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L’Europa degli storici. Note sull’idealità europea nella recente storiografia internazionale
di Fabio Guidali
Per chi desideri tentare di ricostruire le coordinate delle discussioni in corso a Bruxelles e a Strasburgo, oltre che nell’opinione pubblica, il dibattito intorno alla «coscienza europea nel suo sentimento di sé e nei suoi rapporti con la storia del mondo» è verosimilmente l’oggetto di studio più fecondo, sebbene si tratti forse del «punto più critico» dell’intero quadro di analisi. Consustanziale alla storia e alla storiografia europee e caldeggiata, in alcune circostanze, anche dalle istituzioni politiche continentali, l’attenzione alla questione identitaria è infatti tornata a essere di estrema attualità nell’ultimo quindicennio, in risposta in un primo tempo all’abbandono del progetto di una costituzione e all’allargamento a Est dell’Unione Europea e, in seguito, alla conclamata crisi delle sue istituzioni. È infatti pacifico che le preoccupazioni politiche o, in senso lato, etiche di una determinata epoca si traducono anche nella scelta delle direttrici dell’indagine storica. Sui numerosi studi che, negli ultimi anni, hanno affrontato quella che viene additata come l’avanzata dei populismi, ad esempio, si proietta più o meno direttamente un incontestabile disagio, che è conseguenza della recessione economica, del dramma dell’emigrazione e dei sanguinosi attentati terroristici.
L’accostamento ad alcuni dei volumi più significativi dedicati alle vicende che hanno interessato il continente dopo il 1945 e che sono stati pubblicati all’estero negli ultimi mesi – accostamento privo delle velleità di chi «ad ogni sgangherata combinazione di concetti che egli esegua o ad ogni mezza verità che gli baleni nel cervello» supponga «di aver compiuto scoperte mirabili», nonché di ogni presunzione di esaustività – può dunque essere giudicato un punto d’osservazione privilegiato. Se, da un lato, è infatti possibile appurare come si debba ormai considerare assodata nella storiografia la distanza tra l’ideale europeo (la cosiddetta «Europa sognata»), che rimane pilastro fondamentale benché continuamente scosso da duri attacchi, e le logiche politiche ed economiche legate alle strutture dell’Unione (quella che viene indicata come l’«Europa reale»), dall’altro non sfugge la crescente attenzione per la multidimensionalità dei processi (anche non intergovernamentali) alla base delle attuali istituzioni europee, che è stata posta sotto il nome di «Europeanization». Un simile orientamento implica non solamente il riconoscimento, da parte della collettività, dell’esistenza di un modo di vivere e di percepire la realtà politica e sociale precipuamente europeo – un riscontro di non secondaria importanza, che a lungo gli storici hanno cercato di leggere in controluce –, ma anche la constatazione che immagini e piani d’azione antiliberali non sono necessariamente antieuropei e, anzi, appartengono pienamente al processo di integrazione del continente.
Già nel 2008 lo storico inglese Mark Mazower ha richiamato esplicitamente l’attenzione sulla continuità di determinate idee postbelliche di Europa con i progetti nazisti di conquista del continente. In seguito, Jan-Werner Müller ha parlato di «constrained democracy» e di «post-post liberal order» per descrivere l’aura di sospetto che a lungo, nell’Europa del dopoguerra, ha circondato la sovranità popolare per timore che un sistema liberale di tipo parlamentarista riproponesse i fallimenti dell’entre-deuxguerres (si rammenti che, fino al 1979, le istituzioni europee erano prive di un mandato popolare diretto). Si può ora affermare che una conquista intellettuale considerevole rispetto a molte ricostruzioni storiografiche degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso sia l’accettazione di tali argomentazioni, come dimostra un recente volume collettaneo curato dal tedesco Dieter Gosewinkel, che raccoglie saggi riguardanti il senso del liberalismo e dell’antiliberalismo in Europa (Michael Freeden), la questione coloniale (Fabian Klose), il ruolo delle concezioni religiose antimoderne (Vanessa Conze), l’“Europa delle Regioni” e le sue ormai individuate implicazioni antidemocratiche (Undine Ruge), le continuità biografiche (Peter Schöttler). La matura consapevolezza storiografica della presenza di tracce di illiberalità all’origine dell’Europa di oggi emerge anche dalla conclusione del volume, lasciata alla penna di Martin Conway. Lo storico inglese sostiene che il processo di integrazione europea si sia appropriato di «molti degli strumenti della pianificazione di Stato, della razionalizzazione economica e della governance apolitica (e spesso perfino antidemocratica) che è stata sviluppata nelle organizzazioni internazionali tra le due guerre e nelle burocrazie in tempo di guerra», e che li abbia applicati alle questioni sociali ed economiche emerse dopo il 1945.
