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Il potere del calcio
di Giuseppe Galasso
Fra i tanti problemi che nella sempre interessante e felicemente puntualizzata, nonché ormai lunghissima, serie dei suoi fascicoli la rivista “Limes” propone all’attenzione dei lettori, quello presentato nel n° 5 del 2016 ha un interesse particolare. E ciò anche perché si tratta di un tema di indubbia e fortissima rilevanza nella vita sociale del mondo contemporaneo, al quale, tuttavia, quasi mai si guarda e che ancora meno si studia nella giusta prospettiva del suo effettivo rilievo: un rilievo che, come qui si conferma, è tutt’altro che settoriale, e che è, anzi, di una portata addirittura mondiale. Basta fermarsi alla copertina del fascicolo per capirlo già dal titolo (Il potere del calcio) e dal “soffietto” che lo accompagna («La palla è una sfera d’influenza manovrata dalle grandi potenze tra eventi, affari e pay tv»).
Si, il calcio, cioè il mondo al quale molti sacerdoti e vestali della “cultura” e tanti professionisti delle “cose serie” e della serietà della vita riservano una considerazione sdegnosa, ritenendolo occasione e manifestazione di una follia o istupidimento collettivo, potenziale reservoir di esplosioni di violenza e di fanatismo senza senso, nuovo oppio dei popoli in salsa post-industriale, pessimo surrogato di manie campanilistiche o nazionalistiche, e così via dicendo. E tale per alcuni versi il calcio, o,meglio, il ruolo che esso ha assunto nella vita contemporanea può essere giudicato. Detto ciò, nulla si toglie, però, all’imponenza del fenomeno e all’effettivo significato che esso è venuto assumendo soprattutto negli ultimi venti o trent’anni. E basta scorrere gli abstracts degli oltre venti articoli presenti nel fascicolo di “Limes” per convincersene, se ve ne fosse bisogno.
Così, ad esempio, Moris Gasparri parla della premier league britannica come del «nuovo impero britannico», che si regge su «l’alleanza fra i grandi club calcistici e i principali network globali». A ciò si deve anche «il primato mondiale del campionato inglese», per cui il calcio è diventato una grande «commodity televisiva», e si è trasformato in «un formidabile vettore della potenza anglo». Pippo Russo parla della «economia parallela del calcio mondiale», per cui «a margine del calciomercato ufficiale è cresciuto un sistema che lucra sulle compravendute» dei giocatori e li «tiene in scacco». Di «origini sudamericane», questo sistema ha prodotto «ramificazioni europee e italiane», sulle quali la Federazione internazionale del calcio (FIFA) «ha acceso un faro, ma le federazioni nazionali tacciono». Gian Paolo Caselli nota che «il calcio è sempre meno europeo»; che «diritti tv e finanza stanno sempre più de-europeizzando il calcio il più può essere giudicato veterocontinentale degli sport, spostandone il baricentro a est», determinando «il personalismo degli oligarchi russi», così come «la vernice modernista del Golfo», mentre «sul pallone Pechino si gioca addirittura la leadership mondiale».
Per quanto riguarda l’Italia, Luca Di Bartolomei esamina «chi comanda nel calcio italiano», con analisi di uno straordinario interesse, a cominciare da «le strane proprietà del calcio italiano» per la serie A del 2015-2016, che vengono anche presentate in una tabella (pp. 69-70) che fa perfino un po’ girare la testa per gli intrecci e i misteri che vi prevalgono in maniera schiacciante sulle (pochissime) certezze che vi si ravvisano. E non si può fare a meno di pensare, in questa materia, all’argomento strettamente affine trattato da Nicola De Ianni nel suo ancora recente volume su Il calcio italiano. 1898-1981. Economia e potere, edito da Rubbettino appena qualche anno fa. Lo ricordiamo perché, tra l’altro, sono minuziosamente esaminati molti bilanci di società di calcio, e vi si vede chiaramente come certi tipi di amministrazione degli “affari calcistici” non sono affatto dovuti alle molte e straordinarie novità degli ultimi anni, ma sono stati covati nel mondo del calcio da alquanto prima.
