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Croce e la Defence of Poetry di Shelley
di Vincenzo Pepe
Il 17 ottobre 1933, al Magdalen College di Oxford, davanti a “molto pubblico” che seguiva le sue parole avendo sotto gli occhi la traduzione inglese delle stesse, Croce tenne la conferenza “Variazioni intorno alla Difesa della poesia dello Shelley”. Come si ricorderà, con questo piccolo saggio, scritto poco prima della sua morte ma pubblicato postumo (1840), il poeta inglese aveva inteso rintuzzare la tesi dell’“inutilità” della poesia, che il suo amico scrittore Thomas Love Peacock, per improvvisa entusiastica adesione al verbo utilitarista e scientista, aveva avuto l’“improntitudine” di sostenere nel suo scritto The Four Ages of Poetry.
Dell’operetta shelleyana Croce si era già occupato nell’Estetica, dove l’aveva definita sinteticamente “forse la più notevole tra le scritture estetiche inglesi di questo tempo […] contenente vedute profonde, sebbene poco sistematiche, sulla distinzione tra ragione e immaginazione, prosa e poesia, sul linguaggio primitivo e sulla potenza dell’oggettivazione poetica, la quale rinchiude e serba «il ricordo dei momenti migliori e più felici delle migliori e più felici anime»”1. Ma se ora, a distanza di trent’anni, la sceglieva come tema della conferenza al Magdalen, non era certo solo per presentarne una analisi più esaustiva, o per sottolinearne la rilevanza come opera di teoria letteraria. L’uditorio del Magdalen quell’operetta la conosceva, e conosceva anche il pensiero del filosofo napoletano conferenziere. Non era difatti la prima volta che Croce veniva invitato in quel college. Vi era stato nel 1923, per esservi insignito della laurea honoris causa; e nel 1930, per intervenire al congresso internazionale di filosofia con la conferenza “Antistoricismo”2. Questi inviti, poi, erano a loro volta l’effetto di una stima e popolarità che il filosofo si era guadagnato in Inghilterra già all’inizio del Novecento. Al 1912 risalgono difatti i primi contatti epistolari del filosofo con il Collingwood, che nel 1913 firmò la traduzione inglese de La filosofia di Giambattista Vico. E a più antica data risaliva anche la scoperta di Croce da parte del maestro di Collingwood, il filosofo J. A. Smith. Per avere anzi un’idea di quanto le idee crociane fossero penetrate molto per tempo nella cittadella del Magdalen, bisogna riflettere su un passo del volumetto The Nature of Art: an Open Letter to the Professor of Poetry (1924) proprio dello Smith. In quest’opera, dopo aver criticato la pratica didattica in auge a Oxford, che, insistendo sugli elementi spurii ed estrinseci della poesia, pretende di giudicare di poesia senza una teoria della poesia, l’autore dichiara di possedere la giusta teoria della poesia, che lui ha appreso da Croce, “di cui si onora di essere interprete e discepolo”. Può darsi, come sostiene il Mure, che forse l’entusiasmo attorno alla figura e all’opera di Croce nei paesi anglosassoni in questi anni si sosteneva su una difettosa conoscenza della sua opera dovuta a “lamentably incompetent versions of his major works”3; sia come sia, fino ai tempi di questo terzo invito, ma anche oltre, per molti dei pensatori e filosofi di Oxford di formazione e/o di orientamento storicistico, il nome di Croce evocava la figura di una guida spirituale, di un maestro. Come ricorda in proposito uno studioso della storia del Magdalen nella prima metà del Novecento, “per Collingwood, Webb, Smith, l’appello a Croce era un appello a un’autorità canonica continentale che si elevava al di sopra delle guerre epistemologiche di Oxford, e i cui scritti rimarcavano l’unità dello spirito europeo, l’importanza della storia come forma di conoscenza, e la fecondità della tradizione metafisica”4.
E al “maestro insigne” ci si rivolgeva anche ora, con questo invito del 1933, che, come gli si spiegava nella lettera ufficiale, si inseriva nel programma di conferenze annuali “Philip Maurice Deneke” finanziato da “una benefattrice cospicua, per lo scopo di promuovere una conoscenza più sviluppata del pensiero moderno dell’Europa in materia di filosofia, di storia e di letteratura”. Di questo sviluppo del pensiero moderno la conferenza che Croce veniva invitato a tenere al Magdalen doveva “illustrare” il ruolo specifico giocato dall’Italia5.
La decisione di accettare fu pressoché repentina, perché all’invito, datato 9 febbraio 1933, il filosofo rispose il 24 dello stesso mese. Egli precisa che la conferenza “dovrà essere in italiano”, perché pur conoscendo l’inglese come il tedesco, non si sente in grado di parlarlo”, e aggiunge di “aver già pensato al tema da trattare”, e che di lì a qualche giorno farà conoscere anche i dettagli6.
L’alacrità di Croce, soprattutto del Croce “sessagenario e settuagenario degli anni Trenta”7 era, come si sa, un aspetto sbalorditivo del suo carattere; ma questa volta la sollecitudine era dovuta anche a qualcos’altro.
Era, innanzitutto, una reazione allo stato depressivo di cui soffriva da tempo, e dal quale sentiva gravemente minacciata la sua operosità. Come i Taccuini di lavoro non mancano di documentare, questo stato di sofferenza, da tempo latente nel suo spirito, si era aggravato proprio all’inizio di quel 1933. Il 12 gennaio di quell’anno, infatti, egli annota di “avere per parecchie ore oziato, durandomi da circa un mese depressione e tristezza”. Egli cerca di minimizzare, ipotizzando che i suoi mali possano essere una conseguenza di un’influenza; ma una successiva annotazione del 4 febbraio, e cioè di pochi giorni prima della ricezione dell’invito a Oxford, presenta una situazione scoraggiante, perché il filosofo confessa di essere preda ormai di “tristezza e cupio dissolvi”! Né la situazione migliora nei giorni successivi, come si apprende da una lettera al Laterza dell’11 febbraio (nella quale il filosofo scrive di essere “sempre oppresso da tristezza, dalla quale non riesce a scuotersi”), e dalla annotazione dei Taccuini, in data 6 marzo, nella quale dichiara di “non essere ancora libero dalla tetraggine”. L’angoscia di Croce, nella quale si rifletteva quella di un’epoca “i cui destini apparivano sempre più quelli di un grande naufragio, di un grande spaesamento” 8, andava ovviamente di pari passo con il progressivo tralignamento della situazione politico/istituzionale italiana, e registrava impennate in concomitanza degli attacchi di cui lui e la sua opera erano fatti oggetto dalla sistematica campagna diffamatoria orchestrata ai suoi danni dal regime fascista. Indicativa in tal senso è l’annotazione affidata ai Taccuini in data 15 marzo: “Nella cosiddetta camera dei deputati”, egli scrive, “si è fatta un’altra chiassata contro il mio manifesto del 1925, che il cosiddetto ministro della cosiddetta educazione nazionale ha definito, temperando, un «triste documento di insania e di protervia»”.
Sono anni terribili questi per Croce; anni, come ci ricorda Gennaro Sasso, in cui la solitudine del filosofo “si fa in particolar modo cupa e profonda” in corrispondenza dell’estensione del «consenso» che il fascismo ottenne in Italia”9.
Ma, per quanto gravi, l’isolamento e lo stato depressivo non potevano scalfire in lui la fibra del lottatore. La conferenza di Oxford rappresentò per lui un’inattesa opportunità di scendere in campo contro detrattori e avversari, e mostrare all’opinione pubblica internazionale la lucidità del suo pensiero e la vitalità della sua lezione. Ragioni strategiche sono forse dunque alla base della sua accettazione di questo terzo invito; ma ragioni strategiche sono anche alla base della scelta del tema, e dell’angolazione dalla quale egli rilegge la Defence. L’analisi di quest’opera viene ora condotta non solo sul piano della teoria estetica, ma anche, e soprattutto, su quello dell’impegno civile. Come ha recentemente osservato una studiosa della ricezione di Shelley in Italia tra le due guerre, il discorso di Croce sulla Defence è quello di “un intellettuale profondamente preoccupato della situazione politica italiana”10.
Discutendo della “difesa” della poesia dello Shelley, insomma, Croce difende la sua visione della poesia e, nello stesso tempo, pone in risalto le qualità di un saggio che, scritto per denunciare in nome della poesia i guasti sociali e morali prodotti in Inghilterra dall’incipiente rivoluzione industriale, diventa una cartina di tornasole che fa luce, attraverso allusioni e riferimenti più o meno espliciti, al corrompimento delle istituzioni politiche e alla deriva spirituale prodotta dal regime mussoliniano. Questo gioco di corrispondenze è particolarmente evidente nelle riflessioni che il poeta e il filosofo dedicano alla poesia come risorsa imprescindibile nei periodi di decadimento spirituale.
“Il fine della corruzione sociale – aveva scritto Shelley – è di ammortare tutta la sensibilità, ed è corruzione proprio in questo senso. Essa attacca principalmente l’immaginazione e l’intelletto, per diffondersi come veleno paralizzante agli affetti e alle stesse passioni, per diventare, alfine, una massa inerte. È con l’annuncio di tali periodi che la poesia fa appello a quelle facoltà che sono le ultime a morire…La poesia…è pur sempre la luce della vita, la sorgente di quanto di bello, generoso e vero possa esistere in un periodo di corruzione”.
Croce utilizza lo stesso schema, ma articolando e puntualizzando il discorso in modo che all’uditorio oxoniense arrivi un messaggio inequivocabile su ciò che sta succedendo in Italia, dove

La scienza suscita interessamento solo per quel che può largire di nuovi mezzi pratici; la filosofia, quando si presta a ornare di sofismi e di artificiose formale e di vergognose menzogne le mire particolari delle classi, dei governi, delle nazioni; l’arte, quando accompagna la pochezza mentale e spirituale dei lettori e degli spettatori con la vuota scenografia e le chiassose figurazioni, o con la delusoria promessa di nuove e strane sensazioni. La vecchia religione si viene dispogliando di quel che ancora serbava di rispettabilità e, come istituto pratico, traffica con le dominazioni terrene, rendendo servigi, accettando mance e strappando vantaggi materiali…

Anche per lui, così come per lo Shelley, in una situazione di tale avvilimento morale una delle risorse è rappresentata dal culto della poesia

In una società così tecnicamente perfezionata e così rozza spiritualmente quale sollievo apporterebbe, quale ampiezza di respiro, quale nuova lietezza, una fresca corrente di poesia…che facesse riamare l’amore e la bontà il disdegno per ciò che è turpe, vile e volgare; riaprisse il cuore alla speranza, alla gioia, al virile dolore, al pianto che è lavacro, al riso schietto che purifica; al riso che oggi squilla così di rado, soverchiato dalla sconcia risata, dall’arida ironia, e dal sogghigno11!

Né è solo nella sintomatologia che la situazione inglese e quella italiana si possono sovrapporre, perché il poeta e il filosofo concordano anche sull’eziologia del male.
Per Shelley, come si ricorderà, responsabile dell’ottundimento delle coscienze e dell’indebolimento della facoltà di sentire che è alla base, simultaneamente, del fare poetico e della solidarietà sociale, è effetto della pletora di oggetti immessi sul mercato dalla logica del libro mastro e del Conto profitti e perdite. In più parti della sua operetta egli insiste sul concetto della sproporzione tra quantità di beni di consumo e capacità dell’anima umana di digerirli. Non a caso egli parla di “eccesso della spinta egoistica, e della logica computazionale”; di “accumulazione dei materiali della vita esteriore che supera la capacità di assimilarli alle leggi interne della natura umana: quando il corpo è diventato troppo sordo alle sollecitazioni di ciò che lo anima”12; e non a caso identifica nell’ “esorbitante numero di conoscenze scientifiche o economiche, o di processi ragionieristici” la causa per la quale “le scoperte che avrebbero dovuto alleggerire il fardello della maledizione di Adamo hanno finito per renderlo più oneroso”13. Concetto che viene ribadito in tutta la sua drammatica verità, ed attualità, dalla domanda che il poeta si pone in uno dei passaggi più significativi della sua Defence:

A cosa si deve imputare la profluvie di misure intese a parcellizzare e ad organizzare la forza lavoro, al punto da inasprire le disuguaglianze tra gli uomini, se non al culto delle arti meccaniche in una misura sproporzionata rispetto alla facoltà creatrice che è alla base di ogni conoscienza?

Anche Croce è convinto che alla base dei mali morali e spirituali ci sia l’ottundimento delle coscienze prodotto dal perseguimento esclusivo ed in misura esagerata dei valori materiali. Significativamente il concetto è espresso ancora prima che nella conferenza, nella corrispondenza privata. In una lettera del 24 giugno del 1933 a Charles Beard, presidente dell’American Historical Association, egli ricorda difatti che “negli anni che stiamo vivendo c’è nel mondo un generale abbattimento dei valori ideali e morali, un soverchiare di quelli che si dicono materiali, e che sono poi di carattere economico, e, in questo sconvolgimento della gerarchia spirituale, una spasmodica agitazione e un nero pessimismo”14.
Il dialogo con Shelley non inizia, e non si conclude, con l’episodio della conferenza oxoniense del 1933. Già si è accennato alla considerazione che l’operetta riceve dal filosofo nell’Estetica. Al riguardo si potrebbe aggiungere che forse non si va molto lontano dal vero se si ipotizza una presenza di echi della Defence addirittura nel fraseggio iniziale della stessa Estetica. Si pensi, per esempio, alla serie di distinzioni che aprono la trattazione in Croce:

La conoscenza ha due forme; è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice di immagini o produttrice di concetti.

Se la si confronta con quelle operate dallo Shelley in apertura della sua Difesa:

According to one mode of regarding those two classes of mental action which are called reason and imagination, the former may be considered as mind contemplating the relations borne by one thought to another; and the latter, as mind acting upon those thoughts so as to colour them with its own light […]. The one is the to poiein, or the principle of synthesis…the other is the to logizein, or prjnciple of analysis…Poetry, in a general sense may be defined to be «the expression of imagination».

sarà evidente che il dialogo con Shelley, cominciato all’inizio del Novecento, non cessò mai, e, aggiungiamo, che il tema da lui affrontato nella conferenza di Oxford del 1933 fu anche un’occasione per l’approfondimento di alcuni nuclei teorici che avrebbero trovato poi sistemazione definitiva nel 1936 con la pubblicazione de La poesia. Questa ipotesi sembra trovare conferma nel fatto che alcuni corollari della tesi del carattere intuitivo della conoscenza poetica, che come si sa è l’assunto centrale dell’Estetica del 1902, ritornano nella Poesia, ma suffragati proprio da citazioni prese in prestito da Shelley. Per esempio, il concetto della incoercibilità dell’atto poetico, che nell’Estetica viene ribadito con la semplice argomentazione che “noi non possiamo volere o non volere la nostra visione estetica: possiamo, bensì, volerla o no estrinsecare, o, meglio, serbare o no agli altri l’estrinsecazione prodotta”; torna nelle argomentazioni di La poesia, arricchito da una lunga citazione dalla Defence, la quale offre al filosofo anche la possibilità di esplicitare altri corollari, quali il “lampeggiamento dell’ispirazione poetica”, e l’inessenzialità della tecnica e dello studio alla creatività:

«Non si può dire: -voglio comporre poesia. –Nemmeno il più grande poeta ciò può, perché lo spirito, quando crea, è come un carbone semispento che qualche invisibile influsso, simile a un vento incostante, sveglia a fuggevole vivezza; questa forza viene dal di dentro, simile al colore di un fiore che impallidisce e cangia quando si sviluppa, e le parti consapevoli del nostro essere non possono prevedere né il suo avvicinarsi né il suo dipartirsi. Se questo influsso fosse durevole nella sua purità e forza originaria, non si potrebbe predire la grandezza dei risultati. Ma, quando la composizione comincia, l’ispirazione è già sul declinare; e la più gloriosa poesia, che sia mai stata comunicata al mondo, è probabilmente una debole ombra della concezione originale del poeta. Mi appello ai maggiori poeti de giorni nostri affinché dicano se non sia un errore asserire che i più bei tratti di poesia sono prodotti da lavoro e studio» (A defence of poetry)15.

Poco oltre nella stessa opera, il precedente shelleyano è utilizzato a illustrare altri assunti importanti della concezione estetica, quale quello della presenza, all’interno di ogni opera di poesia, di momenti non ispirati, impoetici, quelli, cioè, la cui funzione è solo di tenere insieme la struttura dell’opera d’arte:

«La fatica e l’indugio, raccomandati dai critici, devono essere ragionevolmente interpretati come non altro che l’accurata osservazione dei momenti ispirati e la connessione artificiale degli spazi tra le suggestioni di quelli mercé delle espressioni convenzionali che vi s’intendono: necessità imposta unicamente dalla limitatezza della facoltà poetica stessa, onde il Milton concepì il Paradiso perduto come un tutto prima di eseguirlo nelle parti» (Shelley, A defence of poetry)16.

Dopo qualche pagina, ancora, le parole del poeta inglese servono al filosofo napoletano per riprendere un altro corollario controverso della sua concezione della poesia, quello cioè della sua intraducibilità.Anche qui, come è risaputo, il concetto aveva trovato formulazione in vari luoghi dell’Estetica, e segnatamente nel nono capitolo, dove viene ribadita “l’impossibilità delle traduzioni in quanto abbiano la pretesa di compiere il travasamento di un’espressione in un’altra, come di un liquido di un vaso in un altro di diversa forma”; ma quando si ripresenta nella Poesia, ancora una volta il concetto viene veicolato da immagini shelleyane:

«Trasfondere da un linguaggio in un altro le creazioni di un poeta è lo stesso che gettare una mammola in un crogiuolo con l’intento di isolare il principio essenziale del suo colore e del suo profumo. Ma la pianta deve nuovamente germogliare o non porterà fiore…» (Shelley, A defence of poetry).

La condivisione dei nuclei teorici della Defence analizzati finora non deve far pensare che Croce accettasse in toto l’impianto concettuale dell’operetta shelleyana, perché la conferenza del 1933 ne mette a fuoco anzi anche i punti deboli. Tra questi, quello maggiore è per Croce la confusione di cui sembra dar prova lo Shelley, il quale, trasportato dal “sentimento dell’infinito valore di quella forma spirituale”, aveva finito per assolutizzarne la natura, arrivando a definirla “qualcosa di divino, allo stesso tempo centro e circonferenza della conoscenza, … ciò che comprende tutta la scienza e a cui tutta la scienza deve tendere”. In questo modo il poeta aveva commesso l’“errore di trascurare o di non avvedersi che anche le altre categorie, —il pensiero logico, la volontà, la moralità,— al pari della poesia, entrano in ogni persona e in ogni fatto”. La rivendicazione di una presunta dimensione totalizzante della poesia non solo non ne accresce la potenza ed efficacia, ma ne smarrisce “il carattere suo proprio e distintivo”. Che la poesia possa sprigionare il suo effetto terapeutico sulla sensibilità umana e favorire la nascita di sentimenti di solidarietà e fratellanza è per Croce innegabile. Lo dimostra la conclusione del suo discorso, nel quale egli immagina “un’altra e simbolica vicenda,

di avere intorno un’accolita di giovani e di uomini, tutti tesi nelle loro passioni reciprocamente esclusive, scissi e diffidenti per opposte tendenze, chiusi e feroci ciascuno nella propria ben difesa cerchia. Ed ecco si apre un libro di poesia e si comincia a leggere, e allo scorrere di quelle immagini, un non so che si muove nei loro petti, il loro respiro si fa attento, la fantasia si risveglia, segue quel ritmo nel suo tema, nei suoi contrasti, nella sua finale armonia, e in quell’armonia essi vengono, con meraviglia e commozione, riscoprendo in sé stessi l’ignota, l’obliata, la comune negata umanità.

Ma che da sola la poesia possa riuscire nel compito di ricomporre lo squilibrio prodotto nella coscienza umana dall’adesione totalizzante al verbo scientista, e dal perseguimento dei valori materiali, è impossibile. Il punto, già ribadito nel suo discorso ad Oxford, doveva trovare nuova drammatica esplicitazione una dozzina di anni dopo, nell’agosto del 1945, subito dopo l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima. In uno scritto apparso sul Risorgimento dell’11 agosto egli dovette ripensare alle parole con le quali lo Shelley prescriveva “il culto della poesia nei periodi nei quali per un eccesso della spinta egoistica, e della logica computazionale… il corpo è diventato troppo sordo alle sollecitazioni di ciò che lo anima”.Ma la carneficina della guerra e tutte le altre atrocità e miserie che ancora aveva sotto gli occhi dovettero convincerlo ancora di più che la speranza di rigenerazione morale dell’uomo passa solo attraverso un concerto nel quale la poesia è solo una inter pares, tra tutte le categorie dello spirito:

Le scoperte delle scienze naturali accrescono, come Bacone voleva, il dominio dell’uomo sulle cose, cioè la potenza delle mani e dell’animo dell’uomo e l’animale sapiens armano sempre più di sapienza, grande ma altrettanto pericolosa. A parare il pericolo, e a trarre dalle scoperte il bene che possono dare, si richiede non solo un proporzionato ma un superiore avanzamento dell’intelletto, dell’immaginazione, della fede morale, dello spirito religioso, e in una parola, dell’anima umana.













NOTE
1 B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, cito dall’ed. Adelphi 1990, p.449. Nel corso dei suoi studi Croce si occupò anche di altre composizioni dello Shelley, come, per esempio l’Epipsychidion, per cui v. Conversazioni critiche, 1951, vol. V.^
2 Sulla rilevanza di quest’ultima, si veda E. Giammattei, I dintorni di Croce, Napoli 2009. Per particolari circa la stesura della conferenza su Shelley si veda Croce, Taccuini di lavoro 1927-1936, Napoli 1987, alle date 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 agosto; 11 settembre e 3 ottobre 1933. La traduzione inglese del testo, a cura del Carritt, fu pubblicata alla fine del 1933 dalla Clarendon Press, col titolo The Defence of Poetry. Variations on the theme of Shelley. Interessante notare che questo scritto sarebbe entrato in una antologia di testi canonici di critica letteraria inglese dal titolo significativo The Great Critics, curata da James Harry Smith ed Edd Winfield Parks, 3rd edition, 1951.^
3 G.R G. Mure, Benedetto Croce and Oxford, in «The Philosophical Quarterly», vol. 4, N° 17 (Oct., 1954), pp. 327-331.^
4 Cfr. J. Patrick, The Magdalen Metaphysicals, Mercer University Press 1985, p. xxiii. [traduzione mia].^
5 La lettera d’invito, in italiano, si trova nell’Archivio Croce.^
6 Anche questa missiva si conserva nell’Archivio Croce.^
7 Cfr. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Bari 2002, p. 368.^
8 Ibidem, p. 369.^
9 G. Sasso, Per invigilare me stesso: i taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989, p. 141.^
10 L. Bandiera, “Shelley’s Afterlife in Italy: from 1922 to the Present”, in Schmid/Rossington [Eds.], The Reception of P. B. Shelley in Europe, London 2008, p. 83.^
11 Cito dall’edizione della conferenza col titolo “Difesa della poesia”, in Ultimi saggi, 1956, p. 62.^
12 Per le citazioni dal testo shelleyano mi si permetta di rinviare a Shelley, In difesa della poesia, Milano 2013, p. 53. Corsivi miei.^
13 Ivi.^
14 B. Croce, Epistolario 1, Napoli 1967, p. 173. Corsivo mio.^
15 B. Croce, La poesia, Bari 1936. Cito dalla seconda edizione economica 1969, p. 270. Ma anche Conversazioni critiche, Bari 1951 (seconda edizione), volume V, p. 76.^
16 Ivi, p. 275.^
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