace America as the Global Superpower, Henry Holt, New York 2015.^
37 Kenneth Lieberthal, The American Pivot to Asia. Why President Obama’s Turn to the East Is Easier Said Than Done, in «Foreign Policy», 21 dicembre 2011; Bonnie S. Glaser, Pivot to Asia. Prepare for Unintended Consequences, in «Center for Strategic and International Studies», 13 aprile 2012; Kurt Campbell - Brian Andrews, Explaining the U.S. Pivot to Asia, Chatham House, The Royal Institute of International Affairs, London 2013.^
38 Henry A. Kissinger, The Future of U.S.-Chinese Relations. Conflict Is a Choice, Not a Necessity, in «Foreign Affairs», marzo-aprile 2012; Edward N. Luttwak, The Rise of China vs. the Logic of Strategy, Belknap Press, Cambridge-London 2012.^
39 Graham Allison, Thucydides’s Trap Has Been Sprung in the Pacific, in «The Financial Times», 21 agosto 2012; Id., The Thucydides Trap: Are the U.S. and China Headed for War?, ivi, 24 settembre 2015. Sul punto si veda anche Emilio Gin, The Tucidides Trap, in Future Wars. Storia della distopia militare, a cura di Virginio Ilari, Milano, Società di Italiana di Storia Militare-Acies Edizioni, 2016, pp. 681-686.^
40 Gérard Chaliand - Jean-Pierre Rageau, Géopolitique des empires. Des pharaons à l’imperium américain, Flammarion, Paris 2012, pp. 191 sgg.^
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