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Libertà e moderazione
di Alessandro Della Casa
Ventinove saggi dedicati, a partire dal 1741, da David Hume alla tematica politica, restituiti dei paragrafi e delle note omesse nelle varie antologie italiane precedenti, tornano nelle librerie con il volume Libertà e moderazione. Scritti politici (traduzione, introduzione e note a cura di Spartaco Pupo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016) pubblicato nella collana Biblioteca di Politica diretta da Alessandro Campi. Come rileva il curatore nell’ampia introduzione, originariamente destinati ad apparire su riviste scozzesi ma editi da subito in volume, tali scritti brevi contribuirono non poco alla notorietà del loro autore, che vi approfondiva l’intreccio della dimensione politica, economica ed etica delle nazioni, rendendoli un ricco e indispensabile complemento alle riflessioni contenute nel Trattato sulla natura umana, che aveva visto la luce nel 1740.
Con il consueto stile asciutto e privo di ogni retorica, ricorrendo agli exempla della storia antica e della storia britannica e dialogando con gli autori del passato e coevi, Hume si proponeva di reinterpretare l’origine del governo, discutere le qualità del sistema anglosassone e intervenire nel dibattito dei propri giorni. Di contro all’idea contrattualistica che la nascita della società andasse letteralmente ricondotta a un patto volontario e che su quell’esplicito consenso alla soggezione poggiasse ancora l’autorità, lo scozzese asseriva che la società era un artificio emerso progressivamente, come risposta agli stimoli dell’egoismo e della simpatia, e che il diritto alla sovranità era ormai ovunque giustificato in virtù della conquista e della successione e riconosciuto dai sudditi in quanto frutto dell’abitudine e parte delle loro certezze (pp. vii-viii e xxiii-xxv). «Se andaste predicando, in giro per il mondo, che i rapporti sono totalmente fondati sul consenso volontario o sulla promessa reciproca,» scriveva in Il contratto originario, «presto il magistrato vi farebbe arrestare per sedizione, per aver allentato i vincoli dell’obbedienza, sempreché non saranno i vostri amici a ricoverarvi come folli per avere sostenuto tali assurdità» (p. 249).
Nel saggio su I princìpi primi del governo, Hume spiegava che è «solo sull’opinione che si fonda il governo», tanto nel caso dei «regimi più dispotici e militari quanto per quelli più liberi e popolari». Tale opinione era suddivisa in «opinione di diritto» e «opinione d’interesse». La prima comprendeva il «diritto al potere» – cioè l’«attaccamento di tutte le nazioni al loro antico governo» – e il «diritto alla proprietà». La seconda consisteva nel «senso di generale vantaggio» offerto dal regime (pp. 32-33). L’«interesse», si legge in L’origine del governo, è una delle maggiori forze che muovono gli uomini, spinti a «favorire ciò che è vicino rispetto a ciò che è lontano»; inclinazione naturale che è però «pericolosissima nei riguardi della società», e alla quale il filosofo consigliava di ovviare sfruttandola in favore della giustizia: «è impossibile cambiare o correggere alcunché di sostanziale nella nostra natura, il più che si può fare è cambiare le condizioni e la nostra situazione facendo dell’osservanza delle regole di giustizia il nostro interesse più prossimo e della loro violazione quello più remoto. Ma siccome ciò risulta impraticabile per la totalità degli uomini, potrà essere compiuto soltanto da quei pochi che trarranno un interesse diretto dalla messa in pratica dell’ingiustizia»; ovvero «magistrati civili, re e ministri, governanti e signori» che, «soddisfatti come sono della loro situazione reale e del loro ruolo sociale, hanno […] un interesse diretto a una osservanza della giustizia necessaria a mantenere la società» e a imporre agli altri il «principio dell’equità» (pp. 38 e 40).
