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Tre profili di lavoratori dello stabilimento Olivetti di Pozzuoli negli anni Cinquanta: appartenenza e idealità, produzione e welfare aziendale
di Luigi Vergallo
1. Introduzione

A partire dallo studio di alcuni documenti d’archivio inediti, e sostenuto da fonti orali e dalla letteratura esistente, questo breve saggio ricostruisce in maniera sommaria e biografica i profili di tre lavoratori della Olivetti del secondo dopoguerra: uomini diversi fra loro per estrazione, dal punto di vista dell’attività lavorativa che hanno svolto e per il destino che hanno avuto. Uomini che hanno però attraversato le sedi dell’impresa di Ivrea da nord a sud, lavorando talvolta insieme e all’interno dello stesso sito produttivo. Tuttavia, la ricostruzione di questi profili biografici consente di analizzare qualcosa di più. A partire da quanto questi uomini hanno fatto presso lo stabilimento di Pozzuoli, si potranno trattare alcuni temi relativi al sistema aziendale in altre sedi sicuramente già approfonditi, ma che saranno tuttavia analizzati dal punto di vista di tre lavoratori che fra di loro si conoscevano e condividevano, in contesti esterni alla fabbrica, discussioni e scambi di opinioni sull’azienda presso cui si trovavano impiegati, e circa le mansioni che vi svolgevano: punti di vista, dunque, indubbiamente originali perché mediati da uno scambio continuo che travalicava i confini dello stabilimento investendo le vite private di questi uomini, per poi ritornare, dopo aver subito una trasformazione, tra i muri dell’impresa.
Diversamente da quanto fatto nel più ambizioso – e enormemente più ampio e sistematico –lavoro condotto da Roberta Garruccio e Roberto Rozzi nel 2005, questo saggio non intende dunque presentare una raccolta organica di testimonianze che costituiscano una sorta di etnografia, né scandagliare una “comunità di sentimento”1, bensì, al contrario, intende sfruttare l’originalità di tre punti di vista individuali che si sono condizionati fra loro ma sono comunque rimasti personali, come individuali e costrette a un certo isolamento erano le attività che essi svolgevano all’interno della fabbrica, come si cercherà di mostrare. Inoltre, il volume di Garruccio e Rozzi dava il suo apporto maggiore in relazione al periodo compreso fra gli anni Settanta e gli anni Novanta, mentre le vicende che qui si presentano si erano negli anni Settanta già chiuse, o si andavano comunque chiudendo.
Alcuni dei temi che saranno trattati sono quelli, in parte già noti, relativi al welfare aziendale, anche “autorganizzato” (e ci soffermeremo in particolare sul sistema di prestiti interno); saranno poi toccati alcuni aspetti più strettamente personali che restituiscono però contenuti originali capaci di mettere a fuoco alcuni angoli oscuri della storia olivettiana. Parleremo dunque dell’ergastolano Carlo Corbisiero; di un attentato alla dinamite avvenuto a Pozzuoli – con tanto di errore e dunque di scambio di persona –; del rapporto professionale ma affettuoso fra il direttore dello stabilimento e la psicologa di fabbrica; delle relazioni da lei scritte sui dipendenti; di quelle scritte invece dal medico e che lanciavano un accorato richiamo circa la situazione di indigenza vissuta da molti operai; della tristezza di un direttore d’impianto per la sua partenza da Ivrea destinazione Pozzuoli (confidata a un amico) e poi invece della sua tristezza al momento della partenza da Pozzuoli (riportata addirittura da alcuni giornali locali), e così via…



2. La Olivetti e lo stabilimento di Pozzuoli

Fondata il 29 ottobre del 1908 dall’ingegner Camillo Olivetti, la società Ing. C.Olivetti & C. aveva come obiettivo la produzione di macchine per scrivere. Si trattava, per il territorio italiano, della prima fabbrica di questo tipo: 20 dipendenti, una officina di 500 metri quadrati e la conoscenza diretta e approfondita delle tecnologie americane, che il fondatore aveva potuto studiare negli anni precedenti. Due elementi, di tipo molto diverso fra loro, connotarono da subito in senso moderno l’azienda: da una parte l’introduzione di periodici corsi di aggiornamento per operai e impiegati e, dall’altra, la costituzione di una associazione mutualistica alimentata in modo paritetico dalla direzione e dai dipendenti (come vedremo, a Pozzuoli la direzione avrebbe poi invece contribuito in una proporzione di tre a uno).
Così, all’Esposizione Universale di Torino del 1911 fu presentata la prima macchina per scrivere completamente italiana, la M1. La Olivetti conquistò in questo modo le prime commesse per la fornitura di macchine da scrivere ai Ministeri della Marina e delle Poste e, nel 1913, gli addetti erano già diventati 110 (con una produzione settimanale di 23 macchine per scrivere)2.
A guerra finita, quando l’impresa poté ritornare alla sua attività core abbandonando la produzione di materiale bellico, Camillo maturò la decisione di investire all’estero. Egli era infatti persuaso che la nuova macchina da scrivere, la M20, fosse un prodotto molto ben riuscito e vendibile in quantità davvero importanti. Nel 1920 essa fu esposta alla Fiera internazionale di Bruxelles, e lo stesso anno in quella città venne aperta una filiale autonoma dell’azienda di Ivrea, che si affiancava alla creazione di un primo network di vendita per Argentina, Uruguay e Paraguay3. In relazione a queste filiali aperte all’estero, Camillo cercò di salvaguardare criteri di fiducia che si basavano essenzialmente sull’italianità dei dirigenti, assicurandosi così la trasmissione delle informazioni fra la filiale e la casa madre e anche “il controllo delle conoscenze”: la stessa direzione tecnica degli impianti era infatti affidata a personale italiano, mentre il solo personale impiegatizio e tecnico di più basso livello veniva assunto in luogo4. Vedremo che qualcosa di analogo sarebbe poi accaduto al momento dell’apertura dei nuovi stabilimenti nel Mezzogiorno italiano. Il 1924, intanto, fu l’anno dell’ingresso in azienda di Adriano.
Ma furono gli anni Trenta a sancire l’internazionalizzazione dell’impresa, con la creazione di fabbriche e sedi commerciali in Europa, America Latina, Medio Oriente e Africa, fino al punto che alla fine del decennio un terzo del fatturato sarebbe poi stato realizzato all’estero5. La prima consociata industriale era nata a Barcellona nel 1929; ma a livello commerciale, nel 1933, l’Olivetti era già presente in 22 paesi6.
Nominato Direttore Generale nel dicembre del 1932, Adriano Olivetti aveva intanto avviato una serie di interventi sociali finalizzati al miglioramento della formazione7 e delle condizioni di lavoro e di vita degli operai. Nel 1934 costituì i servizi sociali e l’asilo di fabbrica; nel 1935 il Centro Formazione Meccanici per la preparazione degli operai specializzati; nel 1936 aumentò di una settimana le ferie concesse rispetto al contratto nazionale, ed entrò in funzione anche il servizio mensa; nel 1937 furono istituiti il servizio di trasporto automobilistico per i dipendenti e l’ufficio assistenti sociali. Nello stesso anno, la Olivetti promosse la realizzazione a Ivrea di un quartiere residenziale destinato ai lavoratori e progettato dagli architetti Figini e Pollini. Nel 1938, infine, Camillo lasciò al figlio Adriano la presidenza dell’impresa8. Iniziano qui, sostanzialmente, le storie che si ha intenzione di narrare in questo breve saggio. L’azienda superò senza particolari problemi la seconda guerra mondiale e, dopo il 1945, era pronta a lanciare alcuni nuovi prodotti di straordinario impatto commerciale: la macchina per scrivere Lexicon 80 (1948), la calcolatrice Divisumma (1948) e la macchina per scrivere Lettera 22 (1950). Fu ricostruita la fabbrica di Massa Carrara, distrutta dalla guerra, e nel 1950 fu edificata a Ivrea quella dalle pareti di vetro. Nel 1955 furono inaugurati lo stabilimento di Pozzuoli, il palazzo di Via Clerici a Milano e il centro studi di Ivrea. Fu ampliato lo stabilimento di Agliè. Fra il 1956 e il 1957 furono aperti a Ivrea lo stabilimento di San Bernardo e quello di San Lorenzo. Nel frattempo, Olivetti aveva creato la casa editrice Comunità, che pubblicava l’omonima rivista, e nel 1947 aveva fondato l’omonimoMovimento, con l’intento di favorire nuovi equilibri politici e sociali9.
La decisione di aprire un sito produttivo nel Mezzogiorno non fu una scelta completamente autonoma di Adriano Olivetti, perché rispose anche, da una parte, a “un autorevole suggerimento” di Pietro Campilli, ministro dell’industria, e dall’altra a rispondere ad una analoga iniziativa “di una temibile concorrente estera”, la Remington, che intendeva approdare nel sud Italia avvalendosi delle facilitazioni previste dallo Stato italiano10.
Lo stabilimento di Pozzuoli, pensato inizialmente per la produzione di telescriventi, avrebbe poi prodotto soprattutto addizionatrici e macchine da scrivere. Si sviluppava su un terreno di sei ettari sotto il monte Campiglione, e fu inaugurato ufficialmente il 23 aprile del 1955. Collocato al 57° chilometro della Via Domitiana che corre lungo il mare, di fronte alla Baia famosa (racchiusa tra CapoMiseno e il promontorio di Posillipo), era stato progettato dall’architetto napoletano Luigi Cosenza, il quale aveva inserito il complesso degli edifici su schemi planimetrici a croce, così da garantire a ogni punto della fabbrica la partecipazione al verde dell’esterno. La fabbrica risultava ben adeguata al clima locale in virtù di un intricato sistema di sbalzi, coperture, frangisole, pergole e elementi di vegetazione. Lo stabilimento, comprensivo dell’officina, del montaggio, dei trattamenti termici e della centrale termica ed elettrica (7.820 metri quadrati) e della direzione (1.890 metri quadrati), dava lavoro a 450 persone tra operai e impiegati: «Noi non diremmo che la bellezza della fabbrica li renda felici: sono uomini e donne entrati a far parte della Organizzazione Olivetti dopo lunghissimi periodi di disoccupazione, e si trascinano dietro un passato di privazioni»11. Un altro gruppo di fabbricati era destinato all’assistenza sociale e ai servizi: l’infermeria (760 metri quadrati), la biblioteca, la mensa e la cucina (1.100 metri quadrati) e gli spogliatoi (1.780 metri quadrati). Tutti i fabbricati nel complesso coprivano un’area di 24.000 metri quadrati, con un volume di 110.000 metri cubici12.



