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Ancora a proposito dell'unità Europea
di G. G.
L’incontro trilaterale di Ventotene – Italia, Francia, Germania – sui problemi e le prospettive dell’Unione Europea avrà effetti concreti sul futuro della stessa Unione? È, naturalmente, troppo presto per dirlo. Si vedrà poi già nel round europeo di Bratislava che cosa ne possa venire fuori nell’immediato. A più lunga scadenza è difficile dirlo non solo per le molte variabili che al riguardo interferiscono all’interno dell’Unione, ma anche, e – ben si può dire, oggi – ancor più, per quelle che vi interferiscono dall’esterno, potenzialmente più imprevedibili, sconvolgenti e determinanti e, soprattutto, molto meno condizionabili da parte europea.
Se si sta a una prima, plausibile impressione sulla base delle dichiarazioni e dei discorsi ufficiali degli intervenuti e ai resoconti dei media, si direbbe che ancora una volta l’incontro dei tre capi di governo convenuti nell’isola pontina si è concluso con una dichiarazione di buoni propositi e di sagge riflessioni. E, tuttavia, con varianti, rispetto al solito, che meritano di essere sottolineate.
Innanzitutto, ha un certo valore non soltanto ideale il fatto che l’incontro sia avvenuto a Ventotene in esplicito omaggio alla memoria di Altiero Spinelli, che in quell’isola – come a tutti è ben noto – fu confinato dal regime fascista e che lì, insieme con Ernesto Rossi, e con la collaborazione di Eugenio Colorni e di Ursula Hirschmann, scrisse nei primi anni ’40 del ’900 il famoso “manifesto” che auspicava l’unione federale dell’Europa e una forza politica da costituire per portare ad effetto quell’auspicio. A quel “manifesto” si è preso da tempo ad attribuire in Italia il valore di atto fondativo della politica europeistica che dopo la seconda guerra mondiale ha caratterizzato la storia del vecchio continente, dapprima nella sua parte occidentale e poi molto più ampiamente. Questo valore fondativo è largamente discutibile. L’idea di una un’unione europea risale molto più indietro nel tempo, e dopo la prima guerra mondiale si fecero anche passi concreti che sembrarono avviare l’idea a qualche, sia pur molto indiretto, effetto. Basti pensare agli accordi Briand-Stresemann per un’intesa che andasse oltre la plurisecolare conflittualità fra quei due grandi paesi. Dopo la seconda guerra mondiale l’idea rinacque, e questa volta vi fu un effettivo, e anche rapido, passaggio ai fatti.
La CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) segnò, a questo riguardo, un passo decisivo, il primo autentico sbocciare del fiore europeistico, il passaggio dalla vita pre-natale alla vita neo-natale di un progetto europeo finalmente concreto e – soprattutto – all’apparenza limitato, settoriale, ma in realtà di grandissima intelligenza politica e strategica. Fu la generazione politica europea degli Adenauer, dei Bidault, Schumann e Monnet, degli Spaak, dei De Gasperi, Carlo Sforza, Luigi Einaudi, Giuseppe Saragat, a realizzare questo passo. Il “manifesto” di Ventotene non c’entrava molto. Ben pochi allora lo conoscevano, e ancora di meno erano nel mondo politico europeo coloro che ne potevano aver ritratto una effettiva suggestione per la loro azione. Quel mondo politico agì sotto l’impulso, da un lato, di una tradizione federalistica europea che risaliva in vario modo all’epoca post-napoleonica e che si era via via accentuata fino a raggiungere una certa maturità nell’Europa di dopo la guerra del 1914-1918; e sotto l’impulso, dall’altro lato, e con maggiore forza e una molto più determinante sollecitazione, di una realistica, coraggiosa valutazione di ciò che la seconda guerra mondiale aveva significato per la posizione dell’Europa (l’Europa occidentale, in particolare: la “piccola Europa carolingia” della CECA) nel mondo e per le sue prospettive storico-politiche a lungo e a breve termine.
