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L’Europa e la “macchia umana”
di Adolfo Battaglia
Grande o media che sia, nessuna potenza mondiale può oggi avere una efficace politica estera se non possiede anche un serio indirizzo in materia di sviluppo internazionale. È questa una delle grandi novità di contenuto e di metodo recate dai processi di globalizzazione, fenomeni obbiettivi di cui è vano il rifiuto.
A sua volta, una politica di sviluppo internazionale, fondata in sostanza su traguardi economici sociali e civili, non può vivere da sola. Per esistere realmente ha bisogno di fare corpo con lo schema classico della politica estera, ove la componente politica non può prescindere da quella diplomatica né da quella militare. Ed è soltanto un’integrazione sufficientemente coerente di elementi politici, economici, civili, sociali, diplomatici, militari, che può consentire di parlare di autentica politica estera: cioè di qualcosa realmente adeguato alla complessità e alla pluridimensionalità del mondo contemporaneo1.
Pare che, nell’odierna vita internazionale, questa sia merce rara. Per esempio, non possiedono un tale indirizzo né Cina né India; ed egualmente non lo possiede la Russia (che lo ebbe invece in passato, sia pur con aspetti marcatamente ideologici). Non sembrano conoscerlo neppure gli Stati Uniti, dove l’aiuto allo sviluppo è fermo da anni su cifre miserrime, mentre l’esercizio di ogni tipo di soft power risulta largamente ignorato2. Lo esprimono in qualche modo, invece, alcune democrazie del Nord Europa, nazioni troppo piccole, tuttavia, per avere reale influenza nel giuoco internazionale. Chiara, infine, è la condizione in cui versa l’Unione Europea: la quale congiunge l’insufficienza della sua opera nel campo dello sviluppo internazionale alla totale inesistenza di una politica estera e di difesa.
Tutto ciò è singolare, perché non sembra dubbio che in questo secolo, ancor più incisivamente che in quello passato, i conflitti più importanti saranno non quelli “di classe”, per la ripartizione delle risorse dello Stato nazionale, ma quelli relativi ad un tipo o ad un altro di ordine mondiale. Già oggi i maggiori problemi che agitano il mondo non sono né puramente economici né strettamente militari ma piuttosto politici, capaci cioè, come tali, di assorbire tutti gli elementi della modernità. La posta del gioco è sempre, alla fine, un ordine mondiale più democratico o più oligarchico, economicamente più equilibrato o più segnato da disuguaglianze, più in grado di eliminare le situazioni di degrado e di miseria o meno capace di intervenire rapidamente su esse: in altre parole, più retto da concezioni complesse e multilaterali o più impregnato di unilateralismo e spirito imperiale. Misconoscere tutto ciò non sembra avere senso. Sottovalutare la crucialità del problema del sottosviluppo non può in alcun modo favorire lo scioglimento dei nodi politici che oggi stringono il mondo.
Oltre tutto, la più rapida delle ricognizioni storiche basta ad insegnare che negli ultimi due decenni, in cui i processi di globalizzazione si sono progressivamente accentuati, le politiche estere prive di complessità, o incapaci di affrontare i problemi dello sviluppo economico e civile, molto raramente hanno dato risultati positivi. Ed invece può dirsi che abbiano avuto successo, fin dall’epoca del Piano Marshall, le politiche ricche di quelle connotazioni3. Forse non si tratta solo di casi.
L’impostazione di politica estera cui si è accennato non è quasi mai condivisa da molti leader europei, evidentemente dimentichi che perfino l’organizzazione politica in cui si raccolgono tutte le nazioni del mondo, l’Onu, guarda prevalentemente a problemi sociali, economici e civili. In realtà, le classi politiche del vecchio continente sono in gran parte ancora ferme alle concezioni fissate in Westfalia nel 1648, e stentano a darsi conto che i miti della sovranità nazionale e della “non interferenza” sono stati ormai scardinati. Non sembrano neppure cogliere che le opinioni pubbliche, sotto la spinta dei mezzi di comunicazione di massa, stanno accumulando una percezione emotiva dei fenomeni del sottosviluppo e della povertà che col tempo avrà effetti probabilmente dirompenti sulla vita politica.
