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Asterischi
di Giuseppe Galasso
Col 19 giugno si conclude la vicenda del turno elettorale amministrativo di questa primavera, così difficile a definirsi anche sotto il profilo meteorologico, oltre che sotto il profilo politico-sociale. Nella settimana che si apre col 20 giugno sapremo poi dell’esito del referendum britannico (il 23 giugno) sulla permanenza del Regno Unito.
L’esito dei ballottaggi italiani è ormai determinato,ma, quale che sia questo esito, pare ormai certo che ripercussioni che tocchino la durata in carica dell’attuale governo non se ne debbano avere. Di tali ripercussioni pare ormai altrettanto certo che si riparlerà per l’esito del referendum istituzionale di ottobre, come più volte ha detto lo stesso Renzi. Sarebbe una vera e propria sorpresa dalle imprevedibili conseguenze, se non fosse così. E anche per ciò che più avrà risalto nei prossimi giorno sarà il risultato del referendum d’Oltremanica.
Le previsioni al riguardo sono andate crescendo col passare del tempo nel senso di un pronostico favorevole ai sostenitori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Di conseguenza sono anche andate crescendo le previsioni dei danni – gravissimi, si dice – che ne ritrarrebbero sia i britannici che l’Unione Europea.
Quali saranno questi danni gravissimi? Ciò che in questi mesi si è letto e sentito nella più varie sedi, dai media ai livelli massimi della vita pubblica europea, avrebbe dovuto dare a questo interrogativo una risposta più che chiara. Ma è stato davvero così? Non crediamo di esagerare affermando di avere, da tanto leggere e sentire, l’impressione che nessuno, neppure ai livelli più alti e responsabili, sa, con almeno sufficiente approssimazione, che cosa accadrà, nella realtà dei fatti, se il referendum del 23 giugno si pronuncerà per il congedo britannico dall’Unione Europea.
Nell’opinione pubblica corrente la carenza di attendibili orientamenti a questo riguardo è ovviamente maggiore. Leggiamo spesso che le Borse europee vanno male per effetto del timore destato dall’eventuale secessione britannica. Il giorno dopo leggiamo, però, che le Borse sono tornate (come si dice nell’orribile gergo del settore) “in territorio positivo”; e ciò non sempre in relazione al fatto che i sondaggi per il referendum vadano verso il meglio o verso il peggio (ora dopo il delitto Cox tutti pensano che prevalga il meglio, ma anche ciò è tutto da vedere). Che vuol dire, allora, questa alternanza, se non significa che il comportamento delle Borse non è affatto segnato univocamente da quel temuto avvenimento?
Si sa, peraltro, che l’ultimo accordo stipulato dal premier Cameron con l’Unione Europea ha concesso alla Gran Bretagna molti altri vantaggi oltre quelli ad essa riconosciuti fin dall’adesione del suo paese all’Unione. Di conseguenza la Gran Bretagna è oggi nell’Unione un paese ancor più privilegiato di prima; e ciò dovrebbe rassicurare, almeno fino a un certo punto, chi teme che, se vince la causa unionista, il governo di Londra pretenda altri vantaggi con la scusa di dover tenere conto della grande percentuale, sia pure perdente, di non unionisti che certo uscirà dalle urne il 23 giugno. In ogni caso, però, è ancora, e molto, più certo che questa grande percentuale perdente impedirà di sicuro a qualsiasi governo britannico di rafforza re i legami dell’Oltremanica col continente.
Sembra chiaro, perciò, che, con qualsiasi suo esito, il referendum britannico avrà un significato soprattutto e innanzitutto politico.
Se vincerà il si, l’Unione si potrà ritenere convalidata da una prova elettorale molto impegnativa, che scoraggerà altre velleità o vagheggiamenti secessionistici. Con ciò, non potrà ritenere, peraltro, di avere un cammino più facile sulla strada del tanto sospirato rafforzamento del vincolo unitario finora realizzato. Un vincolo –sia detto per inciso – che è certamente più ampio e solido di quanto di solito non appaia, ma è ancora molto lontano dal dare all’Unione la consistenza e la solidità di un grande paese federale, capace di giocare nel mondo globale di oggi e di domani una parte che non sia di secondo o terzo piano.
Se vincerà il no, accadrà il contrario, ma le difficoltà del potenziamento unitario dell’Unione Europea non ne saranno per nulla attenuate. Potranno soltanto essere affrontate meglio sulla base di quella convalida politica che, come abbiamo già notato, un successo della causa unionista al di là della Manica indubbiamente darebbe all’Unione. E questo certamente non è poco.





***


Croce consigliò a Giovanni Laterza nel 1927 di far tradurre in italiano la Storia d’Inghilterra del prof. A.F. Pollard dell’Università di Londra. Egli non conosceva quel libro, ma ne conosceva l’autore come dotto e serio studioso. E ciò rende, ancora più interessanti le affinità e spesso identità di vedute fra Croce e Pollard, in specie su qualche punto, come il periodo normanno in Inghilterra e nel Mezzogiorno.
“Per quasi due secoli – scrive Pollard – dopo la conquista normanna, non v’è storia del popolo inglese. V’è, in larga misura, una storia dell’Inghilterra, ma è la storia di un governo straniero”. Un inglese non poteva vantarsi delle glorie di Guglielmo il Conquistatore e dei suoi successori normanni e angioini, che erano glorie “non più inglesi di quanto non sia indù il governo attuale [ossia, sotto la sovranità inglese, allora] dell’India”. I nomi inglesi erano per un paio di secoli scomparsi dalla storia d’Inghilterra: “dalle liste dei sovrani, dei ministri, dei vescovi, conti e sceriffi”, sostituiti “da nomi che cominciano con ‘fitz’ e sono distinti da un ‘de’”. Perfino “la lingua inglese rimase con sotterrata e divenne parlata incolta di contadini”, e “non vi era interesse per l’anglosassone da parte di un’aristocrazia che scriveva latino e parlava francese”.
Le simpatie di Pollard vanno, invece, tutte al periodo pre-normanno, al lungo e faticoso processo per cui Juti, Angli e Sassoni, dopo aver invaso la Britannia romana nel V secolo, avevano costituito una realtà storica instabile e mal delineata,ma tale da potersi dire, per lui, che “quanto di grande e di buono v’è in Inghilterra sia d’origine anglo-sassone”.
Non diverso è il giudizio di Croce sul periodo normanno nel Mezzogiorno, e come Pollard al seguente periodo inglese angioino, così Croce lo estende al seguente periodo meridionale svevo. “Non sembra lecito”, egli scrive, “identificare la storia della monarchia normanno-sveva con la storia dell’Italia meridionale”, poiché “essa fu rappresentata sulla nostra terra e non generata dalle sue viscere” e “la nostra storia non può esser quella a cui abbiamo offerto il teatro, ma l’altra, grande o piccola che fosse, che si svolse nella nostra coscienza e nei nostri travagli, nelle nostre menti e nei nostri cuori, opera della nostra volontà”. E che “alla politica e civiltà normanno-sveva fece difetto il carattere indigeno e nazionale”, si vede per Croce anche dal fatto che “i normanni misero fine alla libertà delle città marinare e delle altre città, specialmente pugliesi”, mentre “i re svevi, per la linea politica che seguivano e per l’esperienza dell’indomabilità dei comuni settentrionali, repressero con severissimo rigore ogni accenno di formazione comunale”.
Come Pollard agli Anglo-Sassoni, così Croce riserva tutte le sue simpatie al Mezzogiorno pre-normanno, di cui parla con commozione e con grato ricordo dei suoi “nuclei nazionali” presso i Longobardi o ad Amalfi, a Napoli, nelle città pugliesi: una storia più modesta, ma più propria, di cui i meridionali possono legittimamente vantarsi, laddove a torto si gloriano delle imprese di Roberto il Guiscardo o di Ruggiero II d’Altavilla, di Federico II di Svevia, protagonisti, gloriosi bensì, ma di un’altra storia: la storia delle loro dinastie e delle genti a cui esse appartenevano.
La corrispondenza tra le tesi di Pollard e quelle di Croce è, dunque, evidente. Quanto alla loro accettabilità, l’asserita mancanza di storia propria di un popolo in qualsiasi periodo non può essere postulata in principio, e, comunque, non si riscontra nella storia meridionale tra XI e XIII secolo.
Si trattava, in effetti, di giudizi non nuovi per l’Inghilterra. Per il giudizio crociano le cose sono più complesse. A prescindere comunque da analogie e diversità, Croce stesso confrontava comunque direttamente la storia normanna d’Inghilterra e quella del Mezzogiorno.
“È stato almanaccato” - egli scrive – “più volte sul problema del come mai il regno di Ruggiero e quello di Guglielmo il Conquistatore, fondati da uomini della stessa razza, ordinati allo stesso modo, tenessero così diverso cammino e avessero così diversa fortuna, splendida questo e misera l’altro: ma la ragione è evidente, perché in Inghilterra i baroni adottarono presto fini generali e difesero interessi di tutta la loro classe e poi di tutti il popolo e questo chiamarono alleato nell’opera di mantenere bensì un potere regio, di cui sentivano la necessità, ma di piegarlo e foggiarlo a uso della nazione”. Perciò, nonostante le diversità etniche “e il contrasto di conquistatori e conquistati, si formò sin da allora una nazione inglese. Nella monarchia normanno-sveva non accadde lo stesso: un popolo, una nazione non nacque: non ci fu nemmeno un nome unico nel quale le varie popolazioni si riconoscessero come subietto: siciliani, pugliesi, longobardi, napoletani erano tutti nomi parziali; popolani e borghesi non fecero pesare la loro propria volontà, e i feudatari solo in maniera individualistica e contraria allo stato…. Baroni e borghesi rimasero come estranei alla politica dei loro sovrani; e non furono a fianco di Federico e di Manfredi nella lotta contro i pontefici, come la Francia fu poi a fianco di Filippo il Bello contro Bonifacio VIII. Invano tra i baroni meridionali si cercherebbero figure che avessero qualche tratto della religiosità, dell’austerità, del sentimento d’onore che si notano in un Simone di Montfort, e che spiegano la fecondità delle agitazioni e ribellioni da costui guidate, e ne fanno il martire di una causa nazionale. E dov’è poi, nella agitata e folgorante storia della monarchia normanno-sveva, qualche traccia di epica, di quell’epica che accompagna la coscienza del sorgere di un popolo?”.
Sulla coscienza e sull’azione nazionale del baronaggio inglese per lunghi secoli è difficile che gli inglesi e i loro sovrani di quei secoli avrebbero potuto concordare col giudizio crociano. Quale motivo può, peraltro, aver indotto Croce all’accettazione così decisa di una tesi, sulla quale difficilmente potrebbe convenire anche l’attuale storiografia inglese, che si è sforzata di uscire del tutto fuori dal dilemma del carattere nazionale o non nazionale del periodo normanno?
Per l’aspetto della conquista la storia inglese e la storia meridionale di quel periodo presentano certo notevoli affinità. Così è soprattutto per il rapporto tramomento militare e della violenza e momento politico e della mediazione nell’organizzazione dei nuovi domini normanni. Anche le differenze sono, tuttavia, evidenti. Basti pensare che Guglielmo I si impadronì dell’Inghilterra con un paio di battaglie campali e con un paio d’anni di campagne militari distruttive in alcune regioni. Nell’Italia meridionale e in Sicilia occorsero, invece, decenni di azioni politiche e militari perché il dominio normanno vi si stabilisse.
Soprattutto, poi, ogni confronto fra i due casi sottostà alla difficoltà insuperabile delle profonde differenze di struttura storica dei due paesi. Da una parte, il Mezzogiorno pluriculturale e pluriconfessionale, legato alle due aree più fiorenti del mondo medievale, quando l’Europa ancora appariva barbara e infedele, la bizantina e la musulmana, con un frazionamento politico per cui vi si distinguevano varie zone politiche rivali,ma anche in stretto contatto fra loro; tutte partecipi di commerci di ampio raggio; con una forte presenza di fenomeno cittadini importanti (e, in qualche caso, Palermo, di grande rilievo). In un tale paese poco avevano i Normanni da insegnare e molto da apprendere, come, infatti, avvenne. È stato detto da tempo che la loro “bella monarchia” assimilò e utilizzò i criteri dell’amministrazione bizantina e musulmana. Il geografo del re Ruggiero era un musulmano, Edrisi. I mosaici di Monreale e di altri luoghi celebri della Sicilia normanna sono di scuola bizantina e portano iscrizioni in greco, oltre che in latino. E si potrebbe proseguire con questa interazione mediterranea di si fa ancora grande merito al nipote di Ruggiero II, Federico II. Dall’altra parte, una Inghilterra anglosassone, in condizioni materiali, culturali e religiose del tutto diverse. Qui erano i Normanni a poter giocare il ruolo di una aristocrazia colta e raffinata, espressione di quella grande Francia che dalMille fino a tutto il secolo XIII fu al centro della vita, innanzitutto culturale, dell’Europa di allora. Poco o nulla, rispetto a Sicilia e Mezzogiorno, il precedente mondo anglo-sassone aveva da offrire ai conquistatori.
Tutto sommato, il punto di maggiore contatto fra le due esperienze rimane l’introduzione normanna del feudalesimo in entrambi i paesi (e non è un caso che ne siano rimasti in entrambi due documenti fra i più importanti della storia europea di allora, il Catalogus baronum in Italia e il Domesday Book in Inghilterra, che danno l’impressione di una maglia feudale più stretta e di un controllo regio più forte in Inghilterra.
Le differenze, quindi, tra la Normandia inglese e quella italiana abbondano. La differenza prospettata da Croce – in Inghilterra subito una nazione anglonormanna, in Italia una dominazione dinastica – è, tuttavia, davvero discutibile. Ed è da presumere perciò che Croce, il quale non poteva non esserne in qualche modo consapevole, l’abbia così drasticamente espressa anche perché così egli avrebbe dato maggiore evidenza e icasticità al suo giudizio sulla storia normanno-sveva nel Mezzogiorno d’Italia (senza contare che vi può essere entrata anche una sua certa visione idealizzata della storia inglese nel suo complesso).
Croce non affermò, comunque, mai che da quell’inizio non “nazionale” della monarchia meridionale dipendesse tutta la storia successiva del Mezzogiorno, come spesso si è affermato e si afferma. Da grande storico qual era, sapeva che nessuna storia è scritta una volta per sempre, e che ogni generazione, ogni epoca ha i suoi particolari problemi e le relative responsabilità.



***


Maurice Moses Obstfeld è attualmente l’economista capo del Fondo Monetario Internazionale, dopo di essere stato consigliere economico del presidente Obama. Intervistato dal “Corriere della Sera” (venerdì 1° luglio), ha parlato dell’inevitabile argomento del giorno, ossia gli effetti dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Le sue osservazioni su banche e monete in questa circostanza risultano di quell’acutezza e persuasività che ci si aspetta da una personalità della sua esperienza.
Nell’intervista è anche venuto fuori subito fuori il problema delle banche italiane, sempre di attualità nel quadro di questi problemi. Si ricorderà l’appunto mosso dalla cancelliera Merkel al presidente Renzi (non si possono cambiare le norme europee per le banche ogni due anni a causa di quelle italiane) e la giusta risposta di Renzi (gli unici ad avere evaso le norme europee in materia di flessibilità sono state la Francia e, soprattutto, la Germania, nel 2003, quando erano esse in difficoltà). L’intervista di Obstfeld va oltre questo specifico problema; e sulle banche italiane vi si trovano osservazioni che vanno tesaurizzate (mi pare), perché sono di particolare importanza. Ne ricordiamo qualcuna.
“L’Unione bancaria – ricorda Obstfeld – era nata per recidere il legame fra gli Stati e le banche, ma non è ancora successo”. L’osservazione è importante perché ricorda che degli andamenti poco felici e dei problemi delle banche rimangono ancora largamente responsabili gli organi di governo dei varii paesi europei. Né essi se ne possono trarre fuori, adducendo, a giustificazione delle negatività che si registrano, l’autonomia delle banche. I problemi di cui si tratta non sono confinabili in una sfera puramente privata di gestione del credito. Non è mai stato così, e nemmeno oggi lo è. L’eccesso di interferenze esterne (e innanzitutto e soprattutto politiche) nell’attività bancaria è un conto; l’interferenza che consegue alla mancata rescissione del rapporto fra Stati e banche è un altro conto. Se le banche presentano i problemi che gli ambienti internazionali rilevano, gli organi di governo dei varii paesi in questione ne sono corresponsabili o perché hanno convenienza in quei problemi o perché non sono capaci o non sono in grado di porvi riparo.
Questa osservazione di carattere generale si lega direttamente a un’altra che riguarda specificamente l’Italia. L’Italia – dice, in sostanza, Obstfeld – non ha soltanto un problema di credito e di istituti di credito. Ha un problema molto più generale. C’è bisogno, infatti, di maggiore crescita, e per una tale crescita occorrono le famose “riforme strutturali”, di cui sempre si parla. Serve “un insieme di misure che si tengono”, che siano cioè coerenti e sistemiche, se si vuole “avviare la crescita e migliorare le finanze pubbliche. Serve, insomma, “un programma delle autorità italiane” dell’ampiezza e coerenza necessaria per conseguire uno scopo, che non ha affatto un profilo strettamente tecnico, perché ha un impatto e un’implicazione politica di grandissimo rilievo.
È un’indicazione non nuova, ma rinnovata in questo caso con una chiarezza, oltre che con una autorevolezza, innegabili. E il titolo dato dal “Corriere” all’intervista riassume felicemente il senso di tale indicazione: “Non solo credito. L’Italia ha bisogno di varare subito un piano-paese”.
Da questo punto di vista, nessuno può negare che l’attuale governo italiano abbia già fatto più di qualcosa, anche se non gliene si dà atto sempre e abbastanza. Ma, proprio se si riconosce ciò, si può legittimamente anche osservare che di un piano-paese ancora non si è visto alcun profilo effettivo.
Nessuno pensa, naturalmente, alle pianificazioni di altri tempi e di altri paesi, e soprattutto di altri regimi. Nessuno pensa a un impulso dirigista da introdurre nella direzione economica e finanziaria del paese. Quel che si chiede è che gli interventi settoriali, parziali, territoriali che il governo vara seguano una linea complessiva, coerente di sviluppo e di progresso del paese. Ciò, invero, non si vede. Settore per settore, segmento di problema per segmento di problema, territorio per territorio: è questa la scansione che effettivamente si ravvisa nell’azione del governo, e che solo in pochi casi e parzialmente appare superata in una linea più rispondente a quella di un piano-paese.
Lo si vede innanzitutto per il Mezzogiorno. Il fantomatico masterplan a suo tempo annunciato non si è visto, e si è stati costretti a pensare che esso abbia finito col consistere nella serie delle misure che via via sono state adottate in relazione a problemi e aree del Mezzogiorno. Eppure, il Mezzogiorno è tra i problemi eminentissimi del paese; ed è da solo una parte rilevantissima del problema-paese nel suo complesso. Di per sé, poi, il Mezzogiorno è anche la parte del paese che più di ogni altra è interessata a un effettivo piano-paese. Solo in questa ottica esso può sperare di riuscire a determinare una soddisfacente considerazione dei suoi problemi e ad avviarne una qualche soluzione non occasionale ed episodica, e, anzi, organica e solidale con le questioni generali di sviluppo e di progresso di tutto il paese.
Che un’autorità come Obstfeld abbia colto il nucleo e l’essenza di tutto ciò in una intervista occasionale e di carattere molto più generale, è, dunque, un caso di non lieve significato per le questioni di cui abbiamo parlato.
Al di là del risultato secco che ha sancito la vittoria degli uni (gli out) e la sconfitta degli altri (gli in), le considerazioni possibili sull’esito del referendum britannico del 23 giugno sono molte e di vario ordine. Di una di esse non ci è sembrato di vedere traccia nei commenti dei media sia italiani, sia stranieri, e potrebbe, quindi, essere interessante riflettervi un po’.
Ci riferiamo a ciò che il referendum ci ha detto riguardo ai partiti e alla loro parte in quel referendum. Solo l’UKIP (United Kingdom Independence Party), il partito che si riporta già nel nome all’indipendenza del Regno Unito, può vantare di aver presentato per l’occasione un comportamento compatto, come era naturale per un partito sorto con il preciso programma della secessione britannica dall’Unione Europea. Tutti gli altri, dal più al meno, hanno manifestato una mancanza impressionante di unità.
Già il partito del premier Cameron, promotore del referendum, aveva al suo interno una divisione al massimo livello fra lo stesso Cameron (in) e il già sindaco di Londra Boris Johnson (out), ora in predicato di sostituirlo nella premiership. A questa divisione di vertice ha corrisposto il comportamento dell’elettorato conservatore, altrettanto diviso nelle sue roccheforti tradizionali tra i due diversi orientamenti.
Non migliore è stato, su questo piano, il caso dei laburisti, che, pure, hanno pagato con l’assassinio della loro deputata Jo Cox il prezzo umano in questa circostanza più doloroso. Questo lutto, così estraneo alle cronache britanniche, è stato, peraltro, immediatamente fatto proprio, come era giusto, anche dagli altri partiti, secessionisti compresi, come si è visto con l’omaggio pubblico congiunto reso alla defunta da Cameron e dal leader laburista Jeremy Corbyn. Tutti hanno, inoltre, rilevato che la partecipazione di Corbyn e la presenza laburista nella campagna referendaria sono state piuttosto scolorite rispetto al fermento provocato nel campo conservatore dal contrasto fra Cameron e Johnson. Considerato poi il peso dell’elettorato conservatore di sicuro orientamento europeistico, e considerato l’analogo orientamento della Scozia dove le posizioni laburiste sono molto forti, c’è anche da chiedersi se l’apporto laburista alla causa in sia stato, nell’Inghilterra vera e propria, proporzionato alla consueta forza elettorale del partito.
È perciò anche lecito chiedersi se il referendum inglese non abbia segnato una tappa da non trascurare in quel processo di indebolimento della capacità di leadership delle opinioni pubbliche dei singoli paesi europei da parte dei partiti di più radicata ascendenza, di cui abbiamo già avuto tante e lampanti dimostrazioni, e che ne fanno prevedere un nuovo e significativo episodio nelle elezioni di oggi in Spagna, paese dei Podemos.
Già anche in Inghilterra il rapido rafforzamento dell’UKIP e di Farage ne è stato un segno. E si sa che segni e presagi se ne sono avuti anche in Germania. Qualificare tutti questi fenomeni di “deriva populistica” coglie un aspetto della loro realtà, ma non basta a un’effettiva comprensione del fenomeno. Qui si tratta di una spinta sociale, fatta di pulsioni e di moventi non solo materiali o economico-sociali, ma anche di emozioni ed esperienze nascenti non solo dal vissuto della fase storica profondamente trasformatrice e globalizzante che stiamo vivendo, ma anche dalla crisi di direzione politica e sociale dei paesi in cui quella spinta è più forte.
Questa spinta – nella quale perciò confluiscono i più svariati elementi psicologici, morali e ideali, accanto a nuovi bisogni e nuove esigenze pratiche e materiali – sta cercando da ormai più di venti anni risposte a domande che non sono del tutto chiare neppure ad essa e alle quali in nessun paese europeo (Germania compresa) si è saputo o potuto imprimere una svolta capace di tradurla in un fermento politicamente realistico e costruttivo. I movimenti che sconvolgono sempre più spesso la vita politica europea trovano in ciò la ragione prima delle loro repentine e larghissime fortune.
Così stando le cose, ancor più malinconico appare il paesaggio politico italiano per i sempre più bassi livelli ai quali si sono venuti svolgendo da anni le lotte e le contrapposizioni all’interno dei partiti. Eppure, in Italia facemmo tempestivamente l’esperienza – con Berlusconi nel 1994 – di come sia possibile che nel giro di pochi mesi insorgano movimenti di opinione dalla vastissima eco elettorale. Oggi il movimento di allora è quasi diventato un partito d’ordine, ma il caso si è moltiplicato nella sua incidenza nella vita pubblica: basti pensare ai 5 Stelle o, più modestamente, alle fortune di De Magistris a Napoli (che egli promette di trasformare in un “soggetto politico” in Italia e in Europa: impresa tutta da vedere, per la quale si è dato, però, un compagno senz’altro ideale nella persona dell’indimenticato ex ministro greco Varoufakis).
Oggi da una crisi di fondo appare colpito anche il partito democratico che, con la progressiva frantumazione della destra e nel permanente velleitarismo della Lega, era rimasto la sola forza politica ancora dotata di una certa robusta struttura. Se i contrasti interni vi continueranno come a molti sembra, anche in Italia ne vedremo di ancora più belle di quanto non abbiamo già visto. Una forte ammonimento per Renzi? Indubbiamente.Ma un ammonimento ancora più severo, non ci si faccia illusioni, per gli avversari di Renzi.
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