La collocazione del recente incontro italo-franco-germanico a Ventotene riveste, tuttavia, una sua carica ideale e, quindi, in prospettiva e sul piano programmatico, anche una sua valenza politica, che il riferimento a Spinelli e al “manifesto” legato al suo nome e a quell’isola rende del tutto esplicito. Si tratta, infatti, di un invito a parlare dei problemi dell’Europa di oggi e di domani avendo in mente un disegno politico complessivo e di grande respiro come quello che Spinelli e il “manifesto” proponevano.
Era il disegno di un vero Stato federale, con tutta la robusta ed efficiente struttura di un tale tipo di Stato, che davvero trascenda il livello finora di fatto insuperato dello Stato nazionale, senza, però, affatto sopprimere o rinnegare i profondi, irrinunciabili valori della nazionalità. La quale nazionalità rimane – checché ne pensino i tanti intellettuali del pentimento e della penitenza, della contrizione e della rinunzia, dell’abiura e del rinnegamento europeo – una delle maggiori costruzioni etico-politiche dell’Europa moderna, non inferiore a nessuna esperienza del passato europeo, dalla polis ellenica alle varie idee di impero e di monarchia o repubblica susseguitesi nella sua storia. Un elemento storico, insomma, dal quale non è facile e non è consigliabile prescindere. Si può, anzi, non troppo arbitrariamente ritenere che una ragione di fondo del così poco soddisfacente grado di realizzazione del disegno di una “vera” unione europea stia proprio nell’aver trascurato o minimizzato la considerazione di tale elemento storico; nell’aver ritenuto, ben più di quanto fosse fondato e necessario, che
nazione e nazionale significassero soltanto un arco stratificato di vecchie, superate e pericolose emozioni e convinzioni o, ancor più, e ancora peggio, null’altro che una formidabile, avversa coalizione di grandi e piccoli interessi materiali.
Tutt’altro discorso è se questo validissimo richiamo a Spinelli e al suo orientamento federalistico si sia poi tradotto in elemento di fatto in materia di decisioni e accordi degli intervenuti a Ventotene. Abbiamo avuto l’impressione che i discorsi iniziali di Renzi siano stati quelli più aperti e vicini in tal senso.
Poi l’incontro sembra aver mutato, senza neppure dirlo, ispirazione e contenuti, ricadendo appieno nei consueti discorsi sulla sicurezza e i migranti, la crescita e l’austerità, le regole e la flessibilità, la Brexit e i suoi effetti da auspicare o da prevenire. E, però, abbiamo avuto anche l’impressione, che non va taciuta, di una redistribuzione in corso del potere decisionale nell’attuale Unione per effetto, appunto, della fuoruscita britannica. In pratica: un accrescimento del potere germanico di condizionamento, se non di decisione, e per effetto non solo della Brexit, bensì anche di un appannarsi della capacità di presenza e influenza francese in questa coda della presidenza Hollande. Congiunta a ciò: l’impressione del determinarsi di una condizione di fatto che potrebbe rendere più influente la presenza italiana nei consigli e negli organi europei, a patto che si sappia gestire questo ruolo senza esagerare in attese e pretese e, invece, sostenendo cause e soluzioni forti, ma concrete e largamente partecipabili (e anche – sia detto per inciso – senza cedimenti inverosimili come quello che ha portato al difficilmente qualificabile accordo con l’Olanda per la spartizione temporale del seggio nel Consiglio di sicurezza dell’ONU).
Sono impressioni. A Bratislava si vedrà quanto fondate. Per l’Europa si può invece dire fin d’ora che appare ancora molto difficile che a breve scadenza si abbia quella cessione di una quota consistente dei poteri sovrani degli Stati membri (dalle armi alla diplomazia, alla finanza e alla giustizia) che sola può rendere l’Unione un vero Stato federale. A meno che, naturalmente, a Bratislava non si abbia un miracolo. Se lo si avesse, significherebbe che la maturazione di una grande coscienza europeistica nella classe politica europea è andata molto più avanti di quanto si riesca a vedere. Significherebbe, ancor più, che quella classe politica europea avverte nell’opinione europea un’analoga maturazione o che si sente in grado di forzarla e favorirne una definitiva prevalenza.
Non osiamo sperarlo. Sappiamo solo che, senza le cessioni di cui abbiamo parlato, di Europa federale sarà realistico parlare con grande, realistica parsimonia.
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