3. Tre profili di lavoratori e lo stabilimento di Pozzuoli

Alcide Ferrera veniva da un’umile famiglia di piccoli produttori di vino della provincia di Novara. Era molto bravo, studiò e prese il diploma da perito industriale. Era nato nel 1923 e, dopo essere stato renitente alla leva della Repubblica di Salò, si era laureato in ingegneria meccanica fra il 1945 e il 1948, entrando poi alla Olivetti nel 1949 perché aveva un parente – “lo zio Alfonso” – che conosceva bene l’ingegner Modigliani, che lavorava appunto presso l’azienda di Ivrea. “Zio Alfonso” possedeva una cava di granito, era un po’ asceso socialmente e aveva quindi avuto modo di conoscere l’ing. Modigliani, che faceva le vacanze nella zona di residenza della famiglia Ferrera13.
Gli stessi colleghi di Ferrera ricordano ancora con precisione quel pezzo della sua storia personale precedente all’assunzione ad Ivrea:
[Ferrera] era molto sicuro di sé. Orfano del padre, aveva studiato aiutato dalla madre, e si era diplomato perito industriale. Poi in quegli anni di guerra aveva insegnato forse a Novara in un istituto tecnico e si sentiva professore, insomma. Durante la guerra al Politecnico potevano entrare anche i periti, direttamente, e così si era laureato14.


Alcide Ferrera lavorava a Ivrea al montaggio delle telescriventi, e quando Adriano Olivetti decise di aprire al sud, a Pozzuoli – dove aveva comprato degli agrumeti, aveva affittato dei capannoni15 dello stabilimento Ansaldo e aveva messo in piedi il montaggio delle telescriventi per cominciare subito le lavorazioni (con 77 dipendenti) intanto che partiva la costruzione dello stabilimento poi inaugurato nel 1955 – non aveva potuto non pensare a lui16. La scelta di Ferrera era probabilmente da ricondurre ad alcune qualità che egli aveva già dimostrato a Ivrea, e che i suoi colleghi gli riconoscevano e ricordano bene anche oggi: ‹‹Ferrera era un bravo direttore, una persona valida e diligente, che sapeva organizzare molto bene››17; ‹‹Ferrera tante volte che io ero lì a lavorare veniva a fare il giro e si fermava dai lavoratori, specialmente gli attrezzisti che facevano le attrezzature, proprio i migliori diciamo, e lui si fermava e guardava i lavoratori alle macchine americane e non parlava. Poi un giorno mi ha detto “quando vai a guardare non devi commentare, devi guardare e andare via. L’altro capisce subito”››18. Nello stesso tempo, come già sottolineato in precedenza, la Olivetti intendeva muoversi in relazione a questo stabilimento nel sud Italia analogamente a come aveva fatto in occasione delle prime aperture di filiali all’estero, vale a dire mantenendo il controllo da Ivrea e garantendo lo scambio delle informazioni fra la sede “centrale” e quella “distaccata” facendo affidamento su personale dirigente mandato lì appositamente, e limitandosi ad assumere in loco il solo personale produttivo.
Il sorgere dei primi corpi di fabbrica nel 1953 consentì intanto il trasferimento in quei locali di alcune maestranze che si dedicarono alla produzione dell’addizionatrice “Summa 15”, ciò che portò già i lavoratori al numero di 45019. Il 1° giugno del 1953, a 30 anni, mostrando di accedere velocemente a una certa carriera, Alcide Ferrera fu nominato dirigente20. Così gli scrisse l’amico Willy in una lettera privata del 13 giugno 1953.

Bravo! Sei con ampiomargine il più giovane dirigente tecnico dell’Olivetti e questo deve essere per te un bel titolo di orgoglio. Anche il tuo prestigio laggiù acquisterà nuova importanza per questa promozione. Ricordi la sera triste in cui siamo andati a Borgognano con la tua vespa a bere per consolarci dell’annunciata prossima partenza per Napoli? Vedi come spesso nella vita ciò che non si vorrebbe avvenisse, avviene invece per il nostro bene! […] Immagino la gioia dei tuoi e della tua fidanzata. Il povero C. [intervento di abbreviazione nostro] ha così visto svanire le ultime speranze, perché oramai non può più competere, e quindi ha deciso di affrettare il suo matrimonio (naturalmente dopo le ferie; però subito dopo). Però sono cattivo, vero? Non farci caso21!


