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L’antisemitismo tra Otto e Novecento come fenomeno europeo. Un nuovo studio comparativo del caso tedesco e di quello italiano
di Anna Maria Voci
Già da diversi anni l’editore Metropol di Berlino pubblica una collana di studi comparativi sull’antisemitismo in Europa, su quella nuova corrente, sociale e politica, di ostilità verso gli Ebrei, che, dalla Germania, a partire soprattutto dagli anni ’70 del secolo XIX si diffuse in Europa. Oltre all’analisi comparativa della nascita e dello sviluppo dell’antisemitismo europeo, la collana si propone anche di pubblicare contributi dedicati al tema della rilevanza dell’antisemitismo per la storia europea e per l’autocoscienza storica dell’Europa nel suo percorso di unificazione. È ora appena uscito il nono volume della collana, un ampio studio di Ulrich Wyrwa, professore di storia contemporanea all’Università di Potsdam e direttore scientifico del Corso Europeo di Ricerca sulla nascita e lo sviluppo dell’antisemitismo in Europa (1879-1914/1914-1923), istituito presso il Zentrum für Antisemitismusforschung della Technische Universität di Berlino. Lo studio di Wyrwa è dedicato al confronto del fenomeno dell’antisemitismo in Germania e in Italia tra gli anni ’70 del secolo XIX e l’inizio della Prima Guerra Mondiale: Gesellschaftliche Konfliktfelder und die Entstehung des Antisemitismus. Das-Deutsche Kaiserreich und das Liberale Italien im Vergleich, Berlin, Metropol Verlag, 2015 (Studien zum Antisemitismus in Europa, Band 9, herausgegeben von Werner Bergmann und Ulrich Wyrwa).
Nell’introduzione l’A. definisce l’antisemitismo del secolo XIX come essenzialmente un fenomeno sociale, la cui nascita fu strettamente legata ai cambiamenti economici e politici ed ai rapidi processi di trasformazione avvenuti nel secolo XIX (pp. 13-14). Il fattore determinante nella nascita dell’antisemitismo è individuato, insomma, in quel processo di “metamorfosi del mondo” (“Verwandlung der Welt im 19. Jahrhundert”) che ebbe luogo nel secolo XIX e che è stato descritto da Jürgen Osterhammel nel suo ponderoso e fortunato libro1. Le cause socio-economiche e politiche sono individuate nel passaggio da una società agraria ad una industriale, cioè da un’economia di sussistenza ad una di mercato: tale rivoluzione economica ed il brusco affermarsi di una società capitalistico-industriale, con tutti i suoi risvolti negativi in termini di esclusioni economiche e sociali, di insicurezze mentali, di conflitti di classe, finì per essere identificata soprattutto con gli Ebrei. Accanto a questi fattori economici, occorre anche tenere conto di un altro elemento: lo scontro di mentalità politiche contrastanti, manifestatosi a partire dalla Rivoluzione francese e dal passaggio da una società cetuale di sudditi ad una società borghese di cittadini. A partire da quel periodo nacque una nuova cultura politica, aperta anche agli Ebrei colti. Anche questo cambiamento causò profonde insicurezze e aspri conflitti. Pertanto l’antisemitismo del secolo XIX, a differenza dell’ostilità agli Ebrei motivata dal fattore religioso, quale era stata conosciuta prima di allora, fu in primo luogo una «sindrome originata dal concorso di atteggiamenti sociali e morali, di orientamenti ideologici e di posizioni politiche, la cui nascita è legata alle trasformazioni avvenute nel mondo nel secolo XIX. Le sue origini si avvertono già ai primi decenni del secolo, ma esso si impose e si diffuse nella società solo con i cambiamenti culturali e la trasformazione del clima politico dell’ultimo terzo di quel secolo» (p. 17). Subito dopo la comparsa del neologismo “Antisemitismus” nel 1879, nella cerchia dello scrittore e giornalista Wilhelm Marr, il termine entrò nell’uso comune della lingua tedesca e si diffuse rapidamente anche in altre lingue europee. Esso divenne una parola d’ordine politica per definire una nuova forma di ostilità verso gli Ebrei, diversa da quella antica, che aveva un carattere religioso. Nel concetto di antisemitismo si riassumeva un totale disagio verso “la trasformazione del mondo”: esso era al tempo stesso anticapitalismo, antiurbanesimo, antiparlamentarismo, antiliberalismo, antisocialismo ed antifemminismo (p. 19). Il concetto di razza, a sua volta, ebbe in questo periodo (1870-1914) anche un certo ruolo, non però quel ruolo di assoluta rilevanza che avrà in seguito.
