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La rivista letteraria «Latitudine»1 e il ritorno alla storia con la presa di coscienza di un destino storico nella Napoli del dopoguerra
di Virginie Vallet
Nel gennaio del 1944, mentre l’Italia non era stata ancora completamente liberata, viene pubblicato a Napoli, per la casa editrice Rossi, il primo e unico numero di una rivista letteraria di 32 pagine, a pubblicazione mensile, intitolata «Latitudine, contributi alla cultura» diretta da Massimo Caprara. Alla redazione degli articoli contribuiscono giovani intellettuali napoletani come Massimo Caprara, Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni-Griffi, Luigi Compagnone, Gianni Scognamiglio, Giorgio Napolitano, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio, ed alcuni intellettuali stranieri, come lo scrittore tedesco Max Raphaël o i poeti della Liberazione francese Paul Eluard e Pierre Emmanuel. Oggi, di questo gruppo d’intellettuali napoletani del secondo dopoguerra, all’origine di «Latitudine», Raffaele La Capria e Giorgio Napolitano sono gli ultimi e preziosi testimoni. Per di più, risulta impossibile procurarsi o consultare la rivista, in nessuna emeroteca o biblioteca d’Italia. Si può qualificare «Latitudine, contributi alla cultura» rivista “pioniera”2, in un periodo storico segnato da una produzione intellettuale importante a Napoli, a livello giornalistico, letterario e artistico. Tale testimonianza, segno di una presa di coscienza, di una nuova identità e di un destino storico per gli autori della rivista, aprì difatti la strada alla stagione delle riviste culturali napoletane, che sarebbero poi nate e durate fino agli anni ’60. Dal 1944 al 1961, nascerà infatti una grande fioritura di riviste culturali, i cui autori dovranno uscire dall’isolamento elitista in cui si erano spesso chiusi, per aprirsi alla realtà del mondo, secondo regole di comunicazione linguistica e mediante un dialogo che venga dal basso. La molteplicità dei livelli retorici nella scrittura della rivista «Latitudine» dimostra dalla parte dei redattori una volontà di rivolgersi ad un pubblico eterogeneo. Infatti, la rivista non intende ricoprire soltanto una funzione meridionale, bensì nazionale e persino europea. È destinata agli autori stessi, ai lettori meridionali, italiani e europei, che si sentono implicati dal dibattito sulla cultura e il suo ruolo nella presa di coscienza di un nostro destino storico.
«Latitudine», fin dal primo articolo di Massimo Caprara, intitolato Latitudine della cultura, pone come primato l’educazione dell’uomo grazie ad una nuova cultura3, che comprende qualsiasi forma d’arte, dalla letteratura alla filosofia, la poesia, la pittura, la musica, il teatro e il cinema, che ritroviamo in ognuno degli articoli pubblicati. Possiamo citare alcuni titoli di articoli, presenti nel sommario della rivista: Latitudine della cultura di Massimo Caprara, Considerazioni di dialettica materialistica, di Max Raphaël, Documenti per una poesia europea, di Paul Eluard e Pierre Emmanuel (tradotti da Massimo Caprara e Raffaele La Capria), La grande stagione, racconto di Giuseppe Patroni-Griffi, Messaggio della letteratura americana, di Luigi Compagnoni, Significato del dipingere, di Massimo Caprara, Note sulla musica contemporanea di Gianni Scognamiglio, Una poesia, di Tommaso Giglio, Premessa ad un rinnovamento del teatro, di Giorgio Napolitano e Storicità del film, di Maurizio Barendson. La rivista viene dunque suddivisa in articoli dagli argomenti più vari, con l’aggiunta di un riquadro, intitolato Taccuino del lettore, specie di promemoria per il lettore, presente per due volte, in cui vengono riportati pensieri di autori famosi, tali «I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo da differenti punti di vista, si tratta di modificarlo4» di Karl Marx «Oggi, scrivere è la sola maniera di continuare a vivere»5 di André Malraux, che evidenziano i benefici della filosofia e della scrittura, indispensabili per capire il mondo e la vita e quindi per poterli modificare o combattere. Si intuisce tra le righe il rifiuto di ogni forma di fatalismo o di determinismo di fronte alla realtà sociale. Si tratta di agire, combattendo le cause umane all’origine del disagio sociale.
Il fascicolo si chiude con la pubblicazione, sull’ultima pagina, di alcuni annunci pubblicitari tali la prossima uscita dei racconti di William Saroyan, Il mondo e il saggio di André Gide Ritorno dall’URSS, tradotti da Raffaele La Capria, con un saggio di Massimo Caprara. Per finire, è prevista la pubblicazione del Saggio sulla rivoluzione, di Carlo Pisacane (a cura di Luigi Compagnone). Secondo Carlo Pisacane, bisogna identificare le classi rivoluzionarie (le classi contadine del Meridione) e lavorare dal punto di vista politico per educarle, anticipando in qualche modo il pensiero di Gramsci, e contestando invece le tesi risorgimentali di Mazzini, la cui visione teleologica e meccanicistica della storia presenta un’Italia idealizzata, con un progetto e un popolo astratti. Particolarmente interessante appare la scelta di pubblicare questo saggio di Carlo Pisacane, in quanto concepisce il popolo secondo caratteristiche socio-economiche e rende l’idea che l’Italia si è fatta a partire da progetti contrari.
Esisteva dunque l’intento di estendere la “dimensione” della rivista ad un progetto editoriale più ampio attraverso le Collane di Latitudine. La rivista era dunque destinata ad un promettente successo − piacque molto a Curzio Malaparte ad esempio6− tuttavia rimase quasi “clandestina” perché non uscirono altri numeri di «Latitudine», il che provocò una grande delusione dai suoi redattori. Uno dei motivi più probabili si trova nella crisi economica attraversata dalla Napoli del dopoguerra e dai lettori, presi da altre necessità più vitali dell’acquisto di una rivista letteraria. In quanto agli autori, pure loro in grandi difficoltà, si ritrovano nell’incapacità di pagare la casa editrice per la pubblicazione di un prossimo numero, nonostante i loro numerosi sacrifici materiali7. La delusione fu ancora più grande di fronte alla reazione del PCI napoletano, a cui non piacque affatto «Latitudine», col pretesto che vi era presente un promemoria per il lettore8, di André Malraux, considerato come un atto di provocazione, perché accusato dai dirigenti del PCI di essere stato un disertore e un traditore della classe operaia durante la guerra di Spagna. Giorgio Napolitano ricorda la reazione del gruppo di «Latitudine», disorientato e confuso, dopodiché si scriverà al PCI nel novembre del 19459:

Non tentammo neppure di obiettare che, per noi, citare Malraux significava invece sottolineare il nostro essere comunisti, richiamarci all’eroe letterato della rivoluzione in Cina e in Spagna. Non gli dicemmo che per noi Malraux incarnava l’ideale del poeta armato. Di colpo fummo certi di essere stati gli strumenti inconsapevoli ma reali di una provocazione. In maniera altrettanto automatica ci sorse il dubbio sulla compatibilità tra milizia politica e impegno culturale, almeno nel senso in cui l’avevamo inteso fin’allora. Capimmo che per essere comunisti era necessaria una radicale contestazione di noi stessi10.


Napoli ha pagato un duro tributo durante il ventennio fascista e la seconda Guerra mondiale. Le quattro giornate di Napoli hanno liberato la città dall’occupante tedesco mentre sono entrati gli Alleati, e più precisamente le truppe anglo-americane. Dopo 76 ore di combattimenti, dal mattino del 28 settembre all’alba del primo ottobre del 1943, che costarono la vita a 178 partigiani e il ferimento di 162, ne scaturisce una seconda occupazione, chiamata Interregno, che durerà fino al 1946, ma non meno ferrea della prima per la popolazione civile e in particolare per le donne11. Gli anni ’50 vengono caratterizzati dalla ricostruzione dell’intero paese. Regna un clima d’agitazione sociale nel Sud Italia, specialmente a Napoli, che viene colpita dalla crisi economica dell’immediato secondo dopoguerra, dalla povertà e dalla disoccupazione. Napoli diventa una città nuova, che conosce una vera e propria speculazione edilizia e uno scandalo che implica il sindaco, Achille Lauro, denunciato nel film Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi.
Durante il periodo del secondo dopoguerra, numerosi sono gli intellettuali12 napoletani che tentano di liberarsi dagli stereotipi di cui soffre Napoli, di analizzare e capire i motivi di un fallimento, collettivo e individuale, del disagio sociale di Napoli e del Meridione, sviluppando una contestazione radicale al fatalismo naturalistico e al determinismo dello storicismo come unico sistema di pensiero durante il fascismo. Infatti questi mali del Sud trovano cause storiche e umane, che possono essere modificate o combattute, proprio perché alla base di questo malessere esistono l’intervento umano e la responsabilità collettiva. Alcuni scrittori meridionali dei primi anni Quaranta e del dopoguerra13 rifiutano l’idea di accettazione fatalistica perché avvertono intensamente il carattere sociale delle vicende umane e di tale disagio, il che implica lo sviluppo di una forte coscienza storico-politica e sociale e pone al cuore della loro riflessione la questione della storicità14. Tutti questi intellettuali appartengono ad una generazione che ha conosciuto fascismo, guerra, occupazione dagli Alleati e infine la Liberazione, che segna l’inizio della guerra fredda15. «Il senso del passato» torna ad essere regola di vita e valore implicito di «un’Italia storica e diversa»16, sottolinea Carlo Dionisotti. Il rapporto complesso che legava la storia alla letteratura, la filosofia e la cultura in generale, andava delineandosi e confermava allo stesso tempo che la cultura italiana, declinata sotto tutte le forme, non sarebbe stata più indipendente dalla politica17. L’importante attività intellettuale a Napoli, vero e proprio laboratorio d’idee culturali e politiche, riguarda anche tutta l’Italia e l’Europa. In Italia, l’emergenza delle riviste «Il Politecnico et Paragone» testimoniano ad esempio dei legami esistenti tra intellettuali a Napoli, Milano e Firenze. Il saggio Le due Napoli, di Domenico Rea, viene pubblicato per la prima volta il primo giugno del 1951 in «Paragone».
Prima di interessarsi agli intellettuali che hanno scritto «Latitudine», sarebbe opportuno precisare cosa s’intende esattamente col termine “intellettuale”. Tra gli studiosi recenti in Francia che si sono impegnati nel definire la figura dell’intellettuale, possiamo ritenere questa definizione di Frédéric Attal18:

On a retenu l’acception qu’en donnent les historiens français du politique: l’intellectuel est «un homme du culturel, créateur ou médiateur, mis en situation d’homme du politique, producteur ou consommateur d’idéologie»19. Il est celui qui «se mêle de ce qui ne le regarde pas, descend dans la rue, parle de toute chose concernant le ou la politique»20. Les historiens italiens parviennent à la même définition21. Mais elle ne doit pas faire oublier la conception gramscienne de l’intellectuel et les travaux historiques qui s’en inspirent22. […] Comme en France depuis l’affaire Dreyfus, le mot d’intellectuels n’a pas forcément et toujours bonne presse. En revanche, il n’est pas rare que soit employé le terme d’élite, par ailleurs directement emprunté au français. […] Tous ces éléments indiquent que la séparation entre l’homme de pensée, dont l’activité première est une activité intellectuelle, et l’homme politique est loin d’être aisée dans le cas italien. On peut déjà affirmer que les intellectuels étudiés ne sont pas de simples observateurs critiques de leur époque et du monde politique.