Leggendo il citato volume di Gosewinkel, che si pone sulla stessa linea di un precedente studio dell’inglese Christian Bailey consacrato principalmente alla Germania, si corre tuttavia il rischio di credere che la corrente storiografica alimentata da tali valide pubblicazioni contribuisca indirettamente a legittimare le visioni d’antan di un’Europa non democratica e non liberale, e dunque a rendere presentabili anche certi pseudoeuropeismi conservatori o reazionari di oggi, nonché a ritenere quelle stesse origini antiliberali causa delle inadeguatezze delle istituzioni europee, deresponsabilizzando in talmodo gli attori principali della politica degli ultimi decenni. Contro queste possibili interpretazioni, Conway afferma apertamente che la crescente articolazione degli studi rappresenta semplicemente «un modo per esplorare la complessa fusione di metodi e ideologie di governo presentatasi durante la rifondazione dell’Europa intorno alla metà del secolo». Gosewinkel, così come Bailey, mette infatti direttamente in questione i classici della storiografia sull’integrazione europea, che identificherebbero l’Europa solo con principi umanistici cristiani e con la protezione delle libertà e della dignità degli uomini, da cui conseguono diritti civili ed economia di mercato. Nel mirino sono le opere più conosciute, diffuse e citate, come quelle di Wilfried Loth e Walter Lipgens, considerati troppo attenti a contribuire con il loro lavoro di storici a creare l’Europa, al punto di cedere a una teleologia che identifica il futuro del continente tout court con la sua storia postbellica e con le istituzioni della Comunità europea e, in seguito, dell’Unione. Sebbene gli studi di Gosewinkel e Bailey reclamino la distinzione tra storiografia e politica e ribadiscano come la prima non debba mai mettersi a servizio della seconda, neppure con la buona fede di chi sostiene un percorso democratico e di carattere umanista, è innegabile che l’approccio adottato, ampliando lo spettro dell’indagine storica, serva da pungolo metodologico anche per l’osservatore delle cose dell’Europa d’oggi, che non dovrebbe perdere occasione per riscontrare una vera e propria «teoria della complessità» europea.