Ferrera in effetti si sposò nel 1954, e nel 1955 nacque il figlio Maurizio, a Napoli, perché Alcide si era appunto nel frattempo già spostato a Pozzuoli (dopo aver rifiutato l’Argentina) per seguire la produzione delle telescriventi22.
La già ricordata inaugurazione dello stabilimento campano fu un evento mondano seguito con viva partecipazione dalla stampa locale – di Pozzuoli e di Ivrea23 – e naturalmente il numero successivo di ‹‹NotizieOlivetti›› ne diede ampio riscontro. In quell’occasione Adriano Olivetti aveva pronunciato il famoso discorso sui fini delle imprese, da ricercare non nei crudi profitti ma nella soddisfazione e realizzazione delle persone coinvolte nelle attività produttive. Alla inaugurazione avevano partecipato ilMinistro dei Lavori Pubblici Romita, giunto per inaugurare il complesso di abitazioni realizzate a Pozzuoli per i dipendenti della Olivetti nel contesto del Piano Ina-Case (ciò che spiegava anche la presenza dell’ing. Bongioanni, direttore tecnico dell’ente) e il Vescovo di Pozzuoli, cui si erano aggiunti successivamente i ministri Gava, Campilli, Henry Tasca (capo dellamissione americana), i sottosegretari di Stato Bosco e Cortese e così via... oltre naturalmente a Dino e Adriano Olivetti e a Rigo Innocenti e Alcide Ferrera, rispettivamente direttore di stabilimento e direttore tecnico24.
I rapporti tra i due direttori, che a Ivrea erano stati ottimi (anche intimi e personali e capaci di vivere al di fuori dell’azienda), a Pozzuoli si sfilacciarono un po’: non si logorarono, né vi fu un peggioramento, ma si fecero decisamente più formali. Si potrebbe forse ipotizzare che fra i due si fosse generato un problema di attribuzione di ruoli, e questo potrebbe anche spiegare perché a un certo punto fu mandato da Ivrea un altro dirigente – non siamo in grado di attestarne con certezza il motivo – che aveva il compito di controllare la correttezza dell’operato dell’ingegner Ferrera. Ispezione che ad ogni modo si risolse con un giudizio del tutto positivo circa il lavoro svolto da questi fino a quel momento25.
Iniziava così ufficialmente l’attività dello stabilimento che, come si può immaginare, ebbe un impatto estremamente rilevante su Pozzuoli e sui paesi limitrofi. I coniugi Ferrera abitavano al Vomero e la signora, naturalmente ben conosciuta nella zona, era oberata da richieste di assunzione e di raccomandazione. Erano molto circuiti, i coniugi Ferrera, erano molto ben visti, e anche il vescovo li aveva invitati per un ricevimento. Una signora aveva fatto al suo bambino un vestitino da frate, e l’aveva mandato a pregarli di fare assumere il padre alla Olivetti. La signora Carmela, da Pozzuoli, andava col pesce fresco per Maurizio, il figlio di Alcide Ferrera: portava la sogliola, e intanto raccomandava il figlio perché potesse essere cooptato in azienda26. Naturalmente, qualche volta (tre, o forse quattro) è accaduto che queste richieste andassero a buon fine. La signora Ferrera telefonava alla signorina del personale e forniva il nome del fortunato, ma i candidati passavano ad ogni modo attraverso prove piuttosto severe. L’autista di Alcide Ferrera era il signor Nicola Viserta, anch’egli entrato secondo le procedure appena descritte. Nicola, napoletano, era un ex carabiniere. Non sempre, però, le cose filarono lisce. Una volta vi fu uno sciopero, alla mensa, perché secondo gli operai i cuochi avevano servito la pasta “erta”, avevano fatto la pasta troppo dura, e tra gli scioperanti c’era il marito della donna delle pulizie dei Ferrera – la signora Angelina – assunto da circa cinque mesi. Questi signori vivevano in un “basso”, e lei faceva i servizi a ore, nonostante fosse tubercolotica e incinta del terzo o del quarto figlio. Loro avevano fatto assumere il marito e lui, un ex falegname, scioperò per il motivo suddetto, procurando a Ferrera un grosso dispiacere. Per togliere la famiglia dal “basso” l’azienda avevano anche assegnato loro una delle abitazioni fatte costruire sulla Via Domiziana, anche perché la stessa bimba era poi nata tubercolotica e, nonostante laOlivetti avesse pagato per lei una clinica privata, la bambina era successivamente deceduta27.
Questa vicenda ci consente un piccolo inciso su due temi di estrema importanza: l’emergenza alloggi, appunto, e quella connessa alla malnutrizione dei dipendenti. Al 1955 le case costruite dalla Olivetti attraverso il piano Ina-Casa erano già 47, per 324 vani complessivi oltre quelli comuni ed i garage. Le case erano esse stesse ubicate – come detto – lungo la via Domitiana, e costituivano un piccolo quartiere a sé stante. Poiché i nuclei familiari erano molto numerosi, gli alloggi constavano in media di 4-6 vani28. Capire l’importanza di questa operazione non dovrebbe risultare troppo difficile. La totalità dei dipendenti o quasi si trovava in situazioni che possono essere definite pessime. Soprattutto a Pozzuoli, dove dopo il secondo conflitto mondiale si era costruito pochissimo, la situazione era questa: in ogni abitazione vivevano 3,1 persone per stanza e 2,1 per letto. Quasi nessuna abitazione disponeva di un bagno e 15 famiglie su 50 vivevano in un solo locale. Nessuno degli operai, stimava l’azienda, avrebbe potuto permettersi di affittare un’abitazione ritenuta “sana” dal punto di vista sociosanitario. Una volta realizzate le abitazioni per i dipendenti, la Olivetti emise anche un prestito privo di interessi di 600.000 lire per nucleo familiare, al fine di provvedere all’arredamento. A coloro i quali non erano rientrati subito nell’assegnazione delle case, furono invece concessi prestiti considerevoli per l’acquisto o per l’affitto di una nuova abitazione29.
Le condizioni economiche precarie dei dipendenti erano state individuate dai servizi sociali di fabbrica come uno dei tre punti di criticità da affrontare con tempestività. Quasi tutti uscivano infatti ‹‹da un periodo più o meno lungo di disoccupazione, il loro tenore di vita era molto, molto modesto. Ci trovavamo di fronte a persone che avevano bisogno di tutto, non solo, ma che venivano in ditta già cariche di debiti, e che dovevano quindi cominciare non da zero soltanto, ma da sotto zero››. Oltre ai prestiti già ricordati e concessi per arredare la casa, o per il matrimonio, la Olivetti garantiva anche un fondo – a disposizione diretta dell’assistente sociale – destinato a far fronte ad alcune situazioni contingenti come la necessità di un allattamento artificiale, o per i contributi scolastici; oltre a ciò, operava il fondo di solidarietà interna in precedenza già ricordato30. Insomma, alcuni capitali erano anche a disposizione diretta di determinate figure di fabbrica, ciò che talvolta ha poi forse prodotto nei protagonisti ricordi, a questo proposito, un pochino distorti. Lo stesso ingegner Mosca, uno dei lavoratori intervistati per questa ricerca, ricorda di certe voci che giravano nello stabilimento: ‹‹Una cosa che mi dicevano è che alcuni dipendenti, quelli che stavano non male, prendevano lo stipendio e prestavano i soldi ad altri, anche nel paese››; e questi ricordi si sovrapponevano in modo confuso al sistema di prestiti previsto invece dall’azienda come forma di welfare, e non sottoposto a interessi. Ricorda infatti ancora Mosca: ‹‹Anche Ferrera mi diceva ‹‹se hai bisogno di soldi, noi ti facciamo un prestito››31.
Arriviamo al tema malnutrizione: come si evince da un dettagliato rapporto inviato all’ingegner Ferrera dal medico di stabilimento, il dottor Edoardo Paggi, nel 1952 la Olivetti aveva coscientemente rifiutato di assumere esclusivamente i dipendenti per i quali fosse stata dichiarata la sana e robusta costituzione, rifiutando cioè di sancire in questo modo una discriminazione rispetto a una parte della popolazione locale. Pozzuoli, è noto, era zona depressa. I medici della Olivetti sottoposero tutti i 322 soggetti collocati in stato di pre-assunzione fino al 1956 al cosiddetto test di Pignet, l’indice di robustezza. L’altezza media dei candidati era pari a 167,62 centimetri, il peso a 60,58 e il perimetro toracico a 85,86. Il 39 per cento circa dei soggetti risultava debole e il 32 per cento robusto. Il 13% risultava addirittura “molto debole”. Il dato più preoccupante era però relativo ai giovani minori di 21 anni, che per oltre il 52% presentavano un indice di “debolezza”. La Olivetti rese subito operativi i Servizi Sanitari, e a totale carico della ditta fece acquistare grandi quantità di farmaci ricostituenti. Contemporaneamente, fu istituita la mensa aziendale32. Ricorda l’ingegner Mosca che almeno all’inizio il gruppo di 6-7 eporediesi aveva una tavola dove veniva servito un pasto ad hoc: ‹‹Poi questa cosa giustamente è stata superata e noi andavamo in mensa insieme agli altri con lo stesso menù. Sa che tanti si facevano riempire la pagnotta di pommarola e la mangiavano così?››33. Il menù era uguale per operai e dirigenti. Gli orari erano a fasce: prima gli operai del primo turno dell’officina, poi il montaggio ‹‹sennò erano troppi tutti insieme››. Si mangiava tutti insieme, non c’erano separazioni: ‹‹Pentoloni pieni di pezzi di merluzzo e foglie di alloro…››. Ben presto la razione della mensa fu però raddoppiata, perché tramite il lavoro della dottoressa Rita Franco – assistente sociale di stabilimento che con i suoi colloqui individuali e le sue visite a domicilio garantiva una forte penetrazione nelle vite dei dipendenti da parte della direzione aziendale, a fini di welfare – i vertici della Olivetti capirono che i nuclei familiari rinunciavano a mangiare così da sfamare l’uomo che si recava al lavoro. L’alimentazione tipo di un operaio della zona era infatti così costituita: a colazione pane e una tazzina di caffè; a pranzo pane con verdura, pomodori o salumi; a cena un solo piatto caldo che poteva essere pastasciutta o minestra, oppure pesce e molto più raramente carne. Nelle famiglie degli operai si cucinava soltanto la sera, quando rientrava il capofamiglia, il quale ‹‹mangia[va] da solo e la famiglia consuma[va] poi quello che rimane[va], perché [era] tradizionale che, vista la scarsezza di cibo, [dovesse] nutrirsi prima chi lavora[va] e procura[va] da mangiare, per cui si [vedevano] molti casi in cui l’operaio gode[va] di una buona salute mentre la moglie ed i figli [apparivano] denutriti e gracili››34.
Questo sistema di welfare rendeva favorevole il clima all’interno dello stabilimento, i rapporti personali erano ottimi non solo fra i dirigenti ma anche ra questi e gli operai, e con alcuni di questi i Ferrera finirono col condividere nche numerose gite a mare.Molti fra i collaboratori e i colleghi di Pozzuoli ndavano insieme a teatro, al San Ferdinando. Erano tutti molto contenti di avorare in quel contesto, in effetti, e lo stabilimento procedeva nel migliore ei modi35. L’azienda era molto contenta del lavoro degli operai, che pur essendo x pescatori, o muratori, o ex contadini e comunque di certo non ex oerai, conseguivano risultati ottimi esprimendo una produttività più elevata di quella di Ivrea, anche se questo vantaggio era probabilmente da ricondurre alla differenza di età media fra le due fabbriche: ‹‹Per quanto concerne il rendimento, dato che in un’industria del nostro tipo, questo è esattamente determinabile dalla media di cottimo, i risultati sono stati senz’altro ottimi. Il paragone di rendimento medio tra lo Stabilimento di Pozzuoli e quello di Ivrea, presenta un vantaggio a favore di Pozzuoli di qualche unità per cento››36.
Anche con l’assistente sociale, la dottoressa Franco, i Ferrera facevano spesso cene fuori, al lago di Lucrino, per esempio: si trattava di cene molto lunghe e allietate da canti finali, cui partecipavano molti fra i lavoratori dello stabilimento:

Ferrera a volte mi diceva “ti porto a casa io, con l’autista Nicola”; io ero a Mergellina e mi lasciavano lì, poi loro salivano. Sennò c’erano due pullman che passavano da lì. Io arrivavo col pullman a Mergellina, però quando Alcide era scapolo perché la moglie magari veniva su [a Ivrea] per qualche motivo allora diceva “andiamo al cinema stasera, passo a prenderti”. Allora veniva da solo, senza l’autista, e andavamo al cinema. Una volta mi ha portato alla Fiera di Oltremare, dove c’erano musica e tavole imbandite37.


Nessun rapporto fuori dallo stabilimento intrattenevano invece i Ferrera con la segretaria, la signora Cavallo, che era sorella del rettore Cavallo dell’università di Torino. Lo stesso discorso valeva invece per il medico di fabbrica, il dottor Paggi.
Eppure, lo stabilimento di Pozzuoli non viveva soltanto nella spensieratezza. A un certo punto, il 25 ottobre del 1955, un episodio arrivò a incrinare il clima collaborativo e positivo che l’azienda e i dirigenti di Pozzuoli erano riusciti fino a quel momento a garantire:

Un episodio che sulle prime era apparso di più allarmanti proporzioni, ma che si è ben presto ristretto nei suoi veri limiti, ha avuto a verificarsi poco lontano dall’ingresso degli stabilimenti “Olivetti” di Pozzuoli. In quella località transitava, alle 19.45 dell’altra sera, la 1100 dell’ing. Alcide Ferrera, direttore di produzione dello stabilimento stesso. A bordo erano l’ing. Ferrera, la signorina Adriana Cavallo, sua segretaria, ed un’altra dipendente della ditta, la signora Cioffi, dell’ufficio approvvigionamenti. Al volante era l’autista Nicola Viserta. La macchina era appena uscita dal cancello ed aveva percorso 3 o 4 metri allorché quelli che vi erano a bordo vedevano volare verso di loro un oggetto e un attimo dopo udivano, alle loro spalle, un fragoroso scoppio38.


Ferrera fu molto preoccupato e impressionato dall’episodio, seppur fosse confortato in quel frangente da centinaia di lettere e telegrammi di solidarietà piovutigli addosso da Pozzuoli e da Napoli, da Ivrea e da Torino, e anche da numerosi conoscenti e colleghi sparsi in giro per l’Europa. Semplici amici, operai, grossi dirigenti e politici non fecero mancare a Ferrera la loro solidarietà. Uno dei pochi testimoni dell’attentato era Carlo Corbisiero, ex ergastolano condannato ingiustamente, che la Olivetti aveva voluto assumere a mo’ di risarcimento sociale e che in quel periodo si trovava occupato a Pozzuoli presso la biblioteca del quartiere Ina39:

Poco dopo allarmati dal fragore della detonazione accorrevano dallo stabilimento Olivetti il capo sorvegliante Antonio Annibale, il dottor Rigo Innocenti, dirigente di fabbrica e quel tale Carlo Sorbisiero [Corbisiero, sic], (colui che dopo essere sfuggito all’ergastolo grazie ad un processo di revisione assai clamoroso era stato assunto dalla ditta di Ivrea in questi ultimi tempi), e che transitava nei pressi. Resosi conto di essere scampato miracolosamente ad un attentato, l’ingegner Ferrara [sic] risaliva a bordo della propria vettura cui le schegge avevano frantumato i vetri e qua e là forata la carrozzeria, e si portava immediatamente al commissariato di polizia di Pozzuoli, dove raccontava l’accaduto40.