Comincia a Napoli un periodo molto fecondo di riviste culturali e letterarie, dal 1944 fino al 1961, che inizia con la publicazione dell’unico numero di «Latitudine» e si chiude con la fine di Le Ragioni narrative23. Per numerosi giovani intellettuali24, la fase ideologica si prosegue con una stagione di formazione culturale, durante la quale si passa dal fascismo al comunismo, con il susseguirsi di modelli culturali molto diversi, che condizionano la loro maturazione intellettuale e di conseguenza la loro produzione culturale.
Luigi Compagnone ricorda la fine dell’estate ’43 come straordinaria, sicuramente per le speranze, gli entusiasmi e l’impegno politico che nascono in quel periodo e prosegue:

Per “noi”, il settembre 1943 comincò con uno sciopero mancato. Per “noi” intendo quel gruppo di giovani antifascisti che maturarono le loro posizioni culturali e politiche all’interno del Guf25 Napoli, Massimo Caprara e Renzo Lapiccirella, Guido Petri e Giorgio Napolitano, Antonio Ghirelli e Franco Rosi, Raffaele La Capria e Gianni Scognamiglio, ecc. Di quei giovani dirò soltanto che essi avevano cercato insieme dei maestri, in tempi in cui l’Italia ufficiale proponeva alla loro attenzione soltanto duci e caporali26.

Nel libro sul poeta e critico letterario Stelio Maria Martini, collaboratore di varie riviste d’avanguardia, Claudio Caserta e Maria Giovanna Sessa descrivono ed analizzano il contesto socio-storico, nonché politico, in cui si evolve questo nucleo d’intellettuali a Napoli:

Nei mesi trascorsi a Napoli, Togliatti mette gli occhi su un attivo gruppo di giovani postfascisti del Guf napoletano (Gruppi universitari fascisti), provenienti dalla buona borghesia partenopea e intellettualmente molto vivaci. Si raccolgono attorno alla rivista IX Maggio, alcuni di loro sono destinati a carriere di successo nello spettacolo, nella letteratura, nel giornalismo e, ovviamente, nella politica. Il Migliore nota due giovani garbati e sempre ben vestiti, Massimo Caprara e Giorgio Napolitano, nel partito gli operai li chiamano “signurini “per sottolineare il tratto borghese. Allo stesso gruppo appartengono Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Tommaso Giglio. Caprara diventa subito il segretario particolare di Togliatti, Napolitano un po’ temporeggia poi si iscrive al partito nel 194527.

Molti giovani intellettuali si conoscono infatti in quanto militanti nel Gruppo Universitario Fascista di Napoli e collaborano alle riviste «IX Maggio» e «Belvedere». Per loro, la cultura si declina chiaramente in vari campi, che vanno dallo spettacolo alla letteratura e alla politica. Proprio un gruppetto distaccato dalla rivista del Guf, IX Maggio, comincia a riunire le proprie energie, nel 1943, a Palazzo Donn’Anna a Napoli, a casa di Raffaele La Capria, e poi da Maurizio Barendson28, nell’ambizioso progetto letterario di «Latitudine», considerato allora come un impegno civile e morale. Hanno infatti il compito di rieducare i lettori da un punto di vista politico, sociale e morale passando da una cultura individualistica ad una cultura collettiva, universale e impegnata. Raffaele La Capria ricorda precisamente l’atmosfera e le condizioni in cui nacque la loro amicizia, il sentimento antifascista e l’effervescenza culturale che correva tra loro, riunendo spesso intellettuali da percorsi pluridisciplinari (scrittori, poeti, giornalisti, giuristi, storici, drammaturgi, sceneggiatori):

Ci incontravamo all’uscita delle classi, finite le lezioni, poi ci incontrammo al GUF, che come tutti sanno diventò inavvertibilmente man mano per molti di noi una scuola di antifascismo. Fu lì, al Guf, che si stabilirono le nostre affinità elettive. Fu lì che ci scambiammo idee e sentimenti sulla letteratura, sui grandi scrittori, sul teatro, e fu lì che si strinsero amicizie che sarebbero durate nel tempo: con Antonio Ghirelli, Francesco Rosi, Patroni Griffi, Massimo Caprara, Maurizio Barendson e tanti altri29.

Raffaele La Capria continua esaltando la Napoli del dopoguerra, che si sveglia finalmente libera, piena di vita, dopo l’incubo della guerra, segnato da anni di censura e di oscurantismo culturale:

Era la Napoli del dopoguerra, una Napoli scarmigliata e devastata ma piena di una vitalità esplosiva, come se tante energie compresse negli anni di guerra venissero improvvisamente liberate. Non c’è mai stata a Napoli tanta vita, e il cinema di De Sica e di Rossellini, gli scrittori Rea, Ortese, Compagnone, ce ne hanno lasciato il ricordo30.

Per i giovani intellettuali degli anni ’50, a volte animati da interessi diversi, che esitano a lasciare Napoli o a restare, la storicità potrebbe essere definita come la presa di coscienza di un destino storico, che gli consente di capire la propria situazione esistenziale e quella della comunità storica a cui appartengono31. La rivista rappresenta quindi un modo più concreto, partecipe dell’epoca e militante, di riflettere e discutere su temi e problemi dibattuti dalla cultura del Novecento e più particolarmente nel secondo dopoguerra, non solo dal punto di vista artistico-letterario, ma anche storico-politico, sociale, filosofico e scientifico32. La stagione produttiva delle riviste culturali napoletane pubblicate nel secondo dopoguerra mette in luce le relazioni esistenti tra intellettuali e classe politica italiana, come specificato da Massimo Caprara, in un’intervista pubblicata nel 2006 dal giornale«Il Tempo»33:

I giovani di «Latitudine». La memoria corre a quel gruppo di giovani napoletani: «A Napoli avevano costituito liberamente alla fine della guerra un gruppo molto coeso e specializzato, di profonde aspirazioni letterarie franco-inglesi, pur essendo appena usciti dal liceo – sono ancora le parole di Massimo Caprara – Napolitano ed io (con funzioni di direttore) eravamo allora unici elitari redattori, assieme ad Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Peppino Patroni-Griffi, Maurizio Barendson, Luigi Compagnone, di una rivistina letteraria cui dammo il nome di «Latitudine», di tendenza simbolista e scapigliata e di chiara velleità marxista».

La lettura della premessa, sulla prima pagina, tradotta anche in francese, consente al lettore di capirne i fondamenti, le ragioni profonde, il contesto socio-storico in cui nasce e gli obiettivi mirati dai suoi ideatori.
La rivista, che s’inserisce nella continuità e nella tradizione dell’Illuminismo italiano del XVIII secolo, ha il progetto di promuovere una cultura nuova, caratterizzata da valori universali e virtù umane come la fedeltà, l’umiltà, la cautela, la dignità, l’eguaglianza e la moralità. Gli autori di questa rivista letteraria erano affascinati dalla cultura europea e americana. Questa cultura dovrà essere aperta e d’impronta europeista, portata da valori in grado di superare il confine napoletano e strettamente italiano, tale un cemento nazionale, un décloisonnement della cultura, una sorta di nuovo umanesimo che si avvicinerebbe ad una sinergia culturale quasi idealista tra paesi e tra popoli. La rivista, a vocazione umanista, intende educare i suoi lettori mediante una cultura di qualità, umile, che aspira alla creazione di un senso comune e ad un ritorno alla moralità:

«Latitudine» vuol essere una prima meditata approssimazione ad una nuova cultura europea, più aperta e confidente, con assoluta fedeltà alle esigenze che siamo andati maturando in anni così disperati (e i segni sono ancora, e sempre, dentro di noi, hanno mutato i nostri volti e rese più sicure le nostre voci sicché il lavoro di oggi anche di quelle ferite si giova come di una fruttificante ricchezza). Con l’umiltà e la cautela di chi nel ricominciare si guarda attorno e inizia dal proprio spirito poi cercando altri echi che rendano meno deserta la fatica, noi pensiamo di contribuire a ricreare un terreno cordiale di intesa per interessi altrettanto morali ed onesti intorno alle domande più urgenti sulle ricerche intellettuali, senza vanificarle in arcadie, un centro di risonanze assai vaste nei problemi di tutti: infine di riproporre un tono d’intesa non già avvilito e gramo invece adeguato ad una cultura che non sia travagliato deserto e inascoltato di pochi ma piuttosto improrogabile perfezionamento delle umane qualità e virtù, sicuri di concorrere con questo impegno – e senza altri programmi che una scelta esemplare di autori – alla educazione verso un costume politico di dignità che della eguaglianza collettiva fa soprattutto una conquista morale34.


