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Sindaci alle prese con la Storia
di Aurelio Musi
«Stiamo riscrivendo la storia». Queste parole sono uscite con piglio altisonante dalla bocca di Virginia Raggi, neo eletto sindaco di Roma, e di Luigi de Magistris, eletto per la seconda volta sindaco di Napoli. È vero che la storia è scritta dai vincitori, ma il delirio di onnipotenza non è certo il modo migliore per iniziare nel caso della Raggi e per continuare nel caso di de Magistris un’esperienza politico-amministrativa da far tremare le vene ai polsi come il governo della città di Roma e della città di Napoli. Il neo sindaco di Torino, Chiara Appendino, non ha grande dimestichezza con le date. E posticipa di un secolo l’assedio di Torino del 1706 nell’emozione per esternare quella che considera «la seconda liberazione della città», ovverossia la sua elezione. Da Nord a Sud del paese spira dunque il vento della “liberazione”. La pulsione narcisista di alcuni primi cittadini si spinge fino all’affermazione della riscrittura della storia sotto la spinta di un “cupio dissolvi” del passato.
I risultati delle recenti amministrative hanno rivelato, tra l’altro, la profonda ignoranza di parte del ceto politico locale per la dimensione della storicità, l’insensibilità per il suo carattere distintivo, quello dello svolgimento, un rapporto disturbato col tempo storico, la tendenza a strumentalizzare il passato in funzione del presente. Si dirà: questi caratteri sono assai diffusi nella percezione del senso comune, che oggi fa fatica a misurarsi con una corretta visione della storicità. Ma da un’élite politica ci si aspetterebbe una formazione più solida: anche tale deficienza fornisce la misura del basso profilo culturale della nostra classe dirigente sia a livello nazionale sia a livello locale.
Il neo eletto sindaco di Napoli per il secondo mandato, Luigi de Magistris, ha mostrato uno spregiudicato uso della storia che attraversa in maniera disinvolta i secoli. Strumentalizza a suo piacimento personaggi ed eventi. Mostra di trovarsi a suo agio con quella che Eric Hobsbawm avrebbe chiamato «l’invenzione della tradizione». Accentua quella carica simbolica che ha decretato il suo successo elettorale sia in prima battuta sia al ballottaggio: il far leva, cioè, sul forte sentimento di appartenenza napoletana, sull’orgoglio del debole contro il potente, contro i “poteri forti” – un’espressione mai definita e riempita di contenuti e significati –, di Davide contro Golia.
Tutti gli argomenti e i luoghi comuni del borbonismo morale e politico, dell’esaltazione dell’autonomia napoletana, dell’ideologia antiunitaria sono chiamati a raccolta dal rieletto sindaco. Così neoborbonismo e populismo si attraggono in un appassionato abbraccio per rivendicare l’affermazione di un’anacronistica Napoli capitale, la legittimità della sua rivolta dopo «150 anni di oppressione», per usare le stesse parole di de Magistris.
Il quale riesuma, forse senza nemmeno saperlo e, soprattutto, senza lo spessore etico-politico degli autori di riferimento, alcune argomentazioni della letteratura borbonica: e mi riferisco in particolare a Giacinto De Sivo, autore della Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, opera scritta qualche anno dopo l’Unità. Suo è il giudizio negativo sul Risorgimento, negazione dei valori spirituali e civili della “nazione napoletana”. Suo ancora è l’elogio della disunità d’Italia. Scrive De Sivo: «l’unità è ruinosa ai napoletani. Messi in punta al paese divengono ultimi, dove erano i primi». Napoli ha cancellato la sua storia con l’unificazione. Deve ubbidire ad altri, abolire il suo trono, rovesciare la sua prosperità. «Per Napoli l’unità italiana è suicidio». De Sivo enuncia i meriti e i primati storici del Regno borbonico: il primo battello a vapore in Italia, le strade di ferro col vapore inventate verso il 1820, la ferrovia Napoli-Castellammare (1836), il gas (1837), il telegrafo elettrico (1852). «In breve – scrive ancora De Sivo – questo Regno salì da profondo letargo a vivo progredimento: popolazione quasi raddoppiata, entrate pubbliche quintuplicate, sicurezza piena in terra e mare, viete tradizioni finite».
Certo, a giudicare dai risultati ottenuti dalla prima sindacatura di de Magistris, non pare che il primo cittadino possa rivendicare qualcuno dei primati segnalati da De Sivo: né certo quello della sicurezza, né le soddisfacenti performance in materia di bilancio, né la fine delle “viete tradizioni”, che, al contrario, sono tornate in grande auge. Comunque la mescolanza di neoborbonismo, rivolta contro lo Stato centrale unitario, conati di indipendenza, demagogici richiami a tutte le forme possibili e immaginabili di democrazia diretta e all’ideologia dei centri sociali sono stati motivi non secondari del successo di de Magistris.
Il quale fa rivoltare ancora una volta nella tomba il leader del moto napoletano del 1647. Prima de Magistris non aveva disdegnato l’analogia col capopopolo. Oggi dice: «Masaniello non c’è più». Vuole prenderne le distanze. Ma sia prima, la personificazione, sia oggi, la presa di distanza sono il frutto di un fraintendimento storico. Masaniello non fu il rozzo pescivendolo, l’“arrevotapopolo” privo di qualsiasi identità politica, buono solo a “fare casino” o a “scassare”, per usare il linguaggio raffinato del sindaco di Napoli. Egli svolse, sia pure per pochi giorni, una funzione di ponte, di unione, di sintesi tra le rivendicazioni antifiscali e antinobiliari del “popolo” strutturato, mercanti, artigiani, avvocati, piccoli magistrati, ecc., e quelle della “plebe” povera.
Nel progetto coltivato dal sindaco di Napoli, esibito all’indomani del suo successo elettorale, appaiono non poche contraddizioni. Esse, probabilmente, sono anche il prodotto delle difficoltà di conciliare, di tenere insieme in un unico nesso le tante liste che lo hanno sostenuto e che vanno dai neoborbonici, appunto, ai repubblicani democratici, ai verdi, agli arancione e a tutti i colori dell’arcobaleno. La principale contraddizione è quella tra le spinte “napoletaniste” di opposizione e le esigenze programmatiche di dialogare col governo del paese, con Renzi. Non sarà facile, a partire dalle premesse enunciate nel discorso successivo al successo elettorale, accreditare l’immagine di un de Magistris istituzionale. Altra contraddizione: quella fra il leader nazionale del vagheggiato “Movimento Popolare di Liberazione” e il sindaco di una città come Napoli, che deve ancora vedere il principio di un buon governo del territorio.
Ma forse, a questo proposito, ha ragione Fassino, l’ex sindaco di Torino che ha perso contro la sua contendente dei 5 Stelle, Appendino: «Soffia un vento – egli ha dichiarato – che non tiene conto di come si è governato». E si può aggiungere: in positivo, come nel caso di Torino, e in negativo, come nel caso di Napoli. Dove bisognerà interrogarsi sull’enigma di una personalità carismatica assai diversa da quelle che si sono succedute a Napoli dal secondo dopoguerra: Lauro, Valenzi, Bassolino. Forse a de Magistris si addice la battuta che il comico Paolo Rossi lanciò per spiegare il successo di Berlusconi: “Quest’uomo ha trovato il vuoto, l’ha riempito di niente e ha fatto il pieno”.
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