Il libro di Wyrwa riempie una lacuna storiografica, non essendovi stata fino ad ora una monografia comparativa che ponesse a confronto l’antisemitismo nel Kaiserreich con analoghi fenomeni in altri paesi europei. Wyrwa ha scelto l’Italia, essendo questo il paese che, nella sua evoluzione nazionale e statale, presenta la maggiore vicinanza alla Germania, ma che, quanto alla storia dell’antisemitismo ed allo status della ricerca storica su di esso, si differenzia chiaramente dalla Germania. A differenza della Germania, che registra una innumerevole quantità di studi sull’antisemitismo nel Kaiserreich tedesco, gli studi sull’antisemitismo nell’Italia liberale non sono numerosi. Ciò è probabilmente dovuto, almeno in parte, come osserva l’A., alla tesi formulata nel 1933 da Arnaldo Momigliano, per la quale in Italia non vi sarebbe stato antisemitismo (p. 24). Si tratta di una tesi che ebbe ampia diffusione anche nel periodo post-bellico. L’interesse della storiografia italiana si è indirizzato pertanto soprattutto allo studio dell’antisemitismo durante il periodo fascista. Solo nel periodo più recente si registra qualche studio sull’antisemitismo nell’Italia liberale. Questi saggi, però, non si sono tanto occupati della questione delle manifestazioni specifiche di antisemitismo in Italia, quanto piuttosto di un’altra questione: perché esso ebbe una così scarsa risonanza nella società italiana ed hanno risposto a tale quesito in una maniera che, come vedremo subito, l’A. giudica insufficiente. Il libro di Wyrwa è appunto dedicato ad illustrare quelle manifestazioni specifiche in una dimensione comparativa, cioè ponendo il caso italiano a fronte di quello tedesco. È vero che le sue conclusioni confermano la tesi già nota, e cioè che l’antisemitismo in Germania tra ’800 e ’900 fu un fenomeno forte e virulento, anche se è importante sottolineare che ad esso non riuscì affatto, allora, di conseguire un’egemonia culturale in Germania, mentre in Italia esso fu debole e poco diffuso. Il merito di Wyrwa è soprattutto quello di fondare solidamente e rafforzare tale tesi con un’analisi molto articolata e approfondita di esempi e di ambiti, ed uno studio estremamente ampio, capillare e rigoroso delle fonti (riviste, quotidiani, fonti d’archivio, epistolari, memorie, diarii, lasciti di carte). Un altro merito è quello di avere chiaramente individuato le cause della debolezza del movimento antisemita in Italia non tanto, come di solito si trova affermato, nella forte assimilazione degli Ebrei italiani, nella loro “nazionalizzazione”, nella loro scarsezza rispetto alla popolazione italiana, nel fatto che in Italia non si verificò un’immigrazione cospicua di Ebrei dai paesi dell’Europa orientale. La debolezza di questi argomenti sta nel fatto che essi cercano le cause del fiacco antisemitismo italiano nella storia ebrea. Esse vanno invece ricercate piuttosto nella storia italiana, come l’A. giustamente osserva. Egli enuncia quattro fattori: egemonia del liberalismo nella cultura politica e nella vita pubblica italiana del secolo XIX; situazione specifica della Chiesa cattolica nel nuovo Stato nazionale; nascita del capitalismo industriale, che in Italia risale fino alla prima età moderna, con la conseguenza che in quel paese non si registra poi nel sec. XIX quel “clash of mentalities” verificatosi altrove, anche in Germania, e che fu così importante per l’insorgere dell’antisemitismo; precoce sviluppo delle città, che rese l’Italia insensibile all’agitazione antisemita, la cui veemenza fu indirizzata, tra l’altro, anche contro l’urbanesimo e tutti i fenomeni negativi ad esso collegati (pp. 373-374).