L’intento di «ricreare un terreno cordiale di intesa» contrasta con l’immagine di un popolo italiano diviso e con l’idea di rottura che segnerà il 1945, nonché con il trauma dovuto alla guerra e alla situazione di quasi guerra civile, in cui ognuno pensa, in nome di Giuseppe Mazzini o del pensiero gramsciano tra l’altro, di essere il detentore di una legittimità35.
Nel primo articolo Latitudine della cultura, che funge da introduzione alla rivista, Massimo Caprara afferma che «tanto più è possibile una assistenza letteraria al fatto sociale quanto maggiormente si liberi l’immagine della letteratura dal semplice contraddittorio degli stili e dei fenomeni di gusto e si riporti la sua ragione nell’adesione ai piani della coscienza […]36», introducendo poco più avanti la metafora concettuale di «letteratura come vita37». Tale progetto riprende alcuni precetti dell’Illuminismo milanese38 e dimostra dalla parte dei redattori una volontà non solo di rendere la letteratura accessibile ad un pubblico più largo grazie ad una lingua più chiara e moderna, bensì di istruirlo facendo uso della ragione e dicendo la verità.
Gli intellettuali napoletani vorrebbero passare da una cultura individualistica ad una cultura collettiva, dal taglio europeista, persino universale, ma soprattutto impegnata39. Infatti, una della missioni della rivista consiste nel diffondere una cultura nell’interesse di tutti, che sia educativa e formativa40. L’intellettuale militante ha il compito urgente di contribuire ad una vera e propria rieducazione collettiva, mediante un senso comune e attraverso qualsiasi forma d’arte41. La scrittura, e più esattamente la letteratura42, assume un ruolo sociale e politico43 mentre la cultura assume persino una funzione curativa44. Si tratta infatti di intellettuali «feriti a morte45», che pur vivendo in una Napoli priva di industria culturale, si sforzano di iniziare un dibattito su temi nazionali e movimenti artistici, tenendo vivo il dialogo con la società civile e la città reale.
Al termine di un ventennio segnato dalla censura, da una stampa e un’editoria oppresse e dunque dall’uniformità culturale, l’esperienza di «Latitudine» nasce quindi per necessità di comunicazione e di scambio intellettuale sotto il segno della libertà, dell’impegno civile e politico, in uno spirito egalitario e nel rispetto dell’etica46. Tale impresa letteraria dimostra dalla parte dei redattori una volontà di riprendere in mano la propria vita e il proprio destino storico, come quello di Napoli e dell’Italia. La cultura diffusa dagli intellettuali impegnati, ancorata in una forma di “neo-umanesimo”, appare contrastante con l’oscurantismo fascista, incapace di creare un modello culturale fedele alla realtà o di dare un senso alla storia, perché mirava soltanto a servire gli interessi del regime47. Alcuni studi recenti come «Savoir historique» et transition. Le parcours d’Eugenio Garin, di Pierre Giard48, si sono interessati ai caratteri salienti della cultura del Rinascimento, che Eugenio Garin erige come modello capace di sinergia culturale all’uscire della seconda guerra mondiale, nonché come arma intellettuale contro la retorica vuota del recente fascismo, in modo tale da conferire un senso alla storia:

Remettre en avant l’humanisme, l’étudier, est ainsi une forme de réponse que Garin oppose alors au fascisme. On retrouve constamment dans ses écrits sur la Renaissance italienne l’idée selon laquelle l’aspect le plus révolutionnaire de l’humanisme a précisément été sa capacité à opérer une «fusion», une synthèse parfaite entre plusieurs champs, celui de l’art, de la littérature et de la science, et que c’est précisément cette «cristallisation» entre les champs qui a permis d’offrir une «nouvelle vision du monde»:
«Con il mio studio sull’Umanesimo, insomma, voglio sostenere che la verità rivoluzionaria portata dal Rinascimento italiano è in questa fusione straordinaria fra arte, letteratura, scienza che apre l’enciclopedia del sapere a una diversa visione del mondo49 […]».
De la sorte, le positionnement de Garin, son intérêt pour la Renaissance est à relier étroitement à la situation politique à la fin de la guerre et à la nécessité de donner un sens à l’histoire récente:
«Il ’44-’45 fu, per molti di quelli che appartengono alla mia generazione, un anno difficile e complicato: di riflessioni e, innanzitutto, di conti con se stessi. La fine del regime dittatoriale, la libertà, imponevano non poche revisioni e non pochi ripensamenti50».


Cultura rima ormai con politica e si declina in vari campi come la letteratura, la poesia e il teatro, segnati dal dibattito sull’impegno degli intellettuali in Italia, ma anche in Europa, ad esempio con l’engagement di autori francesi come André Malraux, Albert Camus o Jean-Paul Sartre51. Esiste infatti in Europa una vera e propria crisi degli intellettuali nel 1945, che segue la guerra, il fascismo, il nazismo e la questione della Shoah. Bisogna infatti rompere con una forma mentis di astrazione idealistica come quella ereditata dall’Illuminismo, che non ha saputo impedire la strage dell’olocausto. Basta pensare alla cultura idealizzata sviluppata in modo notevole dalla Repubblica di Weimar in Germania, che finì col perdere il senso della storia con Hitler e il nazismo. Dà luogo ad un dibattito sull’Umanesimo e il posto dell’uomo, con una certa propensione per il marxismo di Gramsci, in cui l’intellettuale ha una responsabilità e il dovere di uscire dalla sua torre d’avorio e dal semplice pessimismo, al fine d’impegnarsi, sviluppando e diffondendo una cultura che dia un senso comune alla storia per riappropriarsela.
Dopo l’introduzione di Massimo Caprara, intitolata Latitudine della cultura, la rivista si apre con il testo Considerazioni di dialettica materialista, di Max Raphaël, uno scrittore tedesco, sul valore filosofico del marxismo, e più precisamente sul materialismo storico e il suo sviluppo in dialettica materialista52. L’autore difende il pensiero marxista dall’interpretazione sbagliata o dalle accuse di vari filosofi (come quelle di aver escluso le questioni metafisiche53 o accolto l’impostazione dialettica hegeliana54, ad esempio). In un certo modo, l’implicita adesione di Max Raphaël al discorso marxista conferisce l’impostazione ideologica alla rivista «Latitudine», da mettere in prospettiva anche col pensiero gramsciano, del tutto importante nel dibattito dell’epoca in Italia55.
La struttura temporale e spaziale della rivista appare invece tra le righe del testo che segue, Sentimento del tempo. Orientarsi, firmato da un autore di nome Lucrezio56, sicuramente uno pseudonimo di Massimo Caprara57. La prima frase rende l’idea secondo la quale la storia e il passato influiscono su ogni nostro discorso nel presente58. Il peso della guerra e del fascismo, quindi della memoria, determina la nostra identità del presente ed annienta ogni speranza, a meno che diventiamo coscienti del nostro destino storico, e quindi pronti ad agire. Infatti, nonostante la mancanza di coraggio di tanti giovani intellettuali disorientati59, che non si sono mai ribellati al regime dittatoriale e al suo fanatismo60, potrebbero nascere oggi uomini coscienti dell’«orrore della morte» e «interessati e responsabili alle domande supreme», unica via verso la speranza di un futuro migliore61, una nuova latitudine appunto, in cui trova il suo posto il progetto di una poesia europea fedele alla realtà, ossia «una poesia immediata», ispirata a «la vie immédiate», presente nella letteratura francese contemporanea.
Difatti, Massimo Caprara e Raffaele La Capria hanno scelto di presentare e tradurre due giovani poeti francesi di sinistra, Paul Eluard e Pierre Emmanuel62, simboli della Resistenza francese e della libertà. Il messaggio di speranza, dall’accento illuministico, la cui comunicazione poetica è vista come una risposta civile e umanista all’oscurantismo culturale imposto dal fascismo63, può portare ad una “purificazione” dall’interno, sorta di catarsi come via verso la riappropriazione della storia, solo se solidale e rappresentativa della realtà64. Nonostante l’onnipresenza dell’orrore della guerra e la tematica ricorrente della morte e del sangue65, il lettore percepisce, nelle parole d’ottimismo e nelle allegorie della libertà e della vita, la tematica della speranza, di una nuova fiducia nell’uomo e nel futuro66. «La poesia immediata» offre un senso alla nostra esistenza, salvando, migliorando e educando l’uomo67.
«Latitudine», in quanto rivista letteraria, offre allo stesso modo spazio a poeti ed autori esordienti, simboli di una generazione segnata dalla guerra68, come Spartaco Galdo, che pubblica la poesia intitolata Fiamme fumose. Numerosi sono quelli che, come lui, hanno cominciato a scrivere su riviste d’impronta fascista come IX Maggio e si sono impegnati, dopo la guerra, collaborando da antifascista militante e da poeta, nella ricostruzione di un’Italia democratica.
L’ultima poesia, senza titolo, è quella di Tommaso Giglio, poeta, giornalista e traduttore, che comincia col verso Le folaghe che strisciano nel sangue, nel quale sembra racchiusa l’essenza della sua misteriosa e impenetrabile personalità, propensa alla disperazione, descritta precisamente nel ritratto fatto da Raffaele La Capria, nella sua opera Napolitan Graffiti69. L’allusione alla morte e alla disperazione si alterna con il ritorno alla vita e alla speranza, attraverso espressioni metaforiche come «Le folaghe strisciano nel sangue // dell’acqua accese dai tramonti», dai colori accesi e dalla musicalità espressiva del movimento sull’acqua, il cui ritmo si accelera in modo progressivo70, fino a raggiungere la pace e la vittoria71.
La letteratura occupa un posto centrale nella rivista, con un articolo di Luigi Compagnone sulla narrativa americana contemporanea, seguito dal racconto La grande stagione, di Giuseppe Patroni Griffi e di una pagina di William Saroyan, intitolata Il mondo, tradotta da Raffaele La Capria. Nella sua analisi Messaggio della letteratura americana, Luigi Compagnone riflette sul giovane modello letterario dell’America, al quale si ispira per progettare un’altra letteratura narrativa del secondo dopoguerra, in Italia e nella nostra “Vecchia Europa”. L’esempio della letteratura americana è da ricollocare nel contesto socio-storico così particolare dello sbarco degli alleati e dell’Interregno a Napoli. Corrisponde ad un allargamento della cultura italiana a quella americana, quasi ossessionale, nonché a quella francese, inglese e russa, che si intuisce anche in questo discorso. La formazione letteraria degli intellettuali napoletani si apre quindi ad una cultura più ampia, quella dell’America e del mondo, sinonimo di una nuova latitudine. Nonostante le «singolari esperienze di alcune individualità validissime72» della narrativa europea, come Moravia, Vittorini, Piovene e il Buzzati del Deserto dei Tartari in Italia, esiste un contrasto con le «naturali esigenze collettive73» della letteratura americana, rappresentativa della vera vita americana e girata verso il futuro. Difatti, le grandi correnti del realismo, del naturalismo e del verismo sembrano non corrispondere più alla tradizione europea degli ultimi trent’anni.
Si tratta di ristabilire e ridefinire un modello diverso per la nostra letteratura, diventata passeista, spesso individuale e dunque lontana dalle vere preoccupazioni dell’uomo. Il lettore non aspetta più «messaggi estremi o illuminazioni addirittura evangeliche74», bensì un modello di vita, che corrisponde alla «condizione umana», alle vicissitudini della vita, ossia a «i fermenti, l’esigenze, le cadute» o alla crisi esistenziale dei più umili75. La letteratura afroamericana è alla base della letteratura americana, che funge da modello ideale per la letteratura italiana ed europea. Infatti, all’«isolamento cosmico dei singoli76» va preferita una visione più aperta sull’uomo e “le folle”, sulle altre culture e sul mondo, senza distinzione sociale. Da una letteratura individualistica con autori isolati dalle folle e le sue vere preoccupazioni, destinata alla «nostra intelligente borghesia 77», occorre passare ad una nuova letteratura, sociale, impegnata, democratica e dunque collettiva ed universale, al fine di liberare il popolo dai suoi incubi, tali la storia e la guerra, e di ristabilire il dibattito umanista e gli impulsi sociali soffocati.
Luigi Compagnone, basandosi su concetti diffusi da giovani autori importanti di narrativa americana, come Dreiser, Anderson, Saroyan, Whitman o Faulkner ad esempio che si rivolgono alle classi sociali medie, operaie e rurali, insomma a «tutto il genere umano78» secondo un’etica sociale anti-borghese. Hanno espresso l’esigenza di «ristabilire una nozione dell’uomo», mediante l’evoluzione del linguaggio verso strutture più precise e trasparenti, prive di artifici. Lo stesso ragionamento vale per la poesia79. Questo “ritorno dell’uomo all’uomo”, ossia un ritorno alle nostre origini, come nuovo concetto alla base della nostra letteratura, è la “lezione” che Luigi Compagnone consiglia di assumere:

Ma proprio questa letteratura in ultima analisi ci garantisce le infinite aperture delle folle americane. […] Obbiettivando dunque il suo tempo ideale nella vita del paese, la giovane letteratura d’America ci reca, e solo in questo senso possiamo azzardare la parola, un messaggio preciso. Che, pertanto, è nell’esigenza di ristabilire una nozione dell’uomo. Nell’impegno totale che l’uomo ritorni all’uomo, oltre il graduale sfaldarsi delle vecchie muraglia sociali. Per questo impegno, e non altrimenti, riteniamo valido un concetto di Democrazia80.

«Latitudine»esercita la sua funzione letteraria anche pubblicando opere di autori esordienti all’epoca, come Giuseppe Patroni Griffi, influenzato da Faulkner, con il suo racconto intitolato La grande stagione. La protagonista, di nome Rosalinda, nella sua ricerca disperata di amore assoluto, ispirerà o sarà all’origine, trent’anni dopo, del personaggio di Rosalinda Sprint, in una delle opere più importanti di Giuseppe Patroni Griffi, Scende giù per Toledo81. Il suo amico Raffaele La Capria, che lo definisce «un uomo di grande cultura, di multiforme ingegno, scrittore, drammaturgo, regista, cosceneggiatore, sicuramente il più dotato di tutti noi nel gruppo82». Gli ha dedicato un ritratto intitolato Patroni Griffi, l’irregolare, in cui descrive l’amico che era ma anche l’uomo e l’artista83. Dopodiché si sofferma sul suo lungo racconto Scende giù per Toledo, la lingua, lo stile e il personaggio del femminiello partenopeo, dalla vita colorita e scandalosa, incarnato da Rosalinda Sprint84:

Scende giù per Toledo è il ritratto di un femminiello napoletano presentato con rara grazia e con un linguaggio irresistibile […] Ma oltre a questa «amorosità», oltre a questo «stile d’acqua» c’è in Patroni Griffi uno stile naturale e strafottente, incurante di regole e modelli e fedele soltanto al suo carattere e al suo talento, che trasforma il sentimento in una appassionata analisi della passione o si risolve nelle forme di un estetismo concettuale (non verbale, cioè) dichiarato, di cui dirò. Anche se in Scende giù per Toledo la passione è quella di un povero femminiello napoletano mitomane e assatanato di sesso, non è per questo meno vera […] Rosalinda Sprint – così si chiama il femminiello – viene direttamente dalla vita. Patroni Griffi ce ne dà una rappresentazione viva ironica e affettuosa, calandosi nell’anima squinternata del suo ambiguo eroe. […] La sua è anche una invenzione semantica, perché ne adotta il linguaggio, i sogni, le illusioni, le idee di eleganza e di bellezza, di superiorità e di stile, e trasforma tutto questo in ritratto, in sintassi, in virtuosismo verbale85.


Nel nostro racconto La grande stagione, l’autore narra la vita sentimentale di Rosalinda, che vive a Taverna, una contrada ritirata, in campagna, d’estate. La sua infinita ricerca d’amore, intrisa di sensualità provocante e di sofferenza, viene segnata da due uomini che la sposeranno. Il primo, Agostino, di cui s’innamora veramente, sfortunato, muore in un incidente di carro. Il racconto si conclude sul secondo uomo, senza nome, che mette Rosalinda incinta. In entrambi le storie d’amore si mischiano sensualità e amore, vita e morte, in un’atmosfera estiva soffocante e suggestiva, per via del sole e del gran caldo. Le ricche descrizioni di una Rosalinda quasi scandalosa e lo stile iperbolico dell’autore, sembrano rappresentare a momenti un quadro o una scultura manierista86, tale l’estasi di Santa Teresa, del Bernini87. Sono numerose le analogie tra il sole e la donna, il sole e l’uomo, la fecondità della donna e la fertilità della terra88, espresse mediante metafore ed allegorie. La ricca tematica del sole estivo, con la sua luce accecante, risalta attraverso un linguaggio alla volta poetico, crudo e struggente, in cui trionfa sempre la natura sulla ragione umana. Ritroveremo questo stile singolare del giovane Giuseppe Patroni Griffi nei racconti più lunghi e nei romanzi famosi che scriverà più tardi.
Infine, la pagina di William Saroyan, Il mondo, tradotta da Raffaele La Capria e introdotta dai redattori di «Latitudine» da una breve presentazione, in cui viene affermata la moralità dell’autore americano, «sempre attenta e sempre suscettibile di nuovi arricchimenti, […] conquistata attraverso una accettazione piena della vita e liricamente risolta89», attraverso la coincidenza tra lo scrittore e l’uomo, espressa in questi termini quasi emblematici: «La razza dello scrittore deve essere quella dell’uomo». William Saroyan, di origine armena, era emigrato in America ed era considerato uno «scrittore americano esemplare dai giovani italiani90». In questo brano d’ispirazione marxista, si rivolge direttamente al lettore, su un tono intimo e fraterno, chiamandolo «Fratello» e dandogli del tu. In sintesi, lo stato di povertà ci porta ad una conoscenza esatta del mondo vero91. Infatti, la cruda realtà della vita ed i suoi contrasti si possono vedere e comprendere solo con gli occhi del povero che soffre di solitudine92. In altri termini, non essere stati poveri nella vita significa non essere nati, e di conseguenza non capire la morte quando arriva, fino a giungere ad una forma di nichilismo93. Per concludere, aver conosciuto la povertà costituisce una ricchezza morale, ossia un arricchimento dello spirito e dell’intelletto, che aiuta a ritrovare la purezza originale dell’uomo. Rimanda al peccato originale di Adamo ed Eva, cacciati dal Paradiso e quindi dall’Eternità, la cui uscita rappresenta comunemente il loro entrare nella storia. Gli autori della rivista cercano di ritrovare un rapporto sano con la storia, grazie ad una scrittura catartica, che contrasta con il concetto tradizionale di un’Italia retorica (l’Italia romana, l’Italia fascista…). Bisogna sapere chi siamo da un punto di vista storico. Tuttavia, secondo Saroyan, nel campo letterario come nel campo poetico, la ricerca della moralità si esprime mediante un linguaggio chiaro e preciso, liberato da strutture inutili e libero di definire l’uomo e il mondo94.
Nelle ultime sezioni di «Latitudine», l’impegno divulgativo e didattico iniziale ritrova tutto il suo senso attraverso i testi critici sul significato e il necessario rinnovamento della pittura, della musica, del teatro e del cinema. La funzione essenziale delle arti si risolve nell’azione sociale ed educativa della nuova era antiborghese, che risponde ad esigenze morali e storiche precise.
Il ragionamento sulla pittura viene impiantato da Massimo Caprara, che analizza il Significato del dipingere, descritto come atto individuale, privato e quindi soggettivo se puramente estetico95. Secondo l’autore, va invece risolto in un’azione sociale e morale, collettiva, comunicativa ed educativa, che rispecchia la vita reale e i sentimenti dell’uomo. Infatti, la pittura deve rispecchiare «il nostro teatro terreno» per opposizione a quello “celeste”, rendendo anche l’idea che ci mettiamo in scena nel nostro quotidiano quaggiù, come lo faceva Eduardo De Filippo nelle sue commedie teatrali:

[…] la pittura è appunto un estetico invito non solo a guardare ma a cercare di comprendere tutte le cose quotidiane od esotiche del nostro teatro terreno. Non certo un’arte consolatoria o evasiva, un eden di esteti, ma la presenza umana dell’artista che drammatizza le forme e i colori secondo gli impeti, i dubbi e le instabili certezze dell’esistenza sempre impegnata nella ricerca morale96. […]
Si pensi che anche il dipingere (e qui vorremmo che il lettore sottolineasse adeguatamente) è soprattutto un’azione sociale, nel senso che dev’essere un colloquio con gli altri, un perpetuo domandare e rispondere intorno alle cose alla portata di tutti, sul sole e la terra che calpestiamo, ma anche su noi stessi, sul nostro cuore e le nostre passioni97.


Nel suo discorso sulla musica, intitolato Note sulla musica contemporanea, Gianni Scognamiglio si sofferma sulla «crisi del melodramma», che si rispecchia nella «crisi della coscienza creatrice epperciò delle condizioni della civiltà». Si tratta di ritornare al «nucleo fondamentale della modernità», ossia ad una forma originale della musica, grazie al suono dei primordi. Tuttavia l’autore conclude il secondo paragrafo in modo confuso, all’immagine del suo stato d’animo e del suo profondo malessere98. Lo stato confusionale e le allucinazioni in cui sprofonda si traduce nella sua scrittura, che non consente sempre al lettore di cogliere il senso di certe frasi, come spiega il suo amico Raffaele La Capria:

Uno dei suoi incubi più ricorrenti era quello della dissoluzione del corpo e della morte, e il simbolo di questa dissoluzione era sempre presente nei suoi versi e nelle sue strane composizioni teatrali, narrative, radiofoniche o semplicemente “indefinibili”, perché il genere lo inventava lui. Ricordo per esempio molti suoi «film» (uno me ne è rimasto: «per voce solista e coro di voci lontane»), «oratori radiofonici, balletti sinfonici» e così via, dove lui fondeva la sua visionarietà con la sua competenza musicale, e col suo gusto per ogni forma di spettacolo99.