Se in Italia si è da tempo avvezzi alla riflessione sulla storia e sulla scrittura di storia – basterebbe menzionare il solo nome di Benedetto Croce –, così che appare scontato evitare di concentrarsi su interpretazioni monocausali di processi, circostanze ed eventi, lo stesso non si può affermare per altri contesti linguistici, che spesso producono ricerche che cedono alla tentazione di indicare il motivo conduttore di una determinata epoca o la ragione alla base di un fenomeno. Si consideri in proposito che, negli anni Novanta del secolo scorso, mentre in Italia usciva l’articolata Storia d’Europa di Giuseppe Galasso, in ambito anglosassone l’attenzione è stata catturata soprattutto dalla storia economica e dalle negoziazioni diplomatiche, come è evidente nelle opere di Alan S.Milward e del più giovane Andrew Moravcsik. Sintomatico è il fatto che, secondo Milward, l’integrazione sarebbe stata consciamente perseguita come l’unico modo per salvare (anche economicamente) gli Stati europei dopo la seconda guerra mondiale. In questo modo, viene accuratamente evitato ogni riferimento a fattori culturali che, nel secondo dopoguerra, avrebbero sollecitato gli Stati europei a una crescente integrazione, in spregio alla periodica riemersione di studi di carattere weberiano o perfino di antropologia storica (si pensi in Italia alle ricerche del modernista Paolo Prodi, che meritano la ripubblicazione di cui sono stati fatti oggetto negli ultimi anni), e soprattutto ai contestati, ma autorevoli scritti di Samuel Huntington dei primi anni Novanta. Solo di recente, nel quadro di una riflessione che investe tutta la cultura occidentale in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, la storiografia internazionale ha invece accolto con maggiore fervore l’indagine su temi come l’identità e la cultura religiose europee (benché il volume collettaneo European Self-Reflection between Politics and Religion del 2013 abbia ingiustamente avuto scarsa circolazione in Italia), la secolarizzazione e i valori della laicità. Questo interesse non potrà che continuare a crescere di fronte sia a un processo di lungo periodo come l’aumento del numero di musulmani in Europa, fenomeno senz’altro ampliato dall’immigrazione, sia all’allarmante progressione degli attacchi terroristici perpetrati in nome di una certa interpretazione dell’Islam.
Tra i contributi più significativi attenti al ruolo politico, sociale e culturale della confessione religiosa nel discorso e nell’identità europei vi è quello degli americani Brent F. Nelsen e James L. Guth. Il loro volume del 2015 Religion and the Struggle for European Union, scritto a quattro mani, affronta con gli strumenti della storia culturale e con quelli (anche quantitativi) dell’indagine sociologica un problema sostanziale della convivenza europea, vale a dire l’esistenza di differenti percezioni identitarie tra i suoi abitanti, e dunque anche di diverse (e non raramente opposte) richieste avanzate alle istituzioni dell’Unione. La tesi degli autori, che indirettamente attesta la costante dialettica tra potere sacro e potere politico di discendenza weberiana – e che è filo conduttore di molte opere di Paolo Prodi –, è che la contrapposizione oggi così palese tra paesi sostenitori di una maggiore integrazione europea (Italia, Spagna, Belgio) e paesi, al contrario, più favorevoli a una libera competizione in termini classicamente liberali (con sfumature diverse, dalla Gran Bretagna tentata dalla cosiddetta «Brexit» fino alla Germania, la cui posizione appare alquanto ondivaga) sia riconducibile all’aspetto religioso e in particolare alle diverse «culture confessionali» («confessional cultures»), definite «marcatori di identità e strumenti di socializzazione». Nelsen e Guth sono infatti convinti che la dimensione sociale e psicologica della convivenza tra popoli sia fondamentale per comprendere le singole culture nazionali, così che le idee di Europa, l’identità percepita dai cittadini (e non solo dai leaders politici, aspetto su cui insiste invece Yves Bizeul) e l’atteggiamento nei confronti dell’integrazione sarebbero fortemente influenzati dal retroterra culturale, di matrice protestante o cattolica.