L’A. concentra la sua attenzione su quattro ambiti tematici, la nazione, il piccolo commercio, l’accademia e la Chiesa, in relazione ai quali egli rileva altrettante lacune o mancanze da parte dell’attuale ricerca sull’antisemitismo. Per definire ciò che io qui chiamo ambito tematico Wyrwa si serve invece di un concetto preso a prestito dalla sociologia: quello di “campo”, secondo la definizione data ad esso da Pierre Bourdieu. Esso, nelle parole di Wyrwa, consisterebbe nel «luogo in cui si svolgono conflitti sociali e sul quale gli attori, muovendo da specifici presupposti economici e sociali, agiscono, si presentano e si posizionano» (p. 40). Analogamente a Bourdieu, che, mediante il concetto di campo, in particolare di “campo di conflitto”, tentò di spiegare i diversi modi di agire degli uomini della medesima classe sociale e di dare conto del fatto che le prassi sociali sono tutt’altro che uniformi, allo stesso modo Wyrwa si serve di tale concetto come di uno strumento euristico in grado, secondo lui, di esprimere al meglio il carattere fondamentale dell’antisemitismo, che egli chiama “agonale”. Secondo l’A., inoltre, tale concetto sarebbe in grado di riassumere in sé e di spiegare le interpretazioni disparate e talvolta contraddittorie e inconciliabili dei fenomeni di antisemitismo, interpretazioni che via via adducono motivi sociali, politici o religiosi, ma non riescono a spiegare perché, a dispetto della medesima condizione sociale, della stessa confessione religiosa o della stessa attitudine nazionale, i diversi attori assumano posizioni diverse, e talvolta opposte, nei confronti dell’antisemitismo. Francamente non so fino a che punto questa operazione di trasportare di peso una categoria astratta, tratta da una teoria sociologica, e poi di usarla come se fosse una chiave di volta per interpretare l’infinita varietà del mondo della storia e dei concreti contesti storici, sia proprio necessaria a rendere piena giustizia a quel mondo ed a quei contesti. A me appare superflua, non necessaria. Con ciò voglio dire che credo che l’A. avrebbe raggiunto gli stessi positivi risultati anche senza applicarla.Accanto al concetto di “campo di conflitto” l’A. si serve anche del concetto gramsciano di “egemonia”, che lo avrebbe aiutato a comprendere meglio le lotte concrete nei campi da lui scelti; a determinare i rapporti di forza tra coloro che agiscono in essi; a spiegare il mutamento dei codici culturali e delle disposizioni intellettuali (p. 42).
I quattro “campi di conflitto” scelti dall’A. per la sua ricerca comparativa sono i seguenti:
1) Il “campo di conflitto” della nazione. In questo capitolo Wyrwa esamina la relazione tra nazionalismo ed antisemitismo concentrando la sua attenzione sui due movimenti nazionalistici, l’Alldeutscher Verband, fondato nel 1891, e l’Associazione Nazionalista Italiana, costituitasi nel 1910, i cui centri organizzativi furono Berlino e Firenze. L’A. ne ripercorre la storia e ne ricostruisce i dibattiti interni. Qui egli solleva la questione dell’appartenenza degli Ebrei alla nazione, che in Germania, dove gli antisemiti costituirono il nocciolo dei primi movimenti nazionalisti, sarebbe stata oggetto di aspri dibattiti, mentre in Italia, dove tra le voci dei nazionalisti non si avvertono quasi toni antisemiti, non avrebbe avuto alcuna rilevanza. Anzi, come osserva l’A., proprio molti Ebrei italiani sostennero il movimento irredentista, una delle radici o delle manifestazioni del nazionalismo italiano. Anche la campagna antimassonica lanciata nel 1913 dai nazionalisti italiani risulta quasi del tutto priva di punte antisemite. I primi veri e chiari segni di antisemitismo nella cultura politica italiana sono colti dall’A. soltanto durante la Prima Guerra Mondiale. I due movimenti nazionalisti avevano molto in comune: erano entrambi contro la socialdemocrazia, contro il parlamentarismo, contro la borghesia; entrambi erano nati dallo spirito del colonialismo ed erano proni alla retorica della lotta, del militarismo. Vi erano però alcune differenze: il nazionalismo tedesco, a differenza di quello italiano, si orientava piuttosto contro il mondo moderno della tecnica e dell’industria e vagheggiava l’ideale di una società agraria-patriarcale. Di nuovo, a differenza del movimento italiano, il nazionalismo tedesco si costituì ben presto in
movimento politico. Ma la differenza principale consisterebbe, secondo l’A., proprio nella questione dell’antisemitismo. Pur essendo vero che l’Alldeutscher Verband non possa definirsi un’associazione antisemita tout-court, tuttavia la presenza di convinti antisemiti tra i nazionalisti tedeschi è inconfutabile. In Italia, invece, il movimento nazionalista nacque in un ambiente intellettuale al quale Ebrei e non Ebrei prendevano eguale
parte, senza discriminazione. Tuttavia, neanche in Germania l’antisemitismo assurse a fattore dominante del movimento nazionalista. Ciò almeno fino alla Prima Guerra Mondiale. Pertanto il confronto tra Italia e Germania dimostra che non si può parlare di un necessario intreccio tra nazionalismo ed antisemitismo (p. 361).