L’intellettuale avanguardista nelle letture e nelle conoscenze musicali che era Gianni Scognamiglio, il suo ingegno e il suo ragionamento, logico e lucido a momenti, si alterna con concetti enigmatici, idee arcane e persino deliranti, difficilmente comprensibili o interpretabili per il lettore100. Raffaele La Capria lo definisce «“poeta maledetto” del nostro gruppo», il che sottolinea la sua dimensione artistica e la sua sfortuna101. Tuttavia faceva parte del gruppo di giovani intellettuali formatosi a Napoli durante gli anni del fascismo, in cui portò la sua cultura musicale elevatissima.
In una lettera del futuro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, del 26 febbraio 1945102, al suo padrino di cresima, dichiara il suo grande interesse per la cultura e in particolare per il teatro fin da giovanissimo. Poi spiega le privazioni e l’orrore della guerra, nonché la censura esercitata dal regime fascista e le sue conseguenze sulla formazione intellettuale della sua generazione e sulla cultura in generale. Allo stesso tempo, racconta la necessità, per i giovani intellettuali come lui, di interpretare una parte nella storia del loro Paese, lacerato dalle drammatiche conseguenze della guerra e del fascismo, in tal modo da riappropriarsi della Storia e il loro destino storico, sinonimo di marxismo antideterminista e antifatalista, non solo napoletano, ma anche per tutto il Meridione e l’Italia. Si tratta infatti di un marxismo umanista che si costruisce (posizioni di Labriola e Gramsci), all’opposto della scienza marxista dell’Unione Sovietica, per la quale è tutto meccanico:

Ti dirò quindi che sin da prima di entrare all’Università, ho sentito precisarsi e crescere il mio interesse per i problemi culturali, a cui mi sono avvicinato decisamente col formarsi una accurata educazione letteraria […] ed inoltre la mia attenzione veniva sempre più assorbita da quel caratteristico e vitalissimo consanguineo della letteratura che è il teatro. Cominciai quindi col pubblicare su giornali e riviste universitarie, numerosi articoli di critica teatrale […].
Ma ora vorrei richiamare la tua attenzione su quello che è stato il clima in cui io, e la mia generazione, ci siamo formati. Noi acquistammo coscienza di noi stessi quando si era già in piena guerra, e sin dal primo giorno, vedemmo le nostre possibilità ridotte al minimo, la nostra attività frenata da cento ostacoli. Iniziammo i nostri studi e il nostro lavoro […], quando l’attività culturale e letteraria italiana diventava sempre più ristretta e la stampa e l’editoria sempre più limitate ed oppresse. La vita si faceva poi sempre più dura: alle privazioni materiali, col passare del tempo, si aggiunse l’orrore di mesi e mesi di bombardamento.
Non conoscemmo più calma, divenne impossibile trovare la serenità necessaria per prendere un libro tra le mani, per studiare. Ma questo mio racconto sarà certamente incompleto se non ricorderò l’atteggiamento da noi preso di fronte alla più complessa ed importante delle questioni che noi avemmo da affrontare: la nostra situazione nazionale. In tanto sbandamento e in tanta incertezza, sentimmo nondimeno il bisogno di prender posizione di fronte ai fatti in mezzo a cui vivevamo, di fronte agli avvenimenti che andavano decidendo della sorte del Paese e di noi tutti.
Pur non avendo allora alcun interesse per i problemi politici né alcuna preparazione specifica, tuttavia non mi fu difficile giungere alla conclusione […] che la sconfitta, la disfatta completa era l’unico mezzo che ormai ci restava per liberarci dall’oppressione volgare e spietata che aveva privato il Paese della sua dignità, che teneva l’Italia lontana da ogni forma di progresso politico sociale culturale, che l’aveva precipitata in un vergognoso abisso morale. La sconfitta, la disfatta: questa l’unica salvezza, che ci sarebbe costata – lo sapevamo – sangue, rovine, umiliazioni senza nome.


Quando nel 1944 Giorgio Napolitano intraprende la collaborazione con la rivista «Latitudine» in quanto critico teatrale, si misura già con una nuova idea del teatro, a Napoli e in Italia. Nel suo articolo, intitolato Premessa ad un rinnovamento del teatro, denuncia la condizione del teatro contemporaneo, la povertà spirituale e morale degli autori, dei testi e del pubblico, spesso appartenente ad una piccola borghesia, scevra di spirito critico e di educazione culturale, persino volgare, e di conseguenza incapace di formulare un’analisi obiettiva o di prendere coscienza della condizione umana. Si tratta di formare un pubblico nuovo, moralmente integro e socialmente eterogeneo, ossia di creare «un teatro del popolo», artisticamente rinnovato, in grado di educare il suo pubblico, come quello di Eduardo De Filippo, che fa eco al «nostro teatro terreno» e «alla terra che calpestiamo» di Massimo Caprara, nel suo articolo Significato del dipingere, o a Gramsci in quanto giornalista autore di cronache teatrali su Pirandello, che metteva in scena l’Italia:

È nostro ufficio meditare e risolvere i problemi relativi al superamento di una insostenibile situazione del teatro italiano. […] la crisi del nostro teatro non consiste solo in una crisi di testi […]
Gli spettatori rifiutano l’opera d’arte perché essa impegnerebbe la loro coscienza, solleciterebbe in essi il bisogno di determinazioni morali e spirituali, imporrebbe un esame rigoroso della loro condizione umana, dei loro atteggiamenti di fronte alla vita e della loro quotidiana esistenza. […]
Ecco dunque il teatro decaduto a convegno mondano, passatempo di lusso, accessoria comodità della vita civile […]
Concluderemo insieme che è urgente prima d’ogni altra cosa purificare il nostro teatro dal funesto sopravvivere di quella mentalità marcia […] contemporaneamente invece, il manifesto «Per un teatro del popolo», di recente formulato da un gruppo di giovani, esprimeva tra l’altro la fiducia nella possibilità di un miglioramento del pubblico, quando lo si sia rinnovato negli elementi che lo costituiscono, quando esso arrivi ad essere formato da altre sfere sociali, da classi d’individui puri, per ragioni costituzionali, da una mentalità corrotta e da insane esigenze. […] solo per questa energica azione i testi validi come espressione artistica potranno riavere, diventando spettacolo, un consenso collettivo e attuare quindi la loro potenza educatrice103.


Nell’articolo che segue, Storicità del film, il critico cinematografico Maurizio Barendson s’interessa di cinema contemporaneo e s’iscrive nella logica del discorso impegnato di Giorgio Napolitano sul «rinnovamento del teatro», ossia nella «ricerca di nuovi orizzonti nella definizione di una cultura europea104». In questo senso, dopo una recensione negativa sul contenuto dei film, legata alla situazione economica, politica e morale in Italia105, Maurizio Barendson descrive un pubblico poco colto, in particolare i giovani, privo di educazione, d’etica morale, sociale e di conseguenza senza coscienza storica106. “Gli intellettuali di cinema”, tali i famosi sceneggiatori Visconti o De Sica, considerati come nuove intelligenze107, hanno una parte da recitare. Infatti, la loro arte, impegnata e catartica, di taglio europeista ed universale, deve essere in grado di trascendere anni di oscurantismo intellettuale, rendendosi partecipe di un saldo «patrimonio unico di una civiltà108» e di «un riferimento storico oggi quanto mai indispensabile109». Oltre le correnti americane e francesi a cui si riferisce per la produzione cinematografica italiana, evoca il modello russo, noto per i suoi «film a tesi», come «autentica espressione di una nuova moralità sociale110». Per finire, il nuovo cinema e l’arte in generale dovranno contribuire «sul piano europeo» ad «una rivoluzione morale111», educando l’uomo e portandolo al progresso morale e sociale112, grazie ad una compassione intelligente e ragionata113.
In sintesi, se «Latitudine» risponde ad una necessità di cambiamento, soddisfarà ad alcuni postulati riportati nell’introduzione di Massimo Caprara, Latitudine della cultura, nell’obiettivo di promuovere una cultura nuova ed aperta, dalla vocazione umanista, europeista e persino universale. Di conseguenza, «la letteratura come vita» di Caprara, «la poesia immediata» di Paul Eluard, come la Storicità del film di Maurizio Barendson ed ogni forma d’arte in generale, vanno sempre collegati strettamente al «fatto sociale» e alla vita reale, con una missione di rieducazione collettiva, che ricopre funzioni sociali, morali, politiche e curative. L’intellettuale impegnato del secondo dopoguerra ha il compito di creare, in un’Italia liberata dall’oppressione fascista, uomini nuovi, capaci di riprendersi in mano il proprio destino storico, quello di Napoli e dell’intero Paese114, al fine di far rinascere, nella coscienza collettiva, la speranza in un futuro migliore, una nuova latitudine appunto, allegoria del nuovo allargamento delle menti e della cultura italiana a quella americana, francese, inglese e russa, dopo un periodo oscurantista ed autarchico, culturalmente chiuso. Si tratta di una formazione letteraria più aperta e di un’aspirazione ad una cultura più vasta di quella che aveva consentito il fascismo. Rinasce la speranza in un’Italia condizionata dal Ventennio fascista e diventa allora possibile accogliere tutte le voci del mondo, la cultura rimanendo l’arma più forte per sconfiggere il fascismo115. «Latitudine», in quanto rivista del secondo dopoguerra, nasce dal sogno di libertà e di democrazia, perciò esercita la sua funzione letteraria, nel presentare autori animati da interessi vari, ma tutti impegnati, pronti a sostenere una cultura allargata verso nuovi orizzonti, come il marxismo o il sogno della narrativa statunitense da Faulkner a Saroyan.
Tuttavia alcuni postulati dell’introduzione non vengono accertati completamente dai vari articoli pubblicati in questo unico numero della rivista. D’altronde, data la sua quasi clandestina diffusione, «Latitudine» fu importante soprattutto per la biografia dei suoi autori, ma in quanto evento culturale e sociale, ebbe in realtà poca ripercussione immediata sui suoi lettori e sui napoletani in generale116. Infatti, dopo questo promettente esordio, i redattori s’impegneranno, ad approfondire e precisare in seguito molte idee nascenti contenute in «Latitudine», nelle riviste «Sud» (1945) e «Città»(1949), rapportandosi alla logica dell’etica sociale, pernio di ogni loro ragionamento. La necessaria funzione comunicativa e la dimensione sociale volute dagli intellettuali napoletani di «Latitudine» e riprese da riviste successive, contribuiranno alla formazione di un’identità culturale progressista per il Sud, che tenga conto del suo ruolo nella Nazione. Infatti, la figura dell’intellettuale militante, partecipe della ripresa e della riabilitazione di Napoli e del Meridione, è in marcia.