In Può la politica essere ridotta a scienza?, Hume chiariva, però, che non è la qualità delle persone che ricoprono le cariche, ma l’efficacia della costituzione, a determinare la bontà di un’amministrazione e custodire l’istituzione: «Talmente grande è la forza delle leggi e di certe forme di governo, e tanto poco queste dipendono dagli umori e dal carattere degli uomini, che talvolta ne possono derivare conseguenze quasi altrettanto generali e certe di quelle forniteci dalle scienze matematiche». A riprova, egli portava l’esempio della repubblica romana, che «assegnava tutto il potere legislativo al popolo, senza accordare il diritto di veto alla nobiltà e ai consoli». Perciò, quando estese i propri confini e accrebbe conseguentemente l’ampiezza del popolo stesso, Roma fu preda di tumulti che la condussero al «dispotismo dei Cesari». Da questo e da altri casi, Hume faceva derivare l’«assioma politico universale, che un principe ereditario, una nobiltà senza vassalli e un popolo che esprima il voto attraverso suoi rappresentanti formano, rispettivamente, la migliore monarchia, aristocrazia e democrazia» (pp. 8-10). Simile impostazione implicava che la libertà non dovesse valicare, pena la sua scomparsa, i limiti imposti dall’esigenza della stabilità. Pertanto, in La libertà civile, dichiarava di preferire – in coerenza con quanto affermava nelle lettere (pp. xxxviii-xxxix) – l’ordinamento monarchico misto, divenuto «governo di leggi e non di uomini», che conteneva «una fonte di miglioramento», diversamente da quello repubblicano popolare, in cui percepiva «una fonte di disgregazione». (p. 78).
Hume, inoltre, faceva notare che una costituzione valida impedirebbe che a detenere cariche governative per lungo tempo fossero uomini non fossero degni (p. 19). Questa è un’osservazione inclusa nella critica serrata, che informa diversi dei saggi, alla partigianeria che avvelena la politica e la devia dal suo fine, il perseguimento del comune bene. «Sono troppi, da una parte e dall’altra, gli animi ardenti che infuocano le passioni di chi li segue e che, con il pretesto del bene pubblico, perseguono gli interessi e gli obiettivi della loro fazione particolare. Per quanto mi riguarda, preferirò sempre incoraggiare la moderazione piuttosto che l’ardore; benché», aggiungeva, «forse il modo più sicuro per generare la moderazione delle parti sia quello di provocare il nostro ardore verso l’interesse pubblico» (p. 18). Tanto radicato, e giustificato dall’esperienza, era il timore per le conseguenze, sempre nefaste, dell’atteggiamento fazioso che, in I partiti in generale, – dove si rimarcava che, «in uno Stato, la generale virtù e la buona morale, così necessarie alla felicità, non possono mai scaturire né dai precetti filosofici più elaborati né dai comandamenti religiosi più severi, ma dovranno interamente derivare dall’educazione dei giovani alla virtù quale frutto di sagge leggi e istituzioni» – ai legislatori e ai fondatori di Stati, che «tramandano ordinamenti e istituzioni finalizzate ad assicurare la pace, la felicità e la libertà delle generazioni future», erano contrapposti i «fondatori di partiti», che invadono come «male piante» l’organo legislativo dei «governi liberi». «All’onore e al rispetto dagli uomini tributati ai legislatori e ai fondatori di Stati dovrebbe corrispondere l’odio e il disprezzo per i costruttori di sette e fazioni, poiché queste ultime esercitano un’influenza diametralmente opposta a quella delle leggi. Le fazioni sovvertono il governo, indeboliscono le leggi e accrescono le avversioni più feroci fra gli uomini di una stessa nazione, i quali dovrebbero prestarsi reciproca assistenza e protezione» (pp. 54-55).