Non si azzarda troppo, forse, ritenendo che nella parte più dinamica della borghesia, nei larghi ceti medi connessi alla vita intellettuale della società, nei giovani, quella percezione avrà un giorno lo stesso effetto che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo ebbe la percezione di una nuova questione: la “questione sociale”, fondata sulla condizione delle classi operaie nei paesi industrializzati. Si levò allora, non solo in Italia, quel largo movimento intellettuale e morale di cui ha parlato Croce in una pagina mirabile4. E presto si tradusse in fatti politici, in opere sociali, in azione dello Stato, andando ben al di là delle concezioni, in buona parte marxiste, da cui era stato inizialmente mosso. Non è inverosimile che un movimento similare si possa produrre oggi, sospinto dalla cultura dell’età globale e dallo spirito di solidarietà per una condizione che riguarda interi popoli. Circa metà della popolazione mondiale, per esempio, non ha mai fatto una sola telefonata5: è accettabile? Con i trend attuali, l’obbiettivo dell’Onu di ridurre di due terzi, nel 2015, la mortalità infantile dell’Africa sub-Sahariana, sarebbe raggiunto solo tra 150 anni6, nel 2165: è tollerabile? Il 10% della popolazione europea vive al di sotto della soglia di povertà: ma per circa due miliardi di persone quella soglia “di povertà” costituisce una quasi impensabile soglia di ricchezza. È possibile?
Il fatto è che quando un problema della modernità acquisisce una larga dimensione etica la politica non può più ignorarlo. L’intensità del sentimento morale da cui è assistito lo rende irrecusabile. Tanto più se il problema non è soltanto alimentato dai media ma si presenta storicamente maturo: come avviene quando si crea la possibilità di risolverlo, operando concretamente su esso con strumenti nuovi che nel passato non esistevano.
Ora, appunto, il problema della partizione del mondo in aree ricche e povere, profilatosi nel corso degli ultimi due secoli, è divenuto politicamente attuale, maturo, solo a partire dalla seconda metà del Novecento. È stato il “moderno sviluppo economico”, originato dalla rivoluzione industriale, che ha permesso all’Europa e agli Stati Uniti di distanziare progressivamente nella ricchezza il resto del mondo7. Ma è stata la fine del colonialismo, dopo la seconda guerra mondiale, che ha chiuso un’epoca e una serie di orientamenti, aprendo un rapporto del tutto diverso tra paesi avanzati e aree sottosviluppate divenute Stati indipendenti.
La primogenitura economica e sociale dell’Occidente era stata peraltro conquistata sul campo nel corso di molti decenni. Ed evidentemente rimane valida, visto che la democrazia politica e l’economia di mercato continuano a costituire un modello che trascina nazioni grandi e piccole. Potrebbe l’Occidente rinunziarvi? Solo al prezzo di una gigantesca dimissione collettiva che aprirebbe un vuoto rovinoso. Il fatto è che, piaccia o no, il ruolo dell’Occidente nella vita mondiale non è surrogabile. E poiché molte cose sembrano escludere che sia comunque ceduto, occorrerebbe allora fare un passo avanti e fissare un punto chiave. Sarebbe ora, cioè, che le classi dirigenti occidentali convenissero una volta per tutte che ricade anzitutto su esse non la responsabilità morale ma, cosa assai diversa, la responsabilità politica di affrontare l’arretratezza economica dei paesi poveri. Una responsabilità, questa, che non può esprimersi in sole dichiarazioni ma è tale soltanto se si concreta in séguiti definiti: dalle iniziative politiche e culturali agli stanziamenti nei bilanci statali e agli indirizzi nelle organizzazioni internazionali8.
L’ Occidente è facilitato, in questa nuova responsabilità, dal fatto che si è lasciato ormai dietro le spalle i fantasmi da cui è stata a lungo turbata la sua coscienza. La Grecia dei colonnelli, la Spagna di Franco, il Portogallo di Salazar, il Cile di Pinochet, il Sud-Africa dell’apartheid, il Congo di Mobutu, il Brasile dei militari, l’Argentina dei desaparecidos, i massacri degli Indios in Guatemala, lo schiacciamento delle rivoluzioni in Ungheria e in Cecoslovacchia, la rivoluzione culturale in Cina, la Cambogia di Pol Pot, bene, tutto questo non esiste più. Con la globalizzazione la democrazia si è espansa e i diritti hanno acquistato una pregnanza assai maggiore, come i filosofi preconizzavano9. L’aria del mondo si è fatta più respirabile. E tuttavia una nuova grande ombra si estende adesso sull’Occidente. Imponente è divenuta la grande questione che è dilagata a livello di massa mondiale, sospinta da esigenze elementari e problemi terribili: la morte per fame, per sete, per malaria, per tubercolosi, per aids; la miseria, l’abiezione, l’analfabetismo, la pulizia etnica, gli stermini, i genocidi. Nell’età della globalizzazione è questa, per usare l’espressione di Roth, la “macchia umana”. Ed è questa macchia che l’Occidente deve decidersi ad affrontare senza esitazioni.