Nella lettura dei due studiosi (non scevra da spiacevoli, ma necessarie semplificazioni), la Riforma e le conseguenti guerre di religione avrebbero diviso l’Europa intorno al significato della frammentazione politica: mentre i cattolici hanno per secoli predicato l’universalità della Chiesa e del cristianesimo, riscontrando un’unità culturale di fondo da porre sotto un unico potere politico – se possibile avente sede a Roma – e dunque rifiutando la divisione politica in uno con la scissione religiosa, le comunità protestanti, prive di una chiesa sovranazionale a cui fare riferimento, hanno trovato negli Stati nazionali un forte fattore di identificazione. Questi e altri aspetti riconducibili a fattori di carattere religioso sono da tempo conosciuti e riconosciuti, almeno per quanto concerne la storia moderna, ma, così sistematizzati e sintetizzati, consentono di illustrare efficacemente il volto dell’Europa uscita dal secondo conflitto mondiale. È infatti riferendosi a tali difformità che gli autori giustificano in maniera efficace i grandi sforzi necessari per avviare l’integrazione nel secondo dopoguerra, quando l’elemento religioso è decisivo anche nelle visioni politiche di personalità quali Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi o Robert Schuman (Servo di Dio per la Chiesa cattolica), convinti che l’Europa unita non sia un semplice spazio di collaborazione tra governi, ma che sia storicamente «fonte di civiltà e leader naturale dell’umanità». Senza trascurare i dibattiti successivi, come quello tra Margaret Thatcher e il socialista Jacques Delors nei tardi anni Ottanta, o le critiche a papa Giovanni Paolo II e alla sua idea di Europa provenienti da una parte del mondo protestante, Nelsen e Guth ricostruiscono dunque con attenzione le diverse fasi del rapporto tra cultura cattolica e cultura protestante, documentando in maniera persuasiva come l’aspetto confessionale influisca profondamente sulle attuali percezioni della comunità politica.
Un’identità europea, stando a quanto emerge dal volume, appare comunque in corso di formazione. Secondo i dati dell’Eurobarometro (lo strumento di ricerca sull’opinione pubblica gestito dalla Commissione Europea), almeno coloro che ritengono di avere molto da guadagnare dall’integrazione – principalmente uomini residenti in città, appartenenti alle classi medio-alte, su posizioni politiche di centro-sinistra, viaggiatori, poliglotti e sovente di cultura cattolica, vale a dire «movers and shakers» – mostrano infatti una forte identificazione con l’ideale europeo. Eppure, malgrado la divisione religiosa stia sempre più scemando, l’Europa secolarizzata porta ancora su di sé l’impronta della cultura religiosa in termini di abitudini, ritmi di vita, leggi, simboli, istituzioni. Per questa ragione, la conclusione dei due politologi americani è estremamente dura, dal momento che, a loro parere, proprio per via della permanenza di distanze culturali riconducibili alla divisione confessionale, un’unione salda tra la Gran Bretagna, i paesi scandinavi e gli altri membri dell’Unione non sarebbe in fondo possibile. Essi prevedono che le istituzioni dell’Unione vengano poste di fronte a una scelta: accettare una lenta disgregazione, che può assumere la forma di richieste di rinegoziazione (come nel caso britannico) o del rafforzamento elettorale dei partiti nazionalisti, oppure accettare la versione protestante della collaborazione tra paesi europei, che, garantendo il rispetto del principio della sovranità statale, sarebbe in realtà quanto di più lontano si possa immaginare da un’autentica integrazione. In ogni modo, qualunque sia l’opinione sulla conclusione a cui giungono Nelsen e Guth, appare chiaro come il loro volume incoraggi gli europei (e non solo le classi dirigenti) ad adattarsi alla distanza culturale tra Nord e Sud Europa come unica via per tentare di venire a capo di spinose questioni economiche e politiche.