Le indagini avevano preso ben presto la direzione che si sarebbe poi rivelata corretta. In quel periodo i criteri adottati dalla direzione per l’assunzione del personale si erano fatti più restrittivi: in altri termini, agli operai che domandavano di essere assunti si richiedevano particolari e speciali requisiti tecnici, ciò che inizialmente non era invece avvenuto, come si è già avuto modo di mostrare. A parere dei Carabinieri – che avevano consultato scrupolosamente l’elenco dei candidati alle nuove assunzioni – l’azione intimidatoria era dunque maturata nel cervello di uno degli uomini che erano risultati esclusi41. Tuttavia, quando fu tratto in arresto l’attentatore, il trentaseienne Giuseppe Ercole (ex operaio dell’Ansaldo), si ricostruì una spiegazione dell’accaduto un pochino diversa:

Nel corso delle indagini si è appreso che l’Ercole disturbava da una ventina di giorni l’ing.re Innocenti per essere assunto: si recava a casa dell’ingegnere, lo aspettava allo stabilimento e gli parlava sempre con atteggiamento minaccioso. Invitato ad un “colloquio informativo”, non veniva ammesso perché non ritenuto idoneo alle lavorazioni della “Olivetti”. Con enorme imprudenza, il giorno successivo al lancio della bomba, l’Ercole si era di nuovo recato dall’ing. Innocenti reclamando l’assunzione al lavoro e ieri mattina è stato arrestato proprio mentre era fermo nei pressi dello stabilimento. È confermato che il grosso petardo era diretto contro l’ing. Innocenti, che l’Ercole riteneva erroneamente fosse nella 110042.


Ferrera era entusiasta e innamorato dellaOlivetti: era stato il suo primo lavoro (e sarebbe stato anche l’unico), e gli aveva peraltro garantito una carriera veloce. Per tutti questi motivi non fu facile, per lui, andare via da Pozzuoli – dove si era trovato molto bene – quando il 6 settembre del 1956 l’azienda ordinò il suo trasferimento ad Agliè, a parere di alcuni fra i suoi colleghi in seguito ad alcune minacce ricevute e all’attentato di cui abbiamo appena ricostruito la storia43.
Ad Agliè le cose erano diverse, da tutti i punti di vista. La moglie del custode dello stabilimento aveva provato anche lei a farsi assumere lì, e faceva i maglioncini per il bimbo dei Ferrera, ma giunta al colloquio all’ufficio del personale le avevano detto ‹‹ma l’ingegner Ferrera non sa che marito e moglie non possono lavorare nello stesso posto?. E lei se l’era poi presa con lui…››44. Anche la Olivetti non era forse la stessa, fra Pozzuoli ed Agliè, e una certa nostalgia si faceva sentire:

L’ingegnere Alcide Ferrera era a Napoli da soli quattro anni, veniva da Ivrea, con una giovane moglie d’Aosta e un bambino natogli a Torino45: ma era sinceramente disperato il giorno in cui gli giunse l’ordine di trasferimento in Piemonte, nel suo Piemonte. ‹‹Venderei tutta Torino per restare ancora a Napoli›› diceva l’ingegnere Ferrera: e non voleva certamente offendere il Piemonte ma soltanto mettergli accanto, almeno nel suo cuore, la sua seconda patria, quella Napoli in cui aveva trovato comprensione e affetto, tolleranza e saggezza, gentilezza e allegria, le doti che sovente si dimenticano di questi meridionali che hanno fatto il Risorgimento non per litigare ma per vivere d’accordo col resto dell’Italia46.


A un certo punto, con direttore Volponi, Alcide Ferrera era venuto via dalla Olivetti di Caluso (lo Stabilimento di Produzioni Elettromeccaniche), cui era stato destinato il 15 gennaio del 1962 come direttore47: ‹‹Perché stavano passando ai computer, e lui non era tanto contento degli americani, voleva rientrare alla Olivetti››. Aveva parlato con Roberto Olivetti che lo aveva incaricato di andare in giro a vedere le filiali di vendita. Solo che poi era saltata tutta l’organizzazione e lui si era trovato senza posto, così aveva chiesto di nuovo e gli avevano detto ‹‹se non le piace può andare via››, e c’era rimasto male. Poi, invece, era andato a Crema..48.
A Ivrea lavorava anche l’ing. Guglielmo Lanza (1920), ai Progetti: era entrato anche prima di Ferrera, nel 1947. A Pozzuoli lo stabilimento non esisteva ancora. Lanza era stato assunto alla Olivetti dopo aver passato due anni alla Fiat, perché aveva visto sul giornale uno “strano” avviso: ‹‹impresa industriale piemontese cerca un ingegnere elettrotecnico addetto alle telescriventi››. Non diceva Olivetti, ma in Italia chi altro poteva produrre macchine per ufficio? ‹‹Allegare elenco di tutti gli esami fatti al Politecnico, con le votazioni››. Lanza si era laureato nel giugno del 1945. Era entrato subito alla Fiat, come detto, dove si era occupato della realizzazione di alcuni impianti presso le miniere di talco nel pinerolese[…]. Finita la guerra lo avevano infatti “mandato su” per costruire da zero i sistemi elettrici ed idraulici: l’obiettivo finale era di aprire uno stabilimento piccolo di una ditta del gruppo Fiat che faceva prodotti chimici. Aveva lavorato lì un annetto, poi finito quell’impianto aveva continuato la manutenzione nello stesso posto, ma non trovava più soddisfazione nel lavoro e allora aveva risposto all’annuncio della Olivetti. Aveva ricevuto un appuntamento per un colloquio da tenersi il sabato pomeriggio, e vi aveva trovato Adriano Olivetti, il quale lo aveva intervistato personalmente, per quasi due ore. Lanza, che preparandosi per quell’incontro aveva studiato tutto quanto aveva potuto sulle telescriventi, certo non sospettava che Adriano Olivetti gli avrebbe invece domandato di Sant’Agostino, per poi passare a Sant’Ambrogio. Egli, peraltro, non conosceva ancora Adriano Olivetti: ‹‹Io cerco un ingegnere, ma se non potessi offrirle questo posto e la invitassi invece per scrivere su un giornale, in quale sezione vorrebbe scrivere? Politica, economia, cultura?››. “Aspetti tecnici”, era stata la risposta. Chissà se Olivetti aveva forse pensato di assumere quel giovane ingegnere per farlo scrivere per una delle sue riviste49.
Lanza riscontrò subito, evidentemente, una enorme diversità fra la Fiat e la Olivetti:

Qualunque azienda produce e poi incarica qualcuno per la vendita, invece la Olivetti faceva tutto direttamente. Le contabili Olivetti non c’era in Germania una banca che non le avesse. A New York aveva il negozio nella Quinta Strada. Colonie, mutua, case per i dipendenti50.


La figura di Adriano Olivetti sembra aver coinvolto questi lavoratori in primo luogo in virtù della sua capacità di farli sentire parte viva dell’impresa in cui lavoravano:

Quando ha inaugurato lo stabilimento di Pozzuoli nel 1955… avevano selezionato del personale, lo avevano istruito, poi avevano cominciato a lavorare e intanto aveva fatto costruire lo stabilimento che era un gioiello architettonico… aveva dichiarato che il fine primo era il benessere dell’operaio e delle famiglie. Attentato a Togliatti: sciopero in tutte le fabbriche. Fabbriche della Olivetti occupate e guardie cacciate. Il secondo giorno Adriano si presenta e dice ‹‹ma voi siete qui anche la notte? E quelli che passano la notte dove dormono?››. E ha mandato le brande della colonia51.


Tutti racconti che si sentivano in fabbrica, e chissà, se non erano veri erano certo del tutto plausibili. Come la storia di quando gli amici di Adriano avevano organizzato la fuga di Turati. Fra Fiat e Olivetti era molto importante la differenza di carattere economico dal punto di vista dello stipendio; differenza resa possibile anche dagli enormi margini di profitto che l’azienda riusciva a ottenere. La Divisumma, che era considerata il gioiello della Olivetti, veniva a costare come produzione 25.000 lire, per la costruzione e il montaggio in officina. Poi c’era la parte commerciale, e questi costi di distribuzione ammontavano ad altre 22.000 lire: in totale erano 47.000 lire per ogni macchina. E le vendevano a mezzo milione, dieci volte tanto; quindi, così se lo spiegavano i dipendenti, erano buoni anche gli stipendi. Poi c’era un conguaglio in nero che era addirittura superiore a quell’altro, e c’era un’impiegata che aveva un quadernetto in cui segnava tutto quanto. Quando poi, dopo Adriano, era arrivato Visentin, continuava ‹‹questo mestiere qua, poi lo fanno ministro delle finanze e dice “guardate che non posso più farlo”, e allora paga lo stesso stipendio ma ridotto dalle tasse››52. C’era un gruppo sportivo ricreativo che organizzava anche dei viaggi, e tutti gli anni Lanza li faceva con Ferrera, per esempio in Spagna, insieme alle mogli. Anche l’ingegner Lanza, a Ivrea, abitava nelle cosiddette case Fiat (che in realtà erano dellaOlivetti, ma al pian terreno ospitavano una concessionaria Fiat), perché lavorando ai progetti non sapeva bene a che ora sarebbe poi uscito la sera. Come tutti gli altri, anche Lanza ha lavorato alla Olivetti fino alla pensione, quando Adriano era già morto. Poi la Olivetti gli aveva chiesto se voleva continuare come consulente, e così aveva fatto. Ferrera lo aveva insomma frequentato anche a Pozzuoli. L’azienda vendeva anche in America a un grosso cliente proprietario di grandi magazzini, il quale applicava alle macchine il suo marchio e poi le rivendeva. Comprava 350 macchine ogni ora, quindi praticamente “lo stabilimento di Pozzuoli lavorava soltanto per lui”. Con una clausola, perché il contratto durava un anno, e non poteva certo comunicare il mancato rinnovo a dicembre; l’eventuale diminuzione, inoltre, non poteva comunque essere superiore al 15%. Lanza si recava a Pozzuoli una volta al mese, anche quando Ferrera non c’era già più, e ricorda di un operaio che gli aveva raccontato di aver chiesto un aumento di paga perché ‹‹ma guardi, in fin dei conti se chiedo qualche lira in più io per venire qui a lavorare rinuncio al sole, io ero abituato a stare al sole, e io per il sole che è una cosa eterna che c’era già prima della Olivetti… Io esco di qua alla sera alle sei e ormai il sole, specialmente d’inverno, non c’è più››53. Ha scritto Giorgio Soavi:

Adriano […] era entusiasta [dei napoletani]. Era attratto dal loro fatale senso dell’ironia, forse annodato stretto a quello dell’avventura, e dal coraggio di chi, per tradizione, veniva definito scansafatiche o terrone, per non dire di peggio. Aveva deciso di aprire una fabbrica Olivetti a Pozzuoli e la sua gioia era incontenibile. Si era innamorato dei napoletani, degli operai, dei camerieri, dei tassisti, dei vetturini, e guardava, come se non li avesse mai visti, anche i cavalli dei calessi o delle carrozze che andavano avanti e indietro portando persone, verdure, pacchi, come se il tempo non si fosse mai fermato per chi sosteneva che non bisognava mai affrettarsi. Di tutta quella gente napoletana che, forse battendo un po’ la fiacca, faceva il proprio mestiere in modo esemplare: con aggiunta, del tutto inedita, dell’umorismo e della fatalità. […] Forse la malattia aveva stancato Adriano, ma lo aveva certamente ammorbidito, e disse che non era così importante che un operaio si spremesse tutte quelle ore, poteva anche lavorare un po’ meno, l’importante era che non si deprimesse per quello che gli toccava fare54.


I ricordi dell’ingegner Mosca, intervistato ad Ivrea, consentono invece di gettare uno sguardo al processo di produzione.Mosca ricorda bene sia Ferrera che Lanza: ‹‹Lanza era capo del progetto qui, di questi prodotti che venivano progettati a Ivrea e prodotti a Pozzuoli, quindi poi andava giù a controllare››. Mosca aveva studiato da perito industriale a Novara, dove si era diplomato anche Ferrera. Ricorda che le telescriventi di Pozzuoli le facessero soprattutto per l’esercito e per le poste, diversamente da quanto sosteneva Lanza, che aveva definito Pozzuoli quasi esclusivamente dedicata alla produzione per il cliente americano (‹‹Lanza forse si ricorda male, lui si occupava di altro››). Di Pozzuoli ricorda un capannone enorme, dove si lavoravano acciaio e ferro. Poi avevano cominciato a montare la MC15, con la levetta laterale, e lui era andato giù per fare l’analista tempi e metodi, in officina. Aveva già fatto un anno e mezzo a Ivrea, poi era stato chiamato alle armi e aveva fatto il corso per allievi ufficiali a Lecce, alla caserma Pico. Finito il militare era rientrato, lo avevano mandato tre mesi in officina e poi l’ing. Rivi lo aveva chiamato e gli aveva detto ‹‹senta, deve andare a Pozzuoli per qualche tempo, perché chi c’è giù, il Glauda, deve rientrare perché si sposa››. Allora era andato a casa e aveva detto a sua madre

“preparami la valigetta ché devo andare”. Sono andato a Torino e ho preso il Treno del Sole, Torino-Palermo. Alla stazione di Napoli c’era un signore con un pezzo di scatola di imballo dei prodotti Olivetti che faceva così, lo sventolava, col mio nome, e mi disse che era lì per portarmi allo stabilimento, era l’aprile del 1975. La macchina era una 500 giardiniera, mentre la macchina di Ferrera era una 1100 nera. Presso lo stabilimento c’era un presidente, che era una persona di Adriano Olivetti, non aveva titoli: era il signor Innocenti. Rappresentava la Olivetti, la casa madre. Non l’ho mai visto in fabbrica, rappresentava la politica, aveva compiti di rappresentanza, chiaramente55.


Secondo il ricordo diMosca, le macchine uscivano dal montaggio, per andare al magazzino, “come cioccolatini”, e cioè con “volumi da spaventarsi”: 60 pezzi all’ora56, perché ‹‹quella roba che andava senza energia elettrica poteva andare anche sui banchi del mercato››. I materiali per la produzione erano principalmente due: le barre di acciaio, che arrivavano dal Belgio ed erano “acciai automatici” perché venivano lavorati su torni automatici ‹‹che tu programmi e loro fanno››, e poi arrivavano i laminati, che erano acciai normali svedesi. Ce n’erano anche di provenienza italiana, ma in quantità molto limitate. Questi due materiali fondamentali costituivano il prodotto, che nasceva su una base che aveva le dimensioni più o meno di un piatto da pesce, e che era fatto in ghisa. La fusione di questo materiale in ghisa veniva fatta a Ivrea presso le Fonderie Olivetti, e due o tre volte alla settimana veniva portato a Pozzuoli tramite i camion (che erano della Lancia). Gli autisti della Olivetti andavano in Campania coi camion a rimorchio, e scaricavano i materiali: i basamenti, appunto, e l’acciaio, che veniva preparato sempre ad Ivrea. Sostanzialmente, queste lamiere che la Olivetti comprava in Svezia o in Belgio arrivavano in coils che andavano alla produzione materiali, e venivano presi e introdotti dentro macchine che tagliavano strisce secondo la necessità, da 0,8-0,9 fino a un millimetro di spessore. Alcuni pezzi potevano eccezionalmente arrivare fino a 1,5. L’officina quindi provvedeva a prendere questi rotoli già preparati. Le macchine erano delle presse bliss, e avevano il compito di tagliare l’acciaio. L’operaio posizionava i rotoli e la macchina tagliava i pezzi: 60 colpi al minuto, quindi 60 pezzi. Ogni volta che finiva la striscia o il coil ne veniva caricato un altro. Dopodiché il pezzo piatto veniva mandato alle seconde operazioni, dove c’erano operai e operaie che lo mettevano su un “desco” con una pressa comandata a pedale, e l’operaio aveva davanti uno stampo, prendeva il pezzo dalla cassetta, lo metteva sotto lo stampo e lo stampo scendeva e faceva il buco. A quel punto il pezzo doveva prendere altre forme, quindi c’erano altri stampi, altri uomini e altre donne che mettevano il pezzo sotto questi stampi per dargli la forma finale. Poi lo stesso pezzo doveva subire altre operazioni, come per esempio la saldatura delle borchie…si trattava insomma di parecchie operazioni, non certo di un ciclo banale. Come ultima operazione il pezzo andava in finitura e veniva o nichilato o fosforizzato. Un altro reparto era la torneria automatica, con i forni automatici, che in un secondo momento erano stati i forni Lindex, tedeschi: ‹‹Devo dire che Olivetti comprava le più belle macchine del mondo. Avevamo una dotazione di macchine da fare invidia a tutti››57.
La formazione si faceva sul campo, affiancando gli anziani. Per quanto riguarda il montaggio, gli operai che stavano a montare i prodotti avevano dei tempi graduali, e il cottimo veniva integrato secondo delle curve di integrazione:

Io come analista tempi e metodi non ho mai avuto contrasti: c’era una commissione paritetica per i tempi, fondata da sindacalisti, ingegneri, eccetera. Se c’erano tempi in contestazione veniva convocata la commissione. Il clima in Olivetti era piuttosto disteso, c’erano delle contestazioni come in tutte le famiglie,ma è fisiologico. Del resto, nel 1959, passando da Fiat a Olivetti si poteva raddoppiare lo stipendio. Certo, La tuta era blu, si trattava pur sempre di operai e di industriali, ma il lavoro in cosa consisteva? Gli operai che facevano una operazione meccanica di pressa, per esempio, che era uno dei cicli di lavorazione: pezzi da tastiera, pezzi dei totalizzatori, eccetera, allora il ciclo diceva ‹‹presse 1 tracciare profili, presse 2 ritracciare, presse 3 piegare››, e tutto il ciclo di descrizione. Quando l’operatore metteva in lavorazione un pezzo attrezzava la macchina, la regolava, metteva sotto un primo pezzo, veniva fuori il pezzo piegato e aveva dei giudici per controllare se era piegato giusto, avevano delle quote. Allora lui metteva a posto finché il pezzo non era giusto. La tolleranza era di centesimi di millimetro, in alcuni pezzi anche meno. Quando un operaio finiva la lavorazione diceva al capo, all’operatore, che aveva finito. Allora arrivava una segretaria che stava normalmente seduta di fianco a me, a volte una segretaria ogni analista o ogni due, e nello schedario aveva la cartolina di cottimo dell’operaio, la metteva sotto l’orologio e timbrava l’ora, e siccome aveva timbrato l’ora di inizio ora segnava quella di fine e veniva il tempo di lavorazione. Normalmente si dichiarava anche il numero di pezzi prodotti, che venivano segnati. A questo punto all’operaia si apriva una cartolina verde che era una cartolina di inattività, nell’attesa di un altro lavoro. Alcuni di questi pezzi di lavorazione venivano sparati dietro la macchina con un getto d’aria, fin dentro una scatola. La cartolina di cottimo disponeva della produzione oraria che lei avrebbe dovuto fare, e siccome la cartolina riportava le ore, c’era lì la differenza58.

Le storie di questi uomini, che si erano incrociate a Pozzuoli, erano destinate a incrociarsi ancora. Il clima, però (all’Olivetti e soprattutto in Italia), era cambiato, stava cambiando e sarebbe ancora cambiato, così come le relazioni fra questi uomini, fra questi lavoratori:

A un certo punto ho addestrato un terrone, si chiamava Bracale, perché l’azienda mi doveva trasferire al reparto trafile, dove si lavorava il ferro, perché c’era stata una fermata di 80 giorni per ragioni sindacali e di cottimo. Allora sono andato lì un annetto e ho rifatto tutti i tempi di cottimo del reparto, anche lì con contestazioni. C’era uno con il cappello e la stella rossa. Il capo era l’ingegner Carlo Ghiglieno, ammazzato da Prima Linea. Forse erano gli unici di destra, tutto il resto era rosso vivo. Chi lavora nelle acciaierie non può lavorare senza i fiaschi di vino, però bisogna stare attenti agli infortuni, ma non ce n’erano, perché eravamo molto attenti. L’ingegner Ferrera quando è rientrato all’officina H mi ha voluto ancora con lui, per l’ufficio tecnico. Avevamo il problema degli eventuali, per dare dei tempi di lavoro che pesavano negativamente sul bilancio dell’officina59, ma erano necessari perché magari i pezzi erano usciti senza filetto…per sistemarli…e dovevamo lavorare sugli eventuali permigliorare il bilancio dell’officina. Io sono entrato alla Olivetti nel 1951 e sono uscito nel 1990. Ho sposato una delle segretarie di cui parlavamo. Ho una figlia e una nipote, mia figlia volevo inserirla qui ma la Olivetti stava smantellando60.