Neppure lo sviluppo economico, da solo, basterà a cancellarla. Essa si dilata, invece, quando si cerca di trattarla con preparati chimici sbagliati. Con le ricette ideologiche delle vecchie cucine europee, con teologie politicizzate, o con indirizzi privi di risposte alle sensibilità diffusesi. Sembra necessario altro: una politica complessa e non cinica che risulti non soltanto “credibile” ma “creduta”. È falso che nei cinquant’anni seguiti alla seconda guerra mondiale l’Occidente non abbia aiutato i paesi poveri. Al contrario, ha fatto più di quanto era stato fatto nel corso di tutta la storia del pianeta. È vero tuttavia che le sue iniziative sono state ritenute insufficienti e poco sincere. E la prima ragione è che l’Occidente non è stato capace di dare ai paesi poveri segni convincenti di ordine morale, rinunziando ad almeno alcuni dei privilegi che li devastano. Ancora oggi costituiscono uno scandalo inverosimile i 300 miliardi di dollari (cifra maggiore di quanto l’intero Occidente spende per l’aiuto pubblico ai PVS) che l’Europa e gli Stati Uniti donano a poche migliaia di agricoltori per aiutarli a continuare a produrre in modo anti-economico. Il protezionismo agricolo euro-americano, che ferisce gravemente la capacità di esportazione dei paesi poveri e senza pietà li impoverisce, oltre che un danno economico rappresenta una piaga morale10.
Per operare in concreto non serve naturalmente l’intera rivoluzione del modello occidentale. Utile è una politica di riforma che abbia dietro di sé una vision. Liberare i paesi in via di sviluppo da tutto ciò che l’Occidente ha superato in due secoli con la rivoluzione industriale – la miseria, la depressione civile, la chiusura morale – è un obbiettivo che l’Occidente e il Terzo mondo possono raggiungere adesso con la rivoluzione post-industriale e l’utilizzo dei processi di globalizzazione. Ma se la prima questione è quella sottolineata da uno studioso assai autorevole – «non se i paesi ricchi possano permettersi di aiutare quelli poveri, ma se possano permettersi di non farlo»11, – la seconda, non meno importante, è quella dello schema politico che presiede agli orientamenti dei protagonisti della vita internazionale12.
Ora, l’Europa, per i suoi valori, la sua esperienza, la sua capacità di scambio, avrebbe in materia una parola importante da spendere. Occorrerebbe certo che non fosse divisa; e che per riprendere il suo cammino non perseguisse il sogno di divenire un global player (che è poi il sogno nazionalistico di rappresentare una “terza forza” autonoma13). Occorrerebbe cioè non puntare troppo sul “ribilanciamento” economico tra Stati Uniti ed Europa, connesso al rallentamento congiunturale dei primi e alla ripresa della seconda. Ciò che per l’Europa sarebbe necessario non è solo una dinamica economica più sostenuta, attraverso riforme interne, ma un’iniziativa politica reale, mirata a realizzare l’unità dell’Occidente su un disegno internazionale degno di questo nome. Non si può chiedere solo agli S.U. di tener conto di tutti gli elementi che, come si notava inizialmente, dovrebbero comporlo. Compete all’U.E. un impegno per una politica dell’Occidente più risoluta nella lotta al sottosviluppo e più capace di rafforzare, nella crisi storica dell’unità europea, la funzione e le prospettive del vecchio continente. In effetti, sotto il profilo politico-istituzionale il processo unitario europeo è ormai precluso; ed è la scelta di una strategia di coordinazione economica con l’altro grande pilastro dell’Occidente che apre all’Europa la possibilità, su un terreno più agibile, di riprendere il suo passo14.