Accanto al tema della cultura religiosa, una seconda vena di recente sfruttata dagli storici riguarda gli atteggiamenti degli uomini di cultura nei confronti dell’«Europa economica e a sigle» (quella della CECA, della CED, della CEE, della PAC, dello SME). A partire dagli anni Cinquanta, si assiste, infatti, a una rottura tra l’impegno militante per l’Europa e la sua effettiva realizzazione politica – già in quegli anni considerata una costruzione tecnocratica –, non a caso proprio mentre si fa strada in tutto il mondo occidentale l’intellettuale “esperto”, sociologo o comunque “tecnico”. Alcuni volumi pubblicati nell’ultimo periodo, compresi i citati contributi di Bailey e Gosewinkel, tendono a disapprovare l’approccio storiografico prevalente tra ventesimo e ventunesimo secolo anche per via dell’eccessiva attenzione tradizionalmente rivolta ai soli «European saints», vale a dire le personalità più in vista della costruzione europea, e si schierano in favore della riscoperta di figure meno considerate o perfino eccentriche rispetto ai classici studi di storia politica, uomini di cultura capaci di pensiero originale ma anche di azione all’interno delle istituzioni. Un consistente saggio dedicato allo scrittore e filosofo Denis de Rougemont e una monografia che, pur trattando principalmente le vicende di un’associazione intellettuale, la Société européenne de culture, introduce nel dibattito storiografico internazionale la figura del filosofo italiano Umberto Campagnolo, rendono possibile un confronto finora mai tentato tra due mediatori per eccellenza tra strutture politiche e mondo della cultura, solo parzialmente conosciuti anche tra gli storici delle questioni europee.
Il libro di Nicolas Stenger Denis de Rougemont. Les intellectuels et l’Europe au XXe siècle ripercorre l’attività dell’intellettuale svizzero al suo rientro in Europa dall’esilio americano al termine del secondo mondiale. Teorico dell’engagement fin dagli anni Trenta e scrittore celebrato dopo la pubblicazione de L’amore e l’Occidente nel 1939, Rougemont non è in grado di rientrare nei circuiti letterari parigini, dominati nel dopoguerra dal fenomeno Sartre e dall’esistenzialismo. Egli sceglie dunque di militare all’interno dei movimenti federalisti, di cui diviene portavoce ufficioso negli anni Quaranta, senza tuttavia trasformarsi in funzionario, bensì mantenendo un profilo distintivo, che gli consente di dare priorità all’azione culturale rispetto all’attività politica. La «speranza» che lo scrittore ritiene di poter nutrire nel futuro europeo, quando ancora il continente appare distrutto e moralmente prostrato, egli la nutre, in realtà, nei confronti dell’uomo europeo, identificato nella dialettica storica che riflette la sua concezione (fortemente intrisa di spiritualità protestante) di persona come sede del conflitto tra libertà e responsabilità. Solo le istituzioni federaliste sarebbero in grado di garantire il rispetto di tale complessità, di far coesistere pacificamente le differenze e di governare quelle tensioni che fanno di un uomo un homo europaeus. L’identità dialettica risulta pertanto per Rougemont (oltre che per lo storico Prodi) il tratto caratteristico dell’europeo.
Rougemont è tra gli ideatori e i fondatori, nel 1950, del Centre européen de la culture, che sostiene gli scambi di opere e persone e funge da centro di documentazione su associazioni e gruppi. Stenger, che ne ricostruisce le attività e individua le fragilità grazie a uno studio condotto sulle carte d’archivio, è dell’opinione che una simile struttura sia «seducente sulla carta», ma che una federazione degli organismi esistenti non sia in grado di creare la «massa critica» sufficiente a fare dell’Europa un organismo vivente – una valutazione che potrebbe forse essere applicata oggi in altre circostanze. Lo stesso Rougemont è infatti perfettamente consapevole, nel 1953, che l’Europa si sta costituendo «senza di noi», tuttavia è pronto ad accettare la “piccola Europa” inscritta nei piani di Jean Monnet a scapito di una più grande Europa che tenti di attrarre anche i paesi posti sotto l’influenza sovietica. Questa sua scelta è sintomatica anche di un profondo sentimento anticomunista, confermato dal suo coinvolgimento nelle attività del Congress for cultural freedom, organizzazione intellettuale segretamente finanziata dai servizi segreti americani e presa particolarmente di mira dagli storici a cavallo del nuovo secolo.