A sua volta, Fulvio Paglialunga (Il sonno del calcio genera Infront) guarda senza discrezione, com’era opportuno, ai «diritti televisivi come partita finanziaria e politica per condizionare i nostri club e assegnare quote di potere», per cui appare che «l’asta col trucco era in realtà un accordo», dal quale sono scaturite le multe inflitte dall’Autorità Antitrust a Mediaset (51,4 miioni), Infront (9 milioni), Lega di Serie A (1,9 milioni) e Sky (4 milioni). Dopo di che non sorprende che Augusto Preta possa parlare dei diritti TV come «anomalia italiana», mettendo a confronto le nostra con «le buone pratiche inglesi e tedesche». Non a torto, egli nota che «rispetto ai campionati europei il nostro sconta regole di attribuzione delle licenze audiovisivi intricate e inefficienti». E su «calcio e politica» si trattengono per la loro parte anche Ilvo Diamanti e Luigi Ceccarini, parlando di «declino triste delle nostre passioni» (anche se sul parallelismo che essi prospettano fra «urne e spalti sempre più vuoti», si può largamente dissentire per la radicale diversità genetica e rilevanza sociale e pubblica dei due campi di cui si tratta.
Sull’aspetto sociologico e sul significato sociale s’intrattiene Andrea Luchetta (Curve rette), trattando dello «scontro tra lo Stato e un movimento ultrà mai così debole e diviso», che a suo avviso «segnerà il destino del nostro calcio». La quale ci sembra, in verità, un’affermazione alquanto forzata ed esagerata, ma solleva un problema che è indubbiamente molto più serio di quanto appaia dalle cronache dei disordini e degli eccessi delle curve negli stadi e dei cosiddetti ultrà fuori degli stadi. L’articolo di Luchetta ci fa capire come si proceda molto a tentoni nell’affrontarlo, mentre quello di Mario Sconcerti (L’arte di conquistare spazio, principio e fine del gioco del calcio) ci fa capire l’evoluzione tecnica e interna del gioco come gioco, per cui risulta che «la tattica è meno importante di quel che ci piace credere», ma soprattutto emergono alcune dimensioni dello spettacolo calcistico che sono una premessa imprescindibile anche delle reazioni sociali rispetto ad esso.
Era, peraltro, inevitabile che questo percorso tematico portasse alla politica in senso più stretto e meno generale. Due autori trattano, infatti, di Berlusconi, del suo Milan, della parte del calcio nel suo carisma politico, degli aspetti tecnico-sportivi e di quelli organizzativi e finanziari della sua conduzione di una grande squadra assurta per alcuni anni ai vertici del calcio mondiale, delle di potere e non di potere all’interno di questo mondo sportivo e societario, delle varie fasi e della finale decadenza, se non dissoluzione, di questa, in ogni caso, straordinaria avventura ed esperienza. Se ne occupano Alberto De Sanctis e Davide Assael, e qui non si può negare che agiscano anche convinzioni e/o pregiudizi politici che variamente condizionano o orientano l’esposizione e il giudizio degli autori. Tuttavia, la materia è di per se stessa così ricca di interesse ed è così importante per i suoi nessi e per i suoi riflessi con la realtà sociale e politico-istituzionale del calcio italiano e non italiano che le pagine di De Sanctis e Assael si leggono con sicuro interesse per i molti dati e le molte informazioni di vario genere che indubitabilmente forniscono.
Il legame con la politica, ma questa volta su scala globale è poi più immediato e dichiarato nella terza parte del fascicolo di “Limes”, dedicata a La sfera come strumento d’influenza, che esamina in una diecina di articoli i moventi, le pratiche e i riflessi politici del calcio a livello globale. Si passa dalla scoperta di come «i jihadisti hanno gradualmente scoperto il potere del pallone», con il relativo «uso propagandistico dei club» e «le strategie di reclutamento nelle curve arabe» (Luciano Pollichelli), alla scoperta di come la Cina punti «sul calcio per lo sviluppo sociale, economico e d’immagine del paese», maturando «il sogno di vincere il Mondiale», per il quale «c’è ancora molto da imparare», ma lì «soldi e demografia aiutano», come anche si vede anche ricordando «gli interessi italiani in Cina e quelli cinesi in Europa» (Giorgio Cuscito). Si considera la Coppa del Mondo del 2018 come «terreno di scontro fra Russia e Occidente» per effetto di una decisione della FIFAche «ha scatenato le reazioni americane e britanniche culminate nella liquidazione di Blatter» al vertice della stessa FIFA, anche se «la linea delle sanzioni non è passata» (Mauro De Bonis).Asua volta l’aspirazione del Qatar a ospitare il Mondiale del 2022 appare rispondere a «un’ambiziosa strategia volta a promuovere, anche attraverso lo sport, un’immagine attraente e seducente dell’emirato», alla quale fanno, però, da ostacolo le «violazioni dei diritti umani», la «complicità col jihadismo» e l’«inesperienza comunicativa», che «stanno vanificando gli sforzi» di quel paese in tal senso (JamesM. Dorsey).