D’altra parte, una azione coordinata nel campo dello sviluppo internazionale dovrebbe essere considerata per i prossimi decenni una necessità non eludibile tanto per l’Europa quanto per gli Stati Uniti. Ma la loro intesa sarebbe anche importante per il problema cui si è obbligati a guardare con la massima attenzione, quello del terrorismo islamico. La vera chiave politica del successo nella lotta al terrorismo è infatti proprio la questione dello sviluppo internazionale più equilibrato: e gli Stati Uniti, che oggi sostanzialmente la misconoscono, saranno prima o poi costretti a rovesciare il loro orientamento e a farla propria. Lo scetticismo e la scarsa flessibilità oggi espressi dalla loro politica non sono alla lunga tenibili15. Una seria politica dello sviluppo non è uno strumento secondario ma la struttura portante della lotta al terrorismo (gli stessi Comandi militari americani hanno cominciato a spingere per un approccio che sia politicamente più ampio del ricorso alle forze armate). Nel Medio Oriente, in particolare, è viva una esigenza di «rispetto universale, di degna collocazione nel mondo moderno»: e ha osservato uno specialista di relazioni internazionali (citando l’ebreo Shylock dal Mercante di Venezia: «Se ci pungete, non sanguiniamo?») che al di là del terrorismo la difficoltà vera della situazione è da ricercare «non in una pretesa specificità culturale o religiosa degli arabi, bensì nell’adesione dei popoli del mondo arabo alle rivendicazioni di giustizia e di uguaglianza universali diffusesi negli ultimi due secoli nel resto del mondo, dove sono ormai ampiamente garantite»16.
Non si entra veramente nel mondo arabo però, e più in generale nel mondo islamico, se la lotta internazionale per sviluppo non ne tocca l’animo, modificando la sensazione di un’America imperiale17. Lo scontro tra moderati ed estremisti entro il mondo musulmano, dal quale in definitiva dipende l’esito della lotta al terrorismo, difficilmente potrà essere vinto se l’Occidente non impugna la sua arma migliore.
Riuscirà il mondo sviluppato a darsi indirizzi adeguati alle straordinarie questioni che si pongono? In tutti i paesi occidentali questa sfida mette in gioco l’istituto stesso della politica democratica. Essa non potrebbe che essere ferita se non riuscisse a dare tempestivamente risposte corrette ai grandi problemi umani e politici cui è di fronte. Col tempo, cioè, l’insufficienza dell’azione creerebbe le premesse della sua supplenza; ed è probabile che entrerebbero allora in giuoco forze estranee alla politica.
In particolare, si porrebbe con forza il delicato problema del ruolo delle grandi Chiese monoteiste, che con tutta la loro autorità e la loro carica morale, anche se non senza ambiguità e ritardi, sembrano già oggi voler rafforzare la loro presenza sulla scena internazionale. È vero, esse danno risposte di ordine puramente etico, che talora complicano vicende di forte spessore economico- politico. Ma la politica farebbe meglio a prendere nota del significato di quelle risposte piuttosto che esservi sorda. Il suo compito non è di accoglierle a parole e respingerle nei fatti ma di tradurle laicamente in schemi di conduzione dell’economia e della società internazionali.
Certo, la questione del sottosviluppo mondiale non è esattamente semplice. La compongono ad egual titolo aspetti giuridici e assetti istituzionali, questioni economiche e fattori di storia e di cultura, tendenze dei mercati dei capitali e indirizzi della Banca Mondiale, decisioni dell’Onu e delle sue Agenzie specializzate, politiche della WTO e dell’Imf, orientamenti del G-8 e del G-21, politiche di bilancio degli Stati, iniziative di Fondazioni private, interventi delle Ong. Calata nella condizione europea, una tale complessità diventa un catalizzatore dei problemi che travagliano il vecchio continente: finisce col toccare il suo futuro, le sue tradizioni, le prospettive della sua unità. È un crocevia: nel quale un fatto nuovo, una posizione nuova dell’Unione Europea (caratterizzata da quell’intesa con gli Stati Uniti senza la quale non sono possibili indirizzi globali), riceverebbe probabilmente ovunque interesse reale.