A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, mentre si inasprisce la critica al sistema economico capitalista e a colonialismo e imperialismo, che ne sono considerati i correlativi sul piano politico e sociale, anche il clima intellettuale diviene meno favorevole all’integrazione europea. Soprattutto in ambito francofono, si fa infatti strada il relativismo culturale, che trova nello strutturalismo e specialmente nell’antropologia e nel primitivismo di Claude Lévi-Strauss la chiave di lettura di una realtà europea macchiata da crimini passati e presenti (in particolare nel Sud-Est asiatico), così che, per buona parte dell’opinione pubblica, appare impossibile credere a valori identitari europei fino a quando la questione coloniale rimane sul tavolo. È nel quadro di tale crescente sentimento antieuropeo che Rougemont modella l’espressione «dialogo delle culture», anche in funzione critica rispetto all’Europa post trattati di Roma del 1957, forse ben congegniata ma priva sia di un mito che attragga i cittadini, sia di una personalità carismatica che possa favorire un’identificazione collettiva. Nel corso dei decenni seguenti, Rougemont si mostra pertanto sempre più insofferente nei confronti delle strutture politiche ed economiche europee, e trova nuovo slancio negli anni Settanta come uno degli spiriti-guida dell’ecologismo. Stenger esamina attentamente tale evoluzione e ne evidenzia la coerenza interna, dal momento che l’impegno prima a favore del federalismo (dunque della decentralizzazione del potere) e poi dell’ecologismo non sarebbe altro se non un modo per riproporre le sue tesi relative alla centralità della persona umana. Ciò conferma come per Rougemont «l’Europa, in definitiva, non sia che un mezzo, non un fine: il fine è la libertà delle persone» all’interno di contesti rinnovati, siano essi la federazione o l’“Europa delle regioni”.
Accanto al volume di Stenger si può porre, tra le opere sugli intellettuali europei pubblicate nel corso del 2015, la monografia di Nancy Jachec Europe’s Intellectuals and the Cold War. Sebbene non si tratti di una ricerca di taglio biografico, bensì di un’indagine sulla Société européenne de culture, essa fornisce alcune interessanti indicazioni sulle attività e sul pensiero del suo fondatore Umberto Campagnolo. La Société européenne de culture, oggi ancora attiva, mira a riunire scrittori, artisti e uomini di scienza per consentire una riflessione sulle condizioni di autonomia della cultura dalla politica (ciò che Campagnolo chiama «politica della cultura») e per instaurare un dialogo sui principi comuni al di là delle differenze ideologiche, filosofiche o religiose. Nel primo ventennio postbellico, l’organizzazione conta tra i suoi soci centinaia di personalità di rilievo del mondo della cultura e della politica (Julien Benda, Thomas Mann, François Mauriac, Giuseppe Ungaretti, Giorgio La Pira, Jean-Paul Sartre e così via) e un numero crescente di intellettuali sovietici e dell’Est Europa. Campagnolo subisce pertanto molteplici attacchi da parte di politici e pensatori anticomunisti (compreso Rougemont), riuscendo in ogni modo a mantenere la propria indipendenza, come dimostra anche la riuscita organizzazione della prima Rencontre Est-Ouest nel marzo del 1956, in occasione della quale uomini di cultura occidentali e sovietici si radunano per la prima volta per discutere i presupposti di un dialogo tra intellettuali con retroterra differenti.