Jihadismo, Cina, Russia, Qatar: quattro casi diversi di interferenza strettissima tra mondo del calcio e strategie e azioni politiche. Per la Spagna, dove è maturato un modello «dominatore della scena europea», è e non è così. Si vede qui «dove nasce la ricchezza di Real Madrid e Barcellona», e si informa sulla «polemica degli aiuti di Stato al super-club madridista», ma si conclude proponendo «tre esempi da imitare» come succo dell’esperienza spagnola: «squadre B, scelta degli sponsor, cultura calcistica» (Luca Valdiserri). Tutto il contrario del caso del Brasile, esaminato da Giovanni Fontana, Il Brasile riparte da uno (a sette): spietata allusione alla storica sconfitta, per 7 a 1, infatti, della squadra brasiliana contro la Germania ai Mondiali del 2014, che «ha frantumato l’immagine di un calcio verdeoro insuperabile». Qui «clientelismo, potere degli sponsor e scelte tecniche poco coraggiose spiegano il declino», per cui «la cura è un salubre bagno di realismo».
Tutt’altro paesaggio è quello prospettato da Giovanni Armillotta, La rivincita del calcio d’Africa, che «da serbatoio umano per campionati europei» è passato «ai successi, anche organizzativi, in campo internazionale»: pagine, anch’esse istruttive, che sono simpaticamente dedicate «all’italiano Edwing Ronald Firmani», classe 1933, «primo calciatore africano a giocare nel nostro campionato» (con ,a Sampdoria nel 1955). E qui citiamo anche la conclusione di queste pagine, perché offre un serio motivo di riflessione: nei prossimi campionati «ci saranno tanti neri col passaporto bianco non perché siamo tutti fratelli e bisogna accoglierli, ma solo in quanto sono più bravi dei nostri calciatori e producono tanti soldi per chi ha avuto occhio nel “salvarli” dalla miseria del loro continente».
In realtà, come crediamo che si sia già capito da questo excursus tra i sommari degli articoli del fascicolo di “Limes” che abbiamo qui rapidamente esposto, materia di riflessione offrono tutti questi articoli. Il fenomeno dell’importanza che il calcio ha assunto nella vita civile di tutti i paesi del mondo promette solo di aumentare nel prossimo futuro sia nelle sue dimensioni, sia nelle sue implicazioni di ogni genere con l’economia finanziaria e con la politica del nostro tempo. Si consideri come sembri che si stia aprendo un’epoca di fortune del calcio di gran lunga maggiori di quelle che finora sono state le sue in un paese come gli Stati Uniti, con una ipotizzabile concorrenza, dagli esiti non facilmente prevedibili col baseball. Si consideri che il calcio societario di grandi paesi come l’India, il Pakistan, il Bangladesh, l’Indonesia (e, per certi aspetti, lo stesso Giappone) non è ancora entrato nel grande agone della concorrenza planetaria. Si consideri che a fare le fortune di un qualsiasi club o paese concorre innanzitutto la possibilità di disporre di autentici talenti e rivelazioni di grandi calciatori, il che è possibile tanto in ambienti ricchi: e che gli ambienti ricchi hanno interessi a coltivare queste possibilità in ambienti poveri. Si consideri che il rapporto tra lo sviluppo settoriale del calcio come sport è strettamente legato a strategie e possibilità di informazione in un mondo in cui le tecniche e i mezzi di comunicazione progrediscono a un ritmo sostenutissimo. Si considerino ancora altre interdipendenze e interferenze del calcio con la vita contemporanea (si pensi solo, a titolo di esempio, al problema degli stadi e di altri impianti per il calcio), e si comincerà finalmente ad avere una qualche idea pertinente e adeguata alla natura e alla portata del fenomeno.
Per l’Italia ha urgenze sportive e non sportive che è superfluo richiamare tanto sono visibili e note. Il calcio coinvolge, come si sapeva e come il fascicolo di “Limes” ampiamente conferma, fino in fondo la politica (nel senso, innanzitutto, di azione di governo) e l’amministrazione dei paesi moderni in misura certo (o, almeno, molto probabilmente) superiore di quanto avviene per altri sport. Le cronache non solo sportive, ma anche economico-finanziarie, politiche, sociali e culturali dell’Italia lo vanno mostrando ormai da molto, molto tempo. Una scorsa agli articoli di “Limes” non sarebbe una lettura inutile anche i politici e gli amministratori italiani. Una conferma di più dell’ottima scelta tematica dell’autorevole rivista diretta da Lucio Caracciolo.
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