E se questa politica coordinata mancasse, o fallisse? Verrebbe probabilmente meno la possibilità di un’opera vincente. Forse si perderebbe il fondamento stesso di una politica capace di rappresentare una leadership e di imprimere un segno di guida sui grandi processi internazionali. Si profilerebbe per l’Occidente il destino di continuare a dibattersi tra l’uso della forza per contrastare l’aggressione terrorista e forme di aiuto allo sviluppo insufficienti e malamente ricevute. L’isolamento degli Stati Uniti continuerebbe, insieme a quello di un’Europa disgiunta dal suo partner storico. Mancherebbe a protagonisti divisi l’autorità per parlare con uno spirito politico alto: per proporre con credibilità il coinvolgente problema di un equilibrio più equo e più solido, la questione di un nuovo ordine mondiale capace di trascinare tutti i paesi e afferrare, per così dire, il cuore dei popoli. Bisogna scegliere. In definitiva, bisogna che tanto l’Europa quanto gli Stati Uniti decidano nei prossimi anni di scegliere tra il fare e il non fare.
Fare, peraltro, appare ancora più obbligato quando si osservino almeno alcuni di quei numeri economici che i leaders politici usualmente trascurano. Per esempio, una ragionevole proiezione del prodotto lordo mondiale vede in tre decenni passare da 2 a 5 le nazioni non occidentali comprese fra le prime dieci del mondo. Mentre già nel 2006 l’insieme dei paesi emergenti pesa per oltre la metà della produzione mondiale a parità di potere di acquisto, esporta a un tasso annuo quasi doppio di quello delle economie avanzate, brucia circa la metà dell’energia prodotta nel pianeta e detiene la massima parte delle riserve mondiali di valuta18. I trend sono impressionanti. Gli equilibri nel potere economico mondiale stanno da un decennio rapidamente cambiando. Di fronte ad essi appare, più che strano, stravagante, che si esiti a proporre (e realizzare) una politica più coordinata dell’Occidente: un tessuto di fondo, per così dire, sul quale operare gli interventi più adeguati alle contingenze specifiche, poiché dopo tutto la vita internazionale non è un luogo di beneficenza ma in primo luogo un rapporto di forze.
È possibile naturalmente che l’Unione Europea rinunzi ad ogni iniziativa: per una ragione o per un’altra. Il risultato sarebbe comunque lo stesso. Sarebbe pur sempre un duplice rifiuto: quello di una più saliente presenza politica in un momento cruciale della vita mondiale; e quello di impegni efficaci nella riduzione del numero e dell’intensità dei conflitti più acuti che la attraversano.
Sembra improbabile che ciò gioverebbe a qualcuno. Di sicuro, non gioverebbe all’Europa. Verosimilmente, ne accentuerebbe la crisi.






NOTE
1 Si tratta di due caratteristiche (da non confondere con i concetti di multipolarità e multilateralismo) sulle quali la letteratura è ormai vasta. Cfr. per esempio, R. Gilpin, Guerra e mutamento nella politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1989; J. Nye, The Paradox of American Power, Oxford University Press, New York, 2002; W. Russell-Mead, Potere, terrore, pace e guerra, Milano, Garzanti, 2004; J. Habermas, La costellazione post-nazionale, Milano, Feltrinelli, 1999; A. Bolaffi e G. Marramao, Frammento e sistema, Roma, Donzelli, 2001.^
2 Si assume qui una nozione di soft power che include gli strumenti e gli effetti della politica economica e sociale: si allarga cioè la nozione originaria e più ristretta definita da Joseph Nye, il quale per primo ha teorizzato il valore che ha oggi nella politica internazionale la capacità di attrazione posseduta dalle idee e dai valori di un paese. Cfr. J. Nye, Soft Power, Torino, Einaudi, 2005, che riassume in modo compiuto tesi parzialmente espresse in altri scritti.^
3 Su questo punto: M. Howard e R. Louis, The Oxford History of the Twentieth Century, Oxford, UK, Oxford University Press, 2000; E.J. Hobsbawn, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995; L. Salvatorelli, Un cinquantennio di rivolgimenti mondiali, 1914-1971, Firenze, Le Monnier, 1972; B. Biancheri, Accordare il mondo, La diplomazia nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 1999; G. Mammarella, Da Yalta alla perestrojka, Roma-Bari, Laterza, 1990; B. Olivi e R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea, Bologna, il Mulino, 2005; S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Milano, Rizzoli, 2003.^