NOTE
1 Latitudine, contributi alla cultura, rivista diretta da Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944 (unico numero, pubblicazione mensile).^
2 C. Caserta, M.G. Sessa Per forma di parola: Stelio Maria Martini dagli anni dell’avanguardia a Napoli ai «labirinti verbali», Napoli, Guida Editori, 2001, p. 22: «[…] si evidenzia nel tipico colonialismo caratterizzante le varie rivistine che subito presero a fiorire dalla quasi pionieristica Latitudine (M. Caprara, La Capria, G. Patroni-Griffi) fino a Sud (diretta da Prunas) […]».^
3 M. Caprara, Latitudine della cultura, in «Latitudine», Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 4: «[…] erano solo il noviziato di una nuova cultura nel mondo».^
4 M. Caprara, Taccuino del lettore, in «Latitudine», Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 6. Si tratta dell’undicesima tesi dell’opera Tesi su Feuerbach [1888], di Karl Marx.^
5 Ivi., p. 22^
6 P. Franchi, Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale, Milano, Rizzoli, 2013, p. 51: «A Malaparte, tutto all’opposto del PCI napoletano, «Latitudine» piacque assai: vorrebbe addirittura associare gli animatori della rivista a certi corsi sul leninismo che intende organizzare nella sua villa caprese».^
7 V. Vallet, Intervista allo scrittore Raffaele La Capria, Roma, settembre 2015 (non pubblicata).^
8 P. Franchi, Napolitano, l’arte di governare le passioni, tratto dall’archivio storico del «Corriere della Sera», 22 febbraio del 2013: «È un disastro. Al Pci «Latitudine» sembra intrisa di ermetismo e decadentismo. Come se non bastasse, la rivista cita ampiamente due scrittori come André Gide e André Malraux, che per i comunisti dell’epoca sono fumo negli occhi, due transfughi. Ai richiami all’ordine, Caprara reagisce iscrivendosi al Pci […]».^
9 P. Franchi, Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale, Milano, Rizzoli, 2013, pp. 51-52: «Al Pci, Giorgio Napolitano si iscrive nel novembre del 1945. […] In realtà, dopo la delusione di «Latitudine», al Pci si è avvicinato già da un anno. A Napoli, per dirigere (assieme all’avvocato socialista Nino Gaeta) un nuovo quotidiano di sinistra, «La Voce», è arrivato, nell’autunno del ’44, Mario Alicata».^
10 N. Aiello, Intellettuali e PCI (1944-1958), Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 32-33.^
11 Si pensa al romanzo autobiografico La Pelle, di Curzio Malaparte, pubblicato a Roma-Milano, dall’editore Aria d’Italia nel 1949. Viene messa in scena la liberazione di un’Italia affamata e disperata, in particolare lo stato di prostrazione di Napoli, già colpita dalla peste del 1943, dall’eruzione del Vesuvio del 1944 e dall’occupazione alleata che scopre la città partenopea e l’Europa. Da testimone inorridito e ironico che ha sofferto e visto l’inverosimile, descrive e dipinge con il suo sguardo barocco il disastro della guerra e il suo mondo marcio, cinico e macabro.^
12 Il termine «intellettuale» appare alla fine del XIX° secolo con Émile Zola nell’articolo J’accuse!, pubblicato nel giornale «L’Aurore», il 13 gennaio 1898, nel contesto di L’affaire Dreyfus.^
13 Si pensa a Eduardo De Filippo, con la figura di Gennaro e il suo senso comune in Napoli milionaria [1945], la sua commedia teatrale in tre atti, inserita nella raccolta intitolata Cantata dei giorni dispari (volume 1), Torino, Einaudi, 2005. Ci si può riferire anche all’antropologo e storico napoletano Ernesto De Martino, come esempio dell’intellettuale meridionale che partecipa a questa presa di coscienza del disagio sociale meridionale come effetto di un processo storico e non naturale. Il suo primo libro, Naturalismo e storicismo nell’etnologia [1941], va in questo senso. La figura di Ernesto De Martino ispirerà poi il personaggio del romanzo L’Orologio [1950], di Carlo Levi. Lo storico e Professor Giuseppe Galasso sarà il primo studioso di Ernesto De Martino, con un saggio pubblicato nel suo libro Croce, Gramsci e altri storici (edizione ampliata) [1969], Milano, Il Saggiatore (Biblioteca di Storia), maggio 1978. In un articolo intitolato De Martino alle frontiere della magia, pubblicato nel «Corriere della Sera» del 14 gennaio 2016, in occasione della ripubblicazione di Sud e magia, di Ernesto De Martino, Giuseppe Galasso scrive di lui: «Eppure, de Martino fu uno degli intellettuali più animati da spirito innovatore e da molteplici e feconde curiosità del ventennio postbellico 1945-1965, che resta a tutt’oggi il periodo più vivace della cultura italiana contemporanea. E, per la verità, di spirito innovativo egli aveva già dato prova da prima della guerra. Era maturato nell’ambiente intorno a Benedetto Croce, e ne rimase impregnato poi per sempre. Croce voleva dire storicismo, esclusività della considerazione storica nella visione e nella valutazione della realtà. De Martino, per un impulso spontaneo, si avviò ad altro tipo di considerazione […]».^
14 Si pensa al dibattito sul post marxismo e sulla cultura, iniziato da Antonio Gramsci con Lettere dal carcere, pubblicate da Einaudi nel 1947.^
15 Si pensa al romanzo di E. Rea, Mistero napoletano,Vita e passione di un comunista negli anni della guerra fredda [1995], Torino, Einaudi, 2002. Nell’introduzione, S. Perrella sintetizza il legame esistente tra Storia (collettiva) e storia (individuale) attraverso queste considerazioni e interrogazioni: «Quando la storia di una città si blocca, ne viene coinvolto anche il destino dei singoli individui. […] Cos’è successo a Napoli durante gli anni Cinquanta? Com’è stato possibile che una città di tali dimensioni e con la sua collocazione geografica, diventasse come una stazione dalla quale non passavano quasi più treni, trasformandosi in un binario morto dalla Storia?».^
16 C. Dionisotti, L’ideologia ci separò dalla vera Italia, «Corriere della Sera», 10 giugno 2001.^
17 J. Benda, Nell’opera La trahisondesclercs [1927], Paris, Les cahiers rouges, Grasset, 2003, l’autore rimprovera agli intellettuali di tradire le proprie competenze in nome di un certo realismo, legato alla politica, a scapito dei valori clericali. Consiglia di diffidare dalle ideologie del XIX° e XX° secolo, al fine di convergere verso una «fraternité universelle».^
18 Frédéric Attal ha sostenuto, nel 2000, sotto la direzione di Pierre Milza, presso l’Institut de Sciences Politiques de Paris, una tesi di dottorato intitolata «Les intellectuels napolitains (1943-1964). La formation d’une classe dirigeante dans l’Italie de l’après-guerre», Introduzione, p. 4. Frédéric Attal è l’autore di Histoire des intellectuels italiens au XXème siècle «Prophètes, philosophes et experts», Paris, Belles lettres, 2013.^
19 Les intellectuels français de l’Affaire Dreyfus à nos jours, Pascal Ory, Jean-François Sirinelli, Paris, Armand Colin, 1986, p. 10.^
20 Dictionnaire des intellectuels français, sous la direction de Jacques Julliard et Michel Winock, Paris, Seuil, 1996, p. 11.^
21 Riferirsi ad esempio a Bruno Bongiovanni, “Intellettuali” in Dizionario storico dell’Italia unita, a cura di B. Bongiovanni e N. Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 462-474.^
22 Riferirsi tra l’altro a Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981 e a Alberto Asor-Rosa, “Intellettuali” in Enciclopedia, Einaudi, vol. 7, Torino, Einaudi, 1979, pp. 802-827.^
23 Nel comitato di redazione della rivista «Le Ragioni narrative»,che durerà dal 1960 al 1961, vi sono Luigi Incoronato, Mario Pomilio, Michele Prisco, Domenico Rea, Leone Pacini-Savoj e Gianfranco Vené.^
24 Si pensa al Giornale di adolescenza [postumo, 2000], di Enzo Striano, Milano, Oscar Mondadori, 2012.^
25 GUF: sigla dei Gruppi Universitari Fascisti. Definizione del GUF secondo l’enciclopedia Treccani: «Organismo istituito nel 1927 alle dirette dipendenze del segretario del Partito Nazionale Fascista (PNF) con lo scopo di educare secondo la dottrina fascista la gioventù universitaria italiana e gli iscritti alle accademie militari; inquadrava i giovani dai 18 ai 28 anni e comprendeva anche sezioni femminili e di laureati. Svolsero attività sportiva e culturale che trovò caratteristica espressione agonistica nei littoriali (dello sport, della cultura e dell’arte)».^
26 Quindici in Piazza Plebiscito, in G. Percopo, S. Riccio, Società e cultura. La Campania dal Fascismo alla Repubblica, Luigi Compagnone, vol. II, Napoli, Regione Campania, 1977, p. 218.^
27 Per forma di parola: Stelio Maria Martini, dagli anni dell’avanguardia a Napoli ai labirinti verbali, a cura di Claudio Caserta e Maria Giovanna Sessa, Napoli, Guida Editori, 2001.^
28 M. Caprara, Il socialismo secondo Ghirelli e il totalitarismo di Togliatti, pubblicato su Il Giornale.it, 20 febbraio 2007: «Quando ci riunimmo nel 1943 a casa di Maurizio Barendson per fare il primo numero delle nostra rivista letteraria Latitudine […]».^
29 Intervista a Raffaele La Capria, intitolata Malaparte disse di lui (Giorgio Napolitano) che mantiene la calma pure nell’Apocalisse, pubblicata in «Il Messaggero», il 15 aprile 2013, “M.A”, estratto da p. 4 e p. 5.^
30 Ibid.^
31 Si pensa ad Antonio Gramsci, con il suo saggio Quaderni dal carcere [1948], Torino, Einaudi, 1975, in cui qualifica la Napoli del XVIII° secolo e di Giambattista Vico come «angoletto morto della storia», ossia il Regno di Napoli al di fuori del baricentro dell’Europa. S’interessa tra l’altro al ruolo degli intellettuali e alla questione meridionale, ottenendo un grande impatto nel mondo della politica, della cultura e della filosofia nell’Italia del secondo dopoguerra.^
32 Annuncio del progetto della rivista «Angelus Novus», nel 1922 di Walter Benjamin, che non giunse mai a pubblicazione: «La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca […]. Infatti: una rivista, la cui attualità non abbia pretese storiche non ha ragione di esistere».^