NOTE
1 Cfr. Uomini e lavoro alla Olivetti, a cura di F. Novara, R. Rozzi, R. Garruccio, B. Mondadori, Milano, 2005, p. 10.^
2 Cfr. Olivetti 1908-2000, in Quaderni dell’Archivio Storico Olivetti, Ivrea, 2001, pp. 12-13.^
3 Cfr. A. Castagnoli, Essere impresa nelmondo. L’espansione internazionale dell’Olivetti dalle origini agli anni Sessanta, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 43-44.^
4 Ivi, p. 46.^
5 Cfr. Uomini e lavoro alla Olivetti, cit., p. 19.^
6 Cfr. Olivetti 1908-2000, cit., p. 14.^
7 E, come ci ha ricordato Giulio Sapelli, quella formazione non era mai strettamente professionale, ma vi si affrontavano anzi la storia romana, quella dell’antica Grecia, corsi di cinema, di filosofia e così via… cfr. G. Sapelli, D. Cadeddu, Adriano Olivetti. Lo Spirito nell’impresa, Trento, Il Margine, 2007, p. 30.^
8 Cfr. Olivetti 1908-2000, in Quaderni dell’Archivio Storico Olivetti, Ivrea, 2001, p. 15.^
9 Cfr. ivi, p. 16 e Uomini e lavoro alla Olivetti, cit., pp. 16-19. Sul Movimento Comunità si vedano D. Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Roma, Edizione di Storia e Letteratura, 2009, pp. 143-171 e F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee. Una testimonianza su Adriano Olivetti, a cura di G. Gemelli, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pp. 111-128.^
10 V. Ochetto, Adriano Olivetti industriale e utopista, Ivrea, Cossavella Editore, 2000, pp. 197-198.^
11 Caratteri della nuova fabbrica, «Notizie Olivetti», n. 26, aprile-maggio 1955, p. 7.^
12 Il complesso in dati e cifre, in ivi, p. 10.^
13 Cfr., di chi scrive, l’intervista alla vedova Ferrera, signora Lidia Rocchietta (Torino, 27 marzo 2015).^
14 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ingegner Guglielmo Lanza (Torino, 27 marzo 2015).^
15 Capannoni in cui aveva preso subito l’avvio anche l’Ufficio Assistenza Sociale.^
16 Cfr. la relazione spedita a Alcide Ferrera il 2 dicembre del 1959 dall’assistente sociale dello stabilimento di Pozzuoli dott.ssa Rita Franco. Documento reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera, oggi conservato dalla famiglia.^
17 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Guglielmo Lanza (Torino, 27 marzo 2015).^
18 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
19 Lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli, documento ciclostilato e senza data reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
20 Promemoria rinvenuto in Archivio Storico Olivetti, Raccolta delle Disposizioni organizzative del Gruppo Olivetti, Raccoglitore 1953/A, documento 25/93 a firma Adriano Olivetti.^
21 Lettera privata a firma “Willy” reperita nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
22 Cfr., di chi scrive, le interviste a Lidia Rocchietta e agli ingegneri Lanza (Torino, 27 marzo 2015) e Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015.^
23 A puro titolo di esempio si possono vedere, fra i molti, Una fabbrica al servizio dell’uomo. Il nuovo stabilimento Olivetti nell’Italia meridionale, in «La sentinella del Canavese», 29 aprile 1955, p. 1 e I ministri Campilli, Gava e Romita inaugurano l’Olivetti di Pozzuoli, in «Il Giornale», 29 aprile 1955, p. 8.^
24 Una giornata da ricordare, in «Notizie Olivetti», numero 26, aprile-maggio 1955, p. 14.^
25 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Lidia Rocchietta (Torino, 27 marzo 2015).^
26 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Lidia Rocchietta (Torino, 27 marzo 2015).^
27 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Lidia Rocchietta (Torino, 27 marzo 2015).^
28 Lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli, documento ciclostilato e senza data reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
29 Relazione spedita a Alcide Ferrera il 2 dicembre del 1959 dall’assistente sociale dello stabilimento di Pozzuoli dott.ssa Rita Franco. Documento reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
30 Relazione spedita a Alcide Ferrera il 2 dicembre del 1959 dall’assistente sociale dello stabilimento di Pozzuoli dott.ssa Rita Franco. Documento reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
31 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
32 Relazione spedita a Alcide Ferrera il 1° dicembre del 1959 da parte del medico Edoardo Paggi, del Servizio Sanitario dello stabilimento di Pozzuoli. Documento reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
33 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
34 Relazione spedita a Alcide Ferrera il 2 dicembre del 1959 dall’assistente sociale dello stabilimento di Pozzuoli dott.ssa Rita Franco. Documento reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
35 Ci piace sottolineare, a questo proposito, il rischio che comunque si potessero generare anche alcuni effetti non previsti di segno opposto. A proposito di Ivrea, ma il concetto si può naturalmente estendere anche a Pozzuoli, Luciano Gallino ha detto qualcosa di interessante in L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di P. Ceri, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, p. 124 (‹‹Dopo aver passato pomeriggi di riunione in azienda, le sere si andava al cinema, al dibattito sulle prossime elezioni amministrative, alla mostra di pittura contemporanea, alla conferenza di Nicola Abbagnano, al concerto di Severino Gazzelloni. E lì ci si ritrovava per caso gomito a gomito con le persone – simpatici colleghi, cari amici, e però le medesime – con cui si discuteva di lavoro due ore prima. Ma il motivo del disagio non era solo questa contiguità psicofisica. Risiedeva nella sensazione che la lista per le amministrative, la mostra, la conferenza, il concerto facessero tutte insieme parte dei disegni nemmeno di una sola azienda, ma addirittura di una sola persona - ch’era poi la stessa persona dei cui piani aziendali avevamo discusso nel pomeriggio››).
36 Relazione spedita a Alcide Ferrera il 1° dicembre del 1959 da parte del medico Edoardo Paggi, del Servizio Sanitario dello stabilimento di Pozzuoli. Documento reperito nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
37 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
38 Ritaglio di quotidiano, senza nome e senza data, conservato nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
39 Cfr. Olivetti, “pescatore di uomini”, in ‹‹Il Sole 24 ore››, 4 gennaio 2015.^
40 Scagliata da ignoti una bomba “Breda” contro il direttore dell’Olivetti di Pozzuoli. L’esplosione ha danneggiato la macchina su cui viaggiava l’ing. Ferrera, rimasto illeso – Fra i pochi testimoni, l’ex ergastolano Corbisiero, ritaglio di articolo di giornale (senza nome e data) conservato nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
41 Cfr. Una bomba contro il direttore dell’Olivetti, in ‹‹Il Mattino››, 26 ottobre 1955, p. 1.^
42 Ritaglio di quotidiano, senza nome e senza data, conservato nell’archivio personale di Alcide Ferrera.^
43 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Guglielmo Lanza (Torino, 27 marzo 2015).^
44 Ivi, di chi scrive, l’intervista a Guglielmo Lanza (Torino, 27 marzo 2015).^
45 Come già ricordato, Maurizio Ferrera, il figlio di Alcide, era in realtà nato a Napoli.^
46 Mario Stefanile, La città che spiana le rughe del Nord. Lieti i settentrionali di vivere a Napoli, in ‹‹Gazzetta del Popolo››, giovedì 4 aprile 1957, p. 3.^
47 Promemoria rinvenuto in Archivio Storico Olivetti, Raccolta delle Disposizioni organizzative del Gruppo Olivetti, Raccoglitore 1962/, documento 01/62 a firma Giuseppe Pero.^
48 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Lidia Rocchietta (Torino, 27 marzo 2015).^
49 Cfr., di chi scrive, l’intervista a Guglielmo Lanza (Torino, 27 marzo 2015).^
50 Cfr., ivi.^
51 Cfr., ivi.^
52 Ivi, di chi scrive, l’intervista a Guglielmo Lanza (Torino, 27 marzo 2015).^
53 Cfr., ivi.^
54 G. Soavi, Adriano Olivetti. Una sorpresa italiana, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 224-225.^
55 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
56 Si può notare come i numeri proposti da Mosca in relazione alla produzione – ammesso che si tratti dello stesso prodotto – siano molto diversi da quelli ricordati da Lanza; ciò non è comunque rilevante, perché alla memoria di questi lavoratori non si chiede di essere esatta ma semmai di restituire, appunto, il ricordo di quantità produttive che con ogni probabilità erano molto elevate.^
57 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
58 Cfr., ivi.^
59 Soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973, gli interventi della direzione a questo proposito si fecero molto insistenti. Ad ampio raggio, seppur individualmente, ai direttori di stabilimento venivano inviate lettere con oggetto “Target sul budget operativo [ANNO]”, in cui si richiedevano interventi finalizzati al contenimento dei costi di gestione e quindi dei prodotti, “appesantiti da costo del lavoro e prezzi dei materiali e dal deterioramento delle efficienze”. In particolare si richiedeva uno sforzo per il contenimento delle unità di personale, e poi risparmi sui materiali meccanici e sugli imballi. Si segnalava inoltre la necessità di ridurre le scorte di circa il 6%. Si vedano in Archivio Storico Olivetti, Fondo “Documentazione Società”, U. Cons. 149, U. Arch. 449-452, le lettere “Target sul budget operativo [ANNO]”.^
60 Cfr., di chi scrive, l’intervista all’ing. Mosca (Ivrea, 28 aprile 2015).^
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