I capitoli che Jachec riserva al revisionismo marxista negli anni compresi tra il disgelo seguito alla morte di Stalin e l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel 1968 costituiscono la sezione più convincente della sua trattazione. L’autrice vi ricostruisce sia il forte impatto delle riflessioni di Sartre successive al 1956 su quello che viene definito «Umanesimo marxista» in Europa orientale, sia la funzione di mediazione di tali idee assunta dalla Société européenne de culture. In quegli stessi anni, le vicende associate alla guerra fredda sul territorio europeo rappresentano, tuttavia, soltanto una faccia della medaglia, in quanto la messa in crisi della fede nell’esistenza di un universalismo europeo fondato su valori come l’uguaglianza e la libertà è una sfida alla quale Campagnolo non si sottrae. Convinto che debba esistere una civiltà in grado di integrare tutte le altre e non disposto a credere che a tale fine sia sufficiente una mera giustapposizione delle diverse culture, Campagnolo formula il concetto di «civilisation de l’universel». In questo modo, egli intende descrivere una civiltà che sia fondata sui valori umanistici derivanti dai tratti non dogmatici del cristianesimo, a partire dalla fratellanza universale, e che sia dotata di senso della storia e possa pertanto identificare la funzione di ogni cultura e di ogni popolo nelle vicende umane (un requisito che già a Hegel e Weber aveva consentito di sostenere la superiorità – o almeno la singolarità – della civiltà europea). Questa «civilisation de l’universel» è naturalmente plasmata sul modello della civiltà europea e dei suoi tratti giudicati filosoficamente e moralmente universali. Campagnolo è dunque accusato di eurocentrismo soprattutto da parte di autori come Léopold Sédar Senghor e Frantz Fanon, i quali, di fronte alla violenza perpetrata oltre i confini del Vecchio Continente, non riconoscono nel complesso culturale europeo alcun principio degno di essere presentato come valevole per ogni uomo.
Contribuendo a risvegliare l’attenzione intorno a Campagnolo, a lungo studiato solo come filosofo del diritto, Jachec consente di affiancare la sua figura a quella di Rougemont come uno degli intellettuali più attenti all’idea di Europa anche negli anni in cui va scemando l’afflato federalista dell’immediato dopoguerra. Distanti sul piano personale, Rougemont e Campagnolo non sono mai stati indagati come partecipi della medesima temperie culturale, se non per rimarcare il loro antagonismo nel campo dell’associazionismo non governamentale e il loro diverso posizionamento politico. Mentre Campagnolo, la cui concezione poggia sugli aspetti culturali (e religiosi) ritenuti comuni a tutti gli intellettuali intenzionati a preservare la propria autonomia politica, si impegna a richiamare al dibattito anche personalità che si ritrovano su fronti opposti, Rougemont figura tra quei pensatori e uomini politici ansiosi di rendere l’Europa una sorta di fortino delle libertà che funga da semplice polo d’attrazione per i popoli d’oltrecortina. Eppure, un confronto tra le opinioni dei due filosofi, che ci si ripropone di fornire in forma più esaustiva in altra sede, non può che mettere in luce similarità che finora la storiografia, forse irretita dalle discrepanze politiche, non ha saputo individuare. Entrambi ostili agli Stati-nazione e convinti che solo il federalismo possa preservare le qualità delle singole nazioni e culture, Rougemont e Campagnolo giudicano centrali, nella loro definizione di Europa, il pensiero storico, identificato come motivo specificamente europeo, e la prospettiva religiosa, vale a dire i valori del cristianesimo. Essi sono accomunati dall’idea che l’Europa non sia un fine, bensì uno strumento per raggiungere altri scopi, e paradossalmente è forse questa convinzione il loro maggiore contributo alla causa dell’integrazione del continente. Un’Europa federale fondata sul liberalismo e sul socialismo di discendenza proudhoniana è infatti per Rougemont una via per garantire il libero sviluppo della persona umana, mentre Campagnolo, con la «politica della cultura», si interessa alla metodologia della cooperazione intellettuale, che, per essere posta in atto, necessita di strutture federali e appunto di una cultura autonoma dai fini politici. Considerate tali premesse, la grande affinità tra Rougemont e Campagnolo sul tema dell’universalismo europeo appare lampante, e infatti gli attacchi a Rougemont e al suo «dialogo delle culture», ritenuto un concetto eurocentrico, giungono dagli stessi accusatori del filosofo italiano. Quanto Campagnolo afferma a proposito della «civilisation de l’universel», la quale condurrebbe all’integrazione delle culture e non alla supremazia di una cultura sulle altre, Rougemont lo esprime in relazione alla persona umana, definita «il principale motore dell’“avventura” europea e occidentale».