2) Il “campo di conflitto” del piccolo commercio, esemplificato nei casi di Milano e di Berlino. Queste due città sono state scelte dall’A. perché esempi di metropoli commerciali nelle quali si registrano in modo significativo le trasformazioni nel sistema di scambio di merci, la nascita dei grandi magazzini e lo sviluppo di un tipo di società nuova, la società di consumi. Sono, queste, a parere di Wyrwa, trasformazioni socio-economiche la cui rilevanza per la nascita dell’antisemitismo fu decisiva: il commercio al minuto era rappresentato, infatti, soprattutto dal ceto piccolo-borghese e una grossa fetta di esso era costituita proprio da Ebrei, la cui ascesa sociale nel sec. XIX andò di pari passo con la rapida crescita della produzione e del commercio di beni in quel periodo. Nel giro di tre generazioni, osserva l’A., con l’urbanizzazione e l’industrializzazione il commercio, soprattutto dei beni di uso quotidiano, divenne un settore centrale dell’economia e la popolazione ebraica passò dall’essere una minoranza respinta ai margini della società civile ad una quota della popolazione posta al centro di essa (p. 130). Questi fondamentali cambiamenti nel campo economico ebbero anche un risvolto social-psicologico, che si sarebbe esplicato nello scontro tra due mentalità: quella tradizionale, tipica della economia di sussistenza preindustriale e corporativa, con un suo modello di economia “morale” ed un suo codice di onore mercantile, e quella moderna utilitaristica, libera da tutto ciò e orientata al mercato, che venne fatta propria dai commercianti ebrei. Costoro si distinsero in particolar modo per l’introduzione di nuovi metodi di vendita di beni. Sia a Milano che a Berlino i commercianti ebrei ebbero un ruolo di primo piano nella vita economica della loro città, che l’A. illustra con numerosi esempi, soffermandosi in particolare sulla nascita dei grandi magazzini, ad es. quelli dei fratelli Bocconi a Milano e della famiglia Wertheim o di quella Tietz a Berlino: la differenza tra le due città non consisteva tanto nel fatto che il numero di grandi magazzini a Berlino fosse di gran lunga superiore che a Milano, quanto piuttosto nel fatto che a Berlino i loro proprietari fossero quasi tutti Ebrei ed erano pertanto molto di più dei loro correligionari milanesi oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica. Di pari passo con la costituzione di una classe di piccoli commercianti, come parte del nuovo ceto medio, andò anche la formazione di associazioni tra essi. Ciò avvenne sia a Berlino che a Milano. L’A. si è posto la domanda se tali associazioni abbiano manifestato consistenti segni di antisemitismo nelle due città e conclude negativamente: le associazioni dei piccoli commercianti di Berlino si mostrarono resistenti alla propaganda antisemita che li circondava, in parte anche perché una buona parte dei loro membri era, appunto, ebrea; a Milano il problema neanche si pose perché nella cultura della città l’antisemitismo non esisteva. Ma, come l’A. osserva, ciò che rende interessante il caso di Milano è soprattutto il fatto che la Chiesa cattolica tentò di fare propaganda antisemita in città e, a questo proposito, Wyrwa fa l’esempio di Don Davide Albertario. Il tentativo fallì in buona parte grazie ai sentimenti anticlericali dei Milanesi, diffusi anche nel ceto dei piccoli commercianti. Le conclusioni dell’A. sono importanti soprattutto quanto al caso di Berlino, perché relativizzano una tesi corrente nella ricerca