Un aspetto sul quale insiste Pupo, autore di studi sul conservatorismo anglo-americano, è quello della direzione moderata e, appunto, conservatrice che in sede politica assumeva l’illuminismo «atipico» di Hume (pp. xxxix-xliii), tanto da poterne fare un precursore laico del movimento. Alieno dal «passatismo o tradizionalismo metafisico» di Louis de Bonald e di Joseph de Maistre (p. lvi), Hume aveva criticato il razionalismo della sua epoca con «maggiore acume teoretico e speculativo» (p. xlviii) di quello testimoniato, di fronte ai seguaci britannici dei rivoluzionari francesi, da Edmund Burke; quest’ultimo sostenitore di un «conservatorismo cosmico» – secondo la definizione adoperata da Michael Oakeshott, nei primi anni Cinquanta – volto sulla «difesa a oltranza dell’ordine metafisico e religioso» (pp. xlviii-l). Nell’introduzione si sottolinea inoltre la rilevante influenza di Niccolò Machiavelli su Hume, che pone l’accento sul ruolo della «forza» nell’origine dei governi, suggerisce la «valorizzazione dell’“utilità”», e invita alla «prudenza» nell’amministrare il governo (pp. xxx-xxxi). Le assonanze tra i due, accomunati pure nel metodo dell’analisi e in varie fonti, si palesano nella citata lode ai fondatori di Stati e ai legislatori e, dunque, nell’importanza assegnata alle «buone leggi», che «possono produrre ordine e moderazione nel governo» (p. 16), scrive Hume, il quale in La forma di governo ideale ricorre oltretutto all’argomento della “rinnovazione”: «l’eccesso di potere non deriva, in qualsiasi governo, dalle leggi nuove, quanto dal trascurare di porre rimedio agli abusi che spesso sorgono dalle vecchie. Un governo, dice Machiavelli, deve essere spesso ricondotto ai suoi princìpi originari» (p. 295). E si può forse indicare un influsso dei Discorsi machiavelliani nei passaggi nei quali lo scozzese, che certo è più pronto del fiorentino a esaltare i benefici procurati dal lusso e dai commerci, mostra il circolo virtuoso che a suo parere tiene assieme il governo libero, la sicurezza della proprietà, la prosperità e lo sviluppo delle arti (si vedano in particolare L’affinamento delle arti, Nascita e sviluppo delle arti e delle scienze, e La libertà civile).
Nel saggio che chiude il volume, La forma di governo ideale, Hume chiariva che «per le forme di governo non vale ciò che si verifica in altre costruzioni artificiali, e cioè che dei vecchi meccanismi possono essere scartati laddove se ne scoprono altri più precisi e funzionali e che si possono tranquillamente fare degli esperimenti, anche dal successo dubbio. Un governo istituito ha l’immenso vantaggio che gli deriva proprio dal fatto di essere istituito, poiché la massa degli uomini si governa con l’autorità, non con la ragione, e non attribuisce mai un’autorità a ciò che non sia stato convalidato dal tempo». Dunque, il «saggio uomo di governo» si asterrà dall’avanzare «a tentoni» o dal lasciarsi guidare da «ragionamenti e assunti filosofici presupposti»; ma, dedicandosi alle innovazioni utili al «bene pubblico», le «adatterà quanto più possibile […] alla struttura precedente, conservando l’integrità dei pilastri e delle fondamenta della costituzione» (p. 293).
Se poi Hume stesso procedeva a delineare dettagliatamente per la Gran Bretagna e la Irlanda un sistema istituzionale che gli pareva privo di evidenti difetti, assai simile a quello delle Province Unite, e proponeva le modifiche necessarie ad avvicinare quello britannico al «modello perfetto di monarchia limitata» (pp. 296-306), aveva cura di concludere, fedele al suo scetticismo, che è «inutile chiedersi se un governo del genere possa essere immortale»: «Sarebbe già uno stimolo sufficiente per gli sforzi umani sapere che […] durerebbe per molte generazioni, senza pretendere di conferire alle opere dell’uomo quell’immortalità che l’Onnipotente sembra aver negato persino alle proprie» (p. 308). Un ammonimento, questo sì, imperituro.
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