Rougemont e Campagnolo non sono intellettuali “esperti” o “tecnici”, né si dimostrano inclini a un engagement classista e antiborghese di tipo sartriano, dal momento che sono favorevoli all’uomo di cultura che, per via della sua formazione e per desiderio di ricerca della verità, dibatte di ogni aspetto riconducibile all’individuo e al cittadino. Essi sono parte di un ristretto, ma influente gruppo di pensatori che, nel dopoguerra, tenta di fornire una consistenza ideale all’essere europei, proprio mentre la gran parte degli uomini di cultura si volge verso altri ideali politici e morali. Sul finire del secolo scorso, lo storico Robert Frank ha infatti indicato la regola aurea, da allora significativamente mai messa in discussione dalla storiografia: gli intellettuali à la Sartre, a partire dagli anni Cinquanta, voltano le spalle all’Europa perché sedotti da altre questioni (la lotta tra comunismo e anticomunismo o la decolonizzazione), lasciando campo libero ai cosiddetti “tecnici” e causando «il deficit attuale d’immagine dell’Unione europea che, mancando di vettori sociali di comunicazione, stenta a […] suscitare fervore». La storiografia più recente, che ha potuto constatare in quali abissi l’Europa sia ancora capace di scendere, sembra in ogni modo appurare implicitamente come le idee sull’integrazione del continente siano principalmente idee morali, che affondano le loro radici ben più in profondità rispetto alle idee politiche. Queste ultime non sono che increspature superficiali dell’identità intellettuale europea, come dimostrano anche Rougemont e Campagnolo, tra loro politicamente così lontani eppure così vicini per via del loro convinto universalismo. La coscienza della crisi, infatti, accompagna costantemente il lavoro dello storico fin dai tempi antichi, ed è presenza pressoché ininterrotta nel discorso europeo dell’ultimo secolo – con momenti di più intensa discussione tra le due guerre mondiali, nei secondi anni Quaranta e negli anni seguiti alla caduta dei regimi comunisti di stampo sovietico e del dibattito sulla «fine della storia» –, tanto che essa può essere reputata consustanziale all’idea stessa di Europa e condizione tipica della riflessione su di sé da parte dell’homo europaeus. Nonostante le crisi, l’Europa continua a riconoscersi come una realtà almeno in parte impermeabile alle singole stagioni politiche, e alla base di tale identificazione si pone proprio il percepito universalismo della sua civiltà, come a suo tempo segnalato da Edgar Morin. Le continue prove che l’Europa è chiamata ad affrontare – ieri la guerra fredda, la decolonizzazione e l’antimperialismo, oggi la stagnazione economica, l’emigrazione e il terrorismo – si risolvono nell’idea che essa possa essere portatrice di principi valevoli per ogni uomo, sulla scorta di quanto già Benedetto Croce, in un contesto italiano ed europeo del tutto differente perché segnato dai totalitarismi, affermava, in conclusione alla sua Storia d’Europa nel secolo decimonono, augurandosi che delle nazioni europee potesse essere mantenuta viva, «se non la loro supremazia economica e politica», almeno «la secolare loro supremazia di creatori e promotori di civiltà, le loro acquisite attitudini a quest’opera incessante». I diversi aspetti delle vicende europee oggi maggiormente considerati dalla storiografia (la «Europeanization», gli effetti della cultura religiosa e il ruolo degli intellettuali), convincono in fondo a guardare con ottimismo non tanto alle vicende dell’Unione, quanto alla complessità dei fenomeni e alla rassicurante continuità dell’Europa della cultura. È dunque non smettendo di domandare per quali motivi (universali?) confidiamo nella legittimità di eventuali valori della nostra Europa che possiamo credere – se lo riteniamo augurabile – di salvarla.
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