sull’antisemitismo che identifica in determinati ceti sociali, in particolare in quello dei piccoli commercianti, uno dei principali vettori di antisemitismo, a sua volta visto come conseguenza di conflitti di interesse, mentre Wyrwa lo considera piuttosto come una «conseguenza di conflitti su diverse interpretazioni e spiegazioni del presente» (pp. 27 e 170), quindi piuttosto come un fatto culturale. La differenza tra Milano e Berlino non consiste dunque nel grado di presenza di sentimenti antisemiti, quanto nella differenza dell’ambiente cittadino nel suo complesso: i piccoli commercianti ebrei di Berlino vivevano in una città segnata da uno spirito antisemita che volgeva la sua carica aggressiva soprattutto contro la nascita dei grandi magazzini, gestiti da Ebrei, mentre a Milano questo non avveniva.
3) Il “campo di conflitto” dell’Università, per il quale l’A. ha scelto i due casi di Bologna e di Heidelberg, le due più antiche Università dei rispettivi paesi: la data di fondazione della prima è stata posta dalla ricerca al 1088; la seconda fu fondata nel 1386. Un elemento comune alle due Università è riconosciuto dall’A. nel fatto che in entrambe nel periodo di costituzione del rispettivo Stato nazionale prevaleva una temperie liberale e che in entrambe i docenti consideravano la loro attività didattica alla stregua di un compito nazionale (p. 177). Oggetto d’indagine di Wyrwa in questo “campo” è stata la dimensione della presenza ebrea tra studenti e professori. Fino al 1860 all’Università di Bologna non si registra alcun professore ebreo, dato che l’accesso al corpo dei docenti era interdetto agli Ebrei. A Heidelberg, invece, essi erano ammessi, ma solo fino alla libera docenza: se un Privatdozent aspirava all’ordinariato, gli si richiedeva implicitamente che si convertisse al Cristianesimo. Dopo il 1860 professori ebrei vennero chiamati all’Università di Bologna in una misura più o meno analoga a quella che si rileva a Heidelberg; la differenza tra i due casi consiste piuttosto nel fatto che a Bologna essi poterono senza problemi giungere fino all’ordinariato, mentre a Heidelberg i loro colleghi erano sottoposti ad un enorme pressione affinché si convertissero. Wyrwa ha poi indagato la diffusione di sentimenti antisemiti tra gli studenti ed è giunto alla conclusione che a Bologna essi non esistevano e che gli studenti ebrei erano del tutto integrati nell’ambiente universitario: ivi gli studenti erano mossi piuttosto da sentimenti anticlericali ed irredentistici e si muovevano nella tradizione democratica e repubblicana del Risorgimento. In Germania la situazione era del tutto diversa: lì si riscontrano posizioni antisemite e inoltre si osserva nella stragrande maggioranza degli studenti un orientamento politico conversatore, ligio alla Chiesa, antiliberale ed antidemocratico. L’A. ha anche studiato il grado di partecipazione degli Ebrei alle due celebrazioni giubilari del 1888 e del 1886 ed ha potuto constatare che in entrambi i casi gli Ebrei furono coinvolti nella programmazione e nella realizzazione delle rispettive celebrazioni. Infine Wyrwa ha esaminato il grado di antisemitismo nella cerchia attorno alle due personalità che, intorno al 1900, segnarono l’ambiente universitario a Bologna e Heidelberg: Carducci e Max Weber. In entrambe erano presenti intellettuali ebrei: a Heidelberg si distinse tra loro il giurista Georg Jellinek che animava e stimolava i dibattiti con le sue idee e che coniò il concetto di Idealtypus, poