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La Storia*
di Giuseppe Galasso
È capitato alla storia lo stesso che a ogni altra grande disciplina del sapere moderno. Il campo del sapere sì è allargato a dismisura, facendo anche nascere numerosi nuovi settori della ricerca e degli studi. Si è ampliato, inoltre, il campo di ciascuna disciplina (alcune discipline occupano ora da sole quasi più spazio dell’intero sapere di una volta). E da tempo gli storici non fanno che constatarlo. Quel grande storico (tra l’altro, del Rinascimento italiano) che fu Jacob Burckhardt, in una delle sue lezioni Sullo studio della storia (1868-1873: ce n’è un’edizione Einaudi in italiano) sottolineava la “vastità enorme degli studi storici” dei suoi tempi. “Tutto il mondo visibile e spirituale – diceva – oltrepassa ormai ampiamente ogni precedente concetto di ‘storia’. Anche presupponendo le doti più elevate e il massimo impegno, non sarebbero sufficienti neppure mille vite umane per portare a termine gli studi storici.” Che cosa Burckhardt intendesse per “portare a termine gli studi storici” non si capisce bene. Si riferiva forse ai corsi di studio scolastici. “Già – comunque, aggiungeva – su una singola epoca o su un singolo ramo del sapere storico ogni manuale rimanda a un’infinità di fatti accertati”; e definiva ciò come un dato “davvero disperante quando si inizia lo studio della storia”. Proseguiva, infine, notando “la specializzazione estrema, effettiva fin nella più piccola monografia, sicché pure le persone ben intenzionate finiscono talvolta per smarrire ogni senso della misura, giacché dimenticano quale quota della sua vita terrena un lettore, che non ha un interesse personale e specifico per quel dato argomento, può dedicare a un’opera simile”. Era il caso, mai frequente, di uno studioso professionista che si poneva dal punto di vista del lettore. E, poiché deprecava, da questo punto di vista, i libri troppo lunghi, affermava pure che “quanto più l’opera è estesa tanto più è effimera”.
Ci si trovava allora ancora agli inizi di questi sviluppi. Dopo, si è andati assai oltre. Vivesse oggi, Burckhardt userebbe ben altri toni. Ramificazione degli studi, ristrettezza delle specializzazioni, incremento delle fonti, sofisticati metodi di indagine, interesse a campi e oggetti nuovi e altri elementi sono andati oltre ciò che Burckhardt poteva immaginare (aveva visto bene l’avvento delle masse, ma non si poteva prefigurare l’università di massa e i suoi studi). Cresciuto è anche il numero degli studiosi di storia e degli scritti di storia, e ancor più è cresciuto quello dei lettori. Perciò, una volta il confine tra libri “alti” di storia e libri di minori pretese (libri per il “pubblico colto” oppure, senz’altro, “per il popolo”) era molto esiguo, e quando si parlava di “pubblico colto”, ci si riferiva a lettori già di un certo livello culturale. Ora, invece, quel confine è assai netto. Il pubblico, poi, non si forma più soprattutto nella scuola, bensì anche, e di più, in sedi e con strumenti extrascolastici, a cominciare dai media, senza contare una maggiore conoscenza, per più ragioni, dei luoghi e dei modi di vita nel mondo. Ed è, infine, un pubblico molto sollecitato dai grandi movimenti politici e sociali del mondo contemporaneo.
Anche per ciò la distinzione tra gli studi e la divulgazione si è irrigidita. La produzione divulgativa ha raggiunto livelli quantitativi e commerciali molto superiori a quelli dei libri nati dagli “studi storici”. Il mercato del lettore di storia è diventato, quindi, enorme e obbedisce a un suo preciso e distinto marketing. È aumentata, di conseguenza, pure la spocchia degli storici accademici, nella certezza di un’aristocratica, e per alcuni ascetica, superiorità, così come ancora di più è aumentata la presunzione dei divulgatori, inorgogliti dal successo di mercato.
Tutto questo sorprenderebbe, dunque, Burckhardt, ma è pur sempre in linea con le sue notazioni. Quel che egli non previde, e che forse più lo sorprenderebbe, è, però, il comportamento del pubblico, che ha risposto in misura grande e crescente alla seduzione della storia sia accademica che non accademica, tanto che non si è avuto nemmeno il tramonto da lui previsto delle storie di lunga estensione.
Si tende a ritenere spesso che questo interesse alla storia sia cosa tutta recente. Non è così. In ogni tempo e luogo si riscontra, in forme e misure diverse, un analogo interesse. Il fatto è che quest’interesse nasce da un bisogno elementare e originario. Chi è che non si chiede: da dove veniamo? che cosa si faceva e si pensava e come si viveva una volta? come si è giunti alle condizioni e ai problemi di oggi? come ero io stesso ieri e come sono diventato quello di oggi? E queste e tante altre ovvie domande fanno anche capire che, se ci interessiamo al passato, lo facciamo sempre con l’occhio del presente, mossi dai problemi di oggi.
Di qui l’amplissimo spettro delle sollecitazioni all’interesse per la storia. Si va dall’immaginazione alla fantasia, dalla curiosità all’erudizione, dalla mobile divagazione alla conoscenza più rigorosa. Si va dal bisogno morale e pratico di conoscere come sono davvero andate le cose prima di noi per capire che cosa ci sta dinanzi oggi fino all’impulso a considerare la materia storica come un’arma intellettuale e politica contro gli avversari e, soprattutto, per la “fabbrica del consenso”. Si va dall’esigenza inevitabile di rivedere con gli occhi e gli strumenti nostri la storia tramandata (la “storia ufficiale”, come spesso è mal definita) all’arbitrio variamente motivato di rivederla per strumentalizzarla, o di romanzarla, o di fingersi una storia “controfattuale” (ossia la storia quale sarebbe stata se ….!).
La storia investe, insomma, una tale serie di gusti, bisogni e passioni da non avere limiti nella sua diffusione sociale. Gli storici a cui pensava Burckhardt sono sempre stati una minoranza. Ma in ogni epoca e in ogni contesto leggende, miti, bibbie religiose, catechismi politici, tradizioni orali e altro conservano e diffondono una certa cultura storica di base, popolare, di massa. La particolarità attuale è costituita dal fatto che tra la fascia alta e ristretta della società colta e quella vastissima della massa si è formato uno strato intermedio culturalmente informato e preparato di gran lunga più ampio che in qualsiasi altro tempo. Ed è questo strato a costituire il banco di prova per il successo di un libro (benché il successo non sia mai la prova indiscutibile, e tanto meno la sola, della bontà del libro di successo).
Tutto ciò non può fare passare, peraltro, in secondo piano la vicenda interna degli studi storici nel secolo XX: un grande secolo anche per la storia, geniale e inventivo, ma attraverso negazioni e lacerazioni spesso rovinose , sullo sfondo di uno scenario confuso, nella scia di quella “voragine ideologica”, con la quale un acuto storico spagnolo, Jaime Vicens Vives, diceva che si era concluso il secolo XIX .
Si è condannata la storia politica come storia solo dei fatti (e dei fatti dei re, dei potenti, delle battaglie e così via) e si è predicata l’eccellenza della storia sociale come vera storia. L’esaltazione del sociale rispetto al politico (e delle masse contro le élites) ha comportato la dichiarazione della “lunga durata” come vera temporalità della storia rispetto alla “breve durata”, ritenuta il tempo dei fenomeni superficiali, come, si dice, la politica. Parallela è stata l’esaltazione delle strutture rispetto alla spuma superficiale della storia (ancora una volta, soprattutto la politica). Anzi, solo le strutture sarebbero la realtà; il resto è un’evanescente illusione ottica, e ogni forma di storicismo è un errore. L’invasione delle scienze sociali nel campo storiografico è stata fortissima (fra l’altro, il termine civiltà ha ceduto a quello di cultura); il contrario è accaduto assai meno. Si è opposta la quantità alla qualità (è fiorita anche una “cliometria”), e la storia dei vinti a quella dei vincitori. Molte idee topiche della storia, raggiunto il culmine della fortuna, sono poi declinate: il progresso, la rivoluzione, la modernità, i concetti periodizzanti (Medioevo, Rinascimento), le categorie politico-sociali più elaborate (feudalesimo, assolutismo)….. Si è detto che la storia era solo racconto, letteratura, e bisognava trasformarla, invece, in un’analisi di strutture e relativi intrecci. Si è vagheggiata la storia come scienza e la si è negata come disciplina umanistica, quasi che rigore scientifico e umanesimo siano incompatibili. Nello stesso tempo l’”uso pubblico della storia”, cioè il suo uso politico, ideologico e di parte, è stato poche volte tanto imperante. Risultato: la storia ha largamente perso il prestigio e l’influenza etico-politica di altre epoche. Molti vangeli sono stati proclamati e si sono anche dissolti: nazionalismo e imperialismo; razzismi e fascismi; socialismo marxista e comunista; Terzomondismo, e così via. Molti processi sono stati avviati: in primo luogo, all’Europa, all’Occidente, all’eurocentrismo (e spesso anche al Cristianesimo, specie cattolico), considerati pressappoco come la peste della storia mondiale. Poi ha imperversato la febbre del revisionismo, a volte sacrosanto, più spesso praticato a casaccio, tanto da diventare “negazionismo”. Un goliardico professorino del Far West americano ha, infine, proclamato “la fine della storia” in un mondo divenuto unipolare. Burbanzosi professoroni euroamericani hanno, invece, descritto a fondo le regole storiche di un mondo unipolare, del mondo imperiale.
Eppure, la storia ha resistito. Ha assimilato le molte e spesso acute, brillanti, profonde innovazioni di un secolo tanto fecondo, come si è detto, anche per essa, di mutamenti e ampliamenti di metodo e di concetti e di grandi storici e opere storiche. È tornata a chiedere che si parli e racconti di eventi e uomini (politica, potere, Stati, brevi durate, biografie, un singolo giorno o una battaglia, civiltà oltre che culture). Guarda ai libri di storia di ora e del passato senza discriminazioni ideologiche o di altro ordine. Chiede un’informazione storica più organica. Apprezza appieno la specializzazione, ma tende a contestualizzare il dato specialistico per capirne e farsene qualcosa. Il rifiuto della storia come strumento politico e di partito non ha tolto il gusto e, soprattutto, il bisogno di una storia che contempli valori e ne fornisca la lezione storica, senza imporli come vangeli, anzi con tutta la problematicità della vita. E questo è accaduto e accade a livello sia accademico che non accademico. Il che è un segno certo di buona salute di quella umanissima e problematica disciplina che la storia è sempre stata, quando è stata se stessa.






NOTE
* Nella scia di discussioni sulla storia, che sono riprese in questi ultimo mesi, e di cui si può avere un’idea leggendo l’intervista di Antonio Carioti a Fulvio Cammarano (“La Lettura” del ”Corriere della Sera” del 19 giugno 2016), l’autore ripropone qui il testo di un suo testo del 2003-2004, poi utilizzato in successive occasioni seminariali, dibattiti e altre simili circostanze.^
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