33 Parla il segretario di Togliatti, Massimo Caprara, amico-nemico del Presidente, «Il Tempo», rubrica Politica, 16 maggio 2006.^
34 Latitudine, Premessa, Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 1.^
35 Sulla situazione dell’Italia nel 1945, ci si può riferire, tra l’altro, alle opere seguenti: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza [1991], Torino, Bollati Boringhieri, 2006. G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007. E. Gentile, La grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, capitolo XIII «Dov’è l’Italia?», Roma-Bari, Laterza, 2006. G. Prezzolini, L’Italia finisce. Ecco quel che resta [1948], Milano, BUR Biblioteca Universitaria Rizzoli, 2003.^
36 M. Caprara, Latitudine della cultura, in «Latitudine», Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 3.^
37 Ibid.^
38 Nel suo saggio intitolato Saggio di legislazione sul pedantismo, pubblicato nel periodico «Il Caffè» [Giugno 1764- Maggio 1765], t. 1, f. XII, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, Alessandro Verri elenca i dodici comandamenti della ragione, rimedio al pedantismo: «III. Converrà cominciare le opere dove cominciano le idee chiare e precise. […] IV. Chiunque vorrà stampare alcuna sua opera dovrà sempre aver di mira d’instruire gli uomini, non di affogarli in un mare di erudizione o di sfoggiare tutte le sue cognizioni a luogo e fuor di luogo […]».^
39 Ivi, p. 4: «Dichiarammo in tal senso ognuno nella direzione dei propri limiti, la nostra fiducia nell’universale commercio dell’intelligenza [...] il superamento necessario dell’individualismo romantico in una esperienza complessiva su tutta la sfera degli interessi umani (e allora sul rovesciamento dello storicismo idealista), ove la cultura estenda ed integri il limite di speculazioni solitarie e salvi dal buio esistenziale con la proposta di un nuovo costume morale e politico».^
40 Ivi, p. 4: «Erano allora le nostre, prove assai caute per arrivare all’impegno più vero della cultura: alla sua missione educatrice, alla sua funzione di partecipare ed essere protagonista di ogni spettacolo di vita».^
41 Ivi, p. 5: « […] perciò iniziare od accrescere una nuova funzione sociale dell’intellettuale […] L’oggettività di un tale proposito noi lo dichiarammo implicitamente quando convenimmo sulla virtù politica della cultura […]una cultura finalmente sociale tornata nella mischia dei fatti concreti e collettivi […] sappiamo di tornare alla misura più alta dell’intellettuale […] proprio una rieducazione morale di noi stessi e di tutto. Perciò la cultura sarà invito a migliorarsi, certo non perentorio e didascalico, ma suggerito con i liberi mezzi dell’arte».^
42 Ivi, p. 3: «Tanto più è possibile una assistenza letteraria al fatto sociale quanto maggiormente si liberi l’immagine della letteratura dal semplice contraddittorio degli stili e dei fenomeni di gusto e si riporti la sua ragione nell’adesione ai piani della coscienza della nostra necessaria e richiesta complicità al fervore politico. Sicché il discorso, ad esempio, così avvertito e paziente di recente proposto sulla letteratura come vita[…]».^
43 Ivi, p. 4: «Appunto qui del resto era patente la constatazione sociale della letteratura per l’esperienza che essa compie delle strutture storiche di un periodo, […] una politica sottintesa costantemente come educazione ai problemi morali».^
44 Ibidem: «[…] l’essere sanati, come arrivare ad una tale responsabilità senza guarire dai nostri mali – e nella fattispecie sostituire con certezze oggettive le inquietudini colte dei singoli – senza sopportare o risolverne tutti i sintomi, i casi, i vizi aggravati […] la cura di lenire una ferita non chiusa».^
45 Referenza all’opera di R. La Capria, intitolata Ferito a morte [1961], Milano, Oscar Mondadori, 1998.^
46 Rimanda all’ideologia utilitarista e cosmopolita del periodico dell’Illuminismo milanese, «Il Caffè» [Giugno 1764 - Maggio 1765], il cui intento era quello di istruire e educare un pubblico allargato, divertendolo allo stesso tempo: «Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie […] tutte dirette alla pubblica utilità», in Introduzione, Pietro Verri, p. 11, in Il Caffè, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1993. Il giornalista, da filosofo e intellettuale virtuoso e disinteressato, deve avere come unica preoccupazione il bene dell’umanità. La lingua usata dai suoi redattori, tra cui Pietro e Alessandro Verri o Cesare Beccaria, chiara e moderna, contrastanti con le solite convenzioni linguistiche in vigore in Italia, permise a«Il Caffè» non solo di essere un vero laboratorio d’idee, bensì d’esperimento linguistico e letterario.^
47 Intervista sull’intellettuale, Eugenio Garin, a cura di M. Ajello, Roma-Bari Laterza, 1997, p. 38: «Su questo insisto: non c’è mai stata una cultura fascista; ci fu invece una cultura italiana “sotto il fascismo”».^
48 Sapere storico» e transizione. Il percorso di Eugenio Garin, P. Girard, in La vie intellectuelle entre fascisme et République, 1940-1948, pubblicato sulla rivista «Laboratoire italien, Politique et société», 2. Parcours, n° 12/2012, Lyon, ENS Editions. Consultabile su http: //laboratoireitalien.revues.org/659.^
49 Colloqui con Eugenio Garin. Un intellettuale del Novecento, R. Cassigioli editore, Firenze, Le Lettere, 1999, p. 22.^
50 «Un itinerario intellettuale. Sessant’anni dopo. Gli uomini e le idee. Dall’incontro giovanile con la filosofia agli interessi storici e filologici, agli studi sul Rinascimento italiano», articolo autobiografico d’Eugenio Garin, pubblicato nella rivista «Iride» n. 2, Lucca, Editore Pacini-Fazzi, 1989, p. 142, e in appendice al libro La filosofia come sapere storico, Roma-Bari, Laterza, 1990.^
51 L’Italia rappresentò per Sartre, negli anni ’30, un paese prediletto per viaggi, specialmente Roma, Venezia, Napoli e Capri, nel corso dei quali incontrò scrittori come Alberto Moravia, Carlo Levi, Elio Vittorini, o figure come il segretario generale del PCI, Palmiro Togliatti. Particolarmente interessante fu il suo viaggio a Napoli, di cui parla nella sua opera Situations, II [settembre 1944-dicembre 1946], Jean-Paul Sartre, Paris, nrf Gallimard, 2012.^
52 Considerazioni di dialettica materialista, Max Raphaël, p. 9: «[…] il materialismo storico deve essere sviluppato in dialettica materialista, per essere realizzato nelle scienze morali […]».^
53 Ivi,p. 8: «Il filosofo tradizionale […] contesta al marxismo il suo carattere filosofico col pretesto che esso esclude definitivamente le questioni metafisiche».^
54 Ibid.: «È falso affermare che Marx crede a una dialettica che gli sarebbe stata lasciata da Hegel».^
55 Alcuni studi recenti si sono interessati al pensiero di Gramsci, cercando di non ridurlo a un martire del fascismo o ad un filosofo marxista. Si tratta di Introduction à Antonio Gramsci, di George Hoare e Nathan Sperber, Paris, La Découverte, coll. «Repères», 2013: «Dans ce contexte, l’intellectuel ne doit pas être considéré comme une figure particulière (clerc, philosophe, etc.) qui devise des affaires du monde, mais comme un acteur social engagé dans la production et la diffusion du savoir dans la société. […] Pour Gramsci, il ne fait bien-sûr aucun doute que l’intellectuel doit se mêler activement à la vie pratique et devenir ce «persuadeur permanent» qui informe le prolétariat de sa mission historique. Cette conception originale de la culture doit être rattachée à sa pensée du politique».^
56 Il nome di Lucrezio va sicuramente interpretato come una provocazione, in quanto poeta filosofo latino originario di Napoli, del I secolo avanti Cristo, maledetto, il cui pensiero materialistico si riferisce ad un modello di libertà della cultura (“libertas filosofandi”). La sua opera più famosa, De rerum natura, è un lungo poema appassionato che descrive il mondo secondo i principi di Epicurio.^
57 Intervista allo scrittore Raffaele La Capria, Virginie Vallet, Roma, settembre 2015 (non pubblicata).^
58 Sentimento del tempo. Orientarsi, Lucrezio, p. 10: «Nasce dal racconto di ieri e degli altri ogni nostra parola di oggi».^
59 Ivi., p. 10: «Per noi di questa terra isolata, tutto ha sapore di dubbio, perché avemmo in casa i topi dannunziani delle vuote parole».^
60 Ibid.: «Se a noi mancò la forza e il coraggio della violenza sovversiva, a tutti gli altri mancò spaventosamente almeno la consapevolezza dell’errore, il fanatismo almeno della causa bastarda».^
61 Ibid.: «Ora vorremmo che uomini nuovi nascessero nei quarantacinque milioni di morti […] Nasce su questa speranza la nostra apertura di orizzonte».^
62 Pseudonimo di Noël Matthieu.^
63 Documenti per una poesia europea, introduzione di M. Caprara e R. La Capria, in «Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 11: «Proprio perché noi pensiamo che la migliore smentita alle accuse di oscura letterarietà sia data da queste pagine poetiche, così fiduciose, così necessarie per tutti e chiarificatrici di comuni sentimenti».^
64 Ivi, p. 11: «Appunto con Eluard la poesia torna a vivere fra gli uomini, senza esserne sopraffatta, fraternamente partecipe ad ogni speranza o caduta: con lui la poesia è un diverso atto di solidarietà. (Ricordiamo utilmente una sua affermazione: “La poésie ne se fera chair et sangqu’à partir du moment où elle sera réciproque”)».^
65 L’ultima notte, poesia di Paul Eluard (da «Poésie et Vérité», 1942), in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 11: «Questo piccolo mondo assassino / s’accanisce contro l’innocente / […] e gli arma di fuoco la mano / gli prende la vita ed i figli /confonde i morti e i vivi […] e tocca alle folle di coprire di terra la sua carne sanguinante e l’occhio suo nero […]».^
66 Ivi, p. 12: «Gettiamo nel fuoco queste fasce di tenebra / Spezziamo le catene dell’ingiustizia, arruginite […] Perché dilegua il nemico che si scopre nell’uomo».^