4 Cfr. B. Croce, Storia d’Italia, Bari, Laterza, 1928, pp. 153-170.^
5 Cfr. J. Micklethwart e A. Woolbridge, A Future Perfect, London, Heinemann, 2000, cit. da M. Syrquin, Globalizzazione e sviluppo economico moderno, i paesi in via di sviluppo, in A. Quadrio Curzio, La Globalizzazione e il rapporto nord-est-sud, Bologna, il Mulino, 2004, p. 84.^
6 È il calcolo offerto dal Cancelliere dello Scacchiere britannico, G. Brown, alla Conferenza sul Monterrey Consensus.^
7 Cfr. il fondamentale studio di D.S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni, Perché alcune sono così ricche e altre così povere, Milano, Garzanti, 2000. E altresì: D.C. Lambert, Lo sviluppo economico, in P. Leon, Storia economica e sociale del mondo, Roma-Bari, Laterza, 1979, vol. 6°, T. I, cap. 1°, pp. 3-39; nonché I caratteri generali del Terzo Mondo, in Idem, vol. 6°, T. II, cap. 1°, pp. 359-415.^
8 Peraltro un’ampia letteratura ha ormai chiarito che anche le politiche coerenti dei PVS, sono necessarie per il successo dell’aiuto delle nazioni sviluppate. Una efficace sintesi del dibattito su questo tema è in: G. de Blasio e A. Dalmazzo, La cancellazione del debito dei paesi poveri, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 11-36.^
9 Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1992; J. Rawls, Il diritto dei popoli, Torino, Comunità, 2001.^
10 Il presidente della Banca Mondiale, Paul Wolfowitz, ha osservato con semplicità: «Quando agricoltori ricchi in paesi ricchi negano a contadini poveri in paesi poveri di vendere i loro prodotti, vuol dire che occorrono riforme», in: «Il Sole 24 ore».^
11 Cfr. J. Sachs, The End of Poverty, How We Can Make it Happen in Our Lifetime, London, Penguin Books, 2005, p. 288.^
12 Una terza questione, poi, di cui più avanti si discorre concerne i termini tecnici di tale politica e i suoi costi economici.^
13 Ha notato un acuto osservatore delle vicende internazionali che «sarebbe il momento di enfatizzare il lato europeo di un contesto sempre più accentuatamente multilaterale. Di unirsi per pesare di più nel rapporto con l’America e sulla scena del mondo. Accade il contrario: assistiamo dopo l’89 alla rinazionalizzazione della politica estera dei singoli paesi europei […]. Cerchiamo disperatamente di aggrapparci ad un’Europa di cui spesso discettiamo come se davvero fosse un soggetto geopolitico, un global player». Cfr. L. Caracciolo, Unilateralismo, perché gli Stati Uniti hanno bisogno dell’Europa, in «la Repubblica», 15 settembre 2006.^
14 Non è forse improprio aggiungere – considerando che gli europei hanno qualche complesso in materia – che il potere contrattuale di cui l’Europa dispone nel rapporto con gli Stati Uniti sarebbe, per una volta, a suo favore. La semplice ragione è che la spesa per l’aiuto allo sviluppo da parte delle nazioni europee è assai maggiore di quella americana: e questo elemento non è certo di poco peso nel gioco a chi ha la maggiore influenza nella direzione politica di un impegno comune.^
15 Sotto questi profili, è importante che Europa e S.U., per disegno o necessità, abbiano comunque trovato un’intesa di principio su due questioni internazionali egualmente cruciali come l’armamento nucleare dell’Iran e il percorso di pace tra Israele e Palestina. È un quadro che, appunto, potrebbe aprire la strada ad ulteriori sviluppi positivi.^
16 Cfr. F. Halliday, Cento miti sul Medio Oriente, Torino, Einaudi, 2006.^
17 Sul tema dell’alternativa di cui si discute negli Stati Uniti, egemonia liberale o impero, multilateralismo o unilateralismo, cfr. gli importanti saggi di M. Cox, M. Mann, H.J. Ikenberry, J.S. Nye, R. Kagan, R. Cooper, M. Kaldor, T. Risse, Z. Cui, A. El-Affendi, contenuti nel volume di D. Held e M. Koenig-Archibugi, American Power in the 21st Century, Cambridge, UK, Polity Press, 2004.^
18 Cfr. su questi dati il rapporto dell’IMF, World Economic Outlook, settembre 2006, nonché il supplemento speciale di «The Economist», The new titans A survey of the world economy, 16 settembre 2006.^
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