67 Poesia, di Pierre Emmanuel, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 12: «[…] Così quando sembrano morte / le virtù d’un suolo ormai vecchio / un albero giovane con tutta la forza / le libera in una gloria disperata / (sicuro di non sperare / che al suo più alto futuro) […]».^
68 Fiamme fumose, poesia di Spartaco Galdo, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 19: «Poi che in fiamme fumose / i begli anni turbati ci lasciarono / ad uno ad uno i giorni della nostra / vita ci traemmo in mente […] Nulla placherà mai la nostra sete, / pensammo, se non il cielo stellato, / la nostalgia di lontani orizzonti […]».^
69 «Tommaso Giglio, il diritto alla disperazione», in Napolitan Graffiti, Come eravamo, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 177-178: «Tommaso Giglio quando lo conobbi alla redazione di «Sud»mi sembrò subito un tipo molto particolare. […] Ed era imprevedibile – come definirlo? – triste-allegro, cordiale-scostante, assente-presente, insomma un ossimoro vivente, e credo lo sia stato per tutta la vita.[…] Ma era soprattutto un poeta […] Ricordo un verso che mi si è impresso perché in esso si concentra per una misteriosa alchimia della memoria tutto quello che di lui mi rimane. […]: Le fòlaghe che vòlano sull’àcque… A me basta pronunciarlo calcando bene sugli accenti che ne segnano la musicalità, ed ecco che mi riappare Tommaso, […]. A pensarci bene quel suo diritto alla disperazione era un segnale […]».^
70 Poesia di Tommaso Giglio, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 26: «vanno più veloci, più vive[…] / Le barche sono lente, i rematori hanno poco vigore. […] / ora è meglio viaggiare veloci, e urlare, e dare forza ai remi».^
71 Ivi, p. 26: «e andare incontro a una profonda pace / come a un’alta vittoria».^
72 Messaggio della letteratura americana, Luigi Compagnone, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 13.^
73 Ibid.^
74 Ibid.^
75 Ivi, p. 15.^
76 Ibid.^
77 Ivi, p. 14.^
78 Ivi, p. 15.^
79 Ivi, p. 14: «[…] il commercio con le parole diventa, per Anderson, qualcosa di definitivo e di esatto. (“Le parole sono cose delicate che conducono alla poesia, o sono menzogne”). Poesia, in questo caso, significa appunto ricercare e ricreare un ordine dove prima era confusione e pericolo».^
80 Ivi, p. 15.^
81 G. Patroni Griffi, Scende giù per Toledo, Milano, Garzanti Libri, 1975 (prima edizione).^
82 Intervista allo scrittore Raffaele La Capria, Virginie Vallet, Roma, settembre 2015 (non pubblicata).^
83 «Patroni Griffi, l’irregolare», in Napolitan Graffiti, Come eravamo, Milano, Rizzoli, 1998, p. 190-191: «Patroni Griffi è stato sempre un po’ fuori dall’ambiente letterario, è un uomo di spettacolo, un applaudito regista teatrale, cinematografo televisivo, e commediografo di successo, ma come narratore è un irregolare, irregolare come i suoi libri […]».^
84 Ivi, pp. 191-197.^
85 Ivi, pp. 191-193.^
86 La grande stagione, racconto di G. Patroni Griffi, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 16: «Ormai s’erano abituati a vederla ogni giorno messa lì e immobile quanto più il sole imperversava, con le labbra schiuse e la carne in estasi».^
87 Transverberazione di Santa Teresa d’Avila (1647-1652), scultura marmorea di Gian Lorenzo Bernini, posta nella Chiesa di Santa Teresa d’Avila, a Roma.^
88 La grande stagione, racconto di G. Patroni Griffi, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 18: «Ormai la calura, e il grano, e l’accechìo delle giornate, avevano fatta l’estate in lei e la memoria di Agostino si confondeva nel sole della grande stagione. […] ella aveva detto di essere incinta del sole. Nessuno vi credette. Ma se ne convinsero quando videro che anche il grano era venuto sù grosso così come non mai il sole lo aveva fatto».^
89 Il mondo, William Saroyan,in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 20.^
90 Intervista allo scrittore Raffaele La Capria, VirginieVallet, Roma, settembre 2015 (non pubblicata).^
91 Il mondo, William Saroyan, in «Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 20: «Solo per chi è stato povero, solo per chi sta soccombendo, il mondo è veramente il mondo. Solo per lui il mondo è vero. Vero, fratello. […] Quel mondo che è te, fratello».^
92 Ivi, p. 21: «Se povero e solo sei stato in qualche città del mondo, avrai conosciuto certo la bellezza del luogo e la terribile realtà della vita, […] Volti di affamati e di persone ben nutrite, volti patiti e volti sereni. Volti di morti e volti di vivi».^
93 Ivi, pp. 20-21: «E se non sei mai stato povero e mai solo per soccombere, ti dirò fratello che mai tu sei nato, […]; non sarà stato niente – Polvere che ritorna polvere – e quel che segue. Ma non potrà dirsi certo che stai per morire perché non può cessare di essere qualcosa chi mai niente è stato; e la tua morte continuando tu ad esser niente, niente sarà. Un’altra qualità di niente».^
94 Ivi, p. 20: «“Break down the stupid structure language and make it life”: Abbatti le stupide strutture del linguaggio e fallo vivere. Questa in fondo la sua poetica che non è nuova […]».^
95 M. Caprara, Significato del dipingere, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 23: «Nemmeno la pittura, ad ogni modo, può continuare ad essere un’impressione privata o leggera che sfiora appena gli oggetti, una imitazione delle cose perpetrata con i pennelli spuntiti dall’abitudine».^
96 Ivi, p. 23.^
97 Ivi, p. 24.^
98 Gianni Scognamiglio, il maledetto, in Napolitan Graffiti, Come eravamo, Milano, Rizzoli, 1998, p. 172: «Soffriva di nervi, era perseguitato sin da allora da incubi, sogni, ossessioni, che più tardi, quando peggiorarono, si impossessarono di lui e lo trascinarono in crisi di follia sempre più frequenti, fino al naufragio finale…».^
99 Ivi, pp. 172-173.^
100 Note sulla musica contemporanea, Gianni Scognamiglio, in Latitudine, Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 25: «Fuori d’ogni assillo interiore pure significa una problematicità in un positivo risentimento della vita. Quel ripudio d’un’attiva metafisica uno stupefatto dolore d’impossibilità incolpevole alla diretta comunicazione con gli uomini. La salvezza è allora nei primordi riconquistati del suono ove si riflette nella frigidità cristallina d’un impulso musicale insopprimibile nella sua purità l’attesa d’un avvento solare negli uomini che li conduca alla musica come ad uno spettacolo naturale del loro sangue e della loro quotidianeità ricomposta».^
101 Gianni Scognamiglio, il maledetto, in Napolitan Graffiti, Come eravamo, Milano, Rizzoli, 1998, p. 171: «Di lui, della sua breve dolorosa vita, nulla è rimasto, tranne i pochi versi e i pochi articoli publicati su “Sud” […] e la cosa più evidente quando si presentava era la sua estrema povertà e l’eleganza trascurata con cui la portava».^
102 Lettera del 26 febbraio 1945, scritta a Napoli, da Giorgio Napolitano al suo padrino di cresima, pubblicata il 26 febbraio 2012 nel giornale «La Repubblica», sezione Napoli, in un articolo intitolato Giorgio Napolitano, sogni di ventenne.^
103 Premessa ad un rinnovamento del teatro, Giorgio Napolitano, in «Latitudine», Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, pp. 27-29.^
104 Storicità del film, Maurizio Barendson, in«Latitudine», Massimo Caprara, Napoli, Casa Editrice Rossi, gennaio 1944, p. 30.^
105 Ivi, p. 30: «[…] il film fu vittima degli interessi economici e spirituali della borghesia. […] ricorda la lunga pena che la settima arte ha scontato per anni nel caos politico d’Italia, con una rinunzia all’impegno quasi assoluta».^
106 Ibid.: «Il pubblico fungeva allora da diagramma della moralità nazionale nello squallore di un malcelato regime di reazione; […] e da noi giovani stessi si mostrava apertamente il coincidere della putrefazione del nostro cinema con la dispersione di coscienza in atto nella società italiana».^
107 Ibid.: «alcune voci parlarono in nome di una individuale onestà sociale, di una intelligenza ancora viva, e dei nuovi apparvero […]. Si trattava insomma di una partecipazione di intelligenze apolitiche, non astoriche».^
108 Ibid.^
109 Ibid.^
110 Ivi, p. 31.^
111 Ivi, p. 32.^
112 Ibid.: «[…] ci deriva l’avvio a una considerazione del cinema totalmente europea, ad una sua funzionalità educativa, che per educazione intenda non violenza di persuasione ma espressa comunicazione di verità morali: un reciproco aperto aderire di intelligenze rivoluzionarie intente alla stessa ricerca teorica e alla definizione degli uguali interessi che la storia presuppone ed esige per affidare il suo corso ad una prassi autentica di umano progredire».^
113 Ibid.: «Da una ideale sintesi storica e da una estetica educazione di pittura e di scrittura, di musica e di vitale moralità, sorgeranno i nuovi poeti del cinematografo, esseri che sentano l’urgenza di guardare la propria società con l’occhio partecipe ed onesto di chi intuisce perché sa comprendere e soffrire».^
114 Considerando le condizioni della plebe meridionale come effetto di un processo storico, e non naturale, Carlo Levi, con Cristo si è fermato a Eboli [1945], Torino, Einaudi, 1963, mette in pratica la nascita di una coscienza storica, che porta ad un’analisi della questione meridionale. Esiste l’avvertimento di uno “stato di cose” (“sachverhalt”) come conseguenza dell’intervento umano (o della sua omissione), alla base di una coscienza storica.^
115 Queste notizie sulla rivista e sugli obiettivi dei suoi redattori mi sono state date da Raffaele La Capria, durante un’intervista svoltasi nel settembre del 2015, VirginieVallet, Roma (non pubblicata).^
116 Intervista al Professor Giuseppe Galasso, Virginie Vallet, Napoli, ottobre 2015 (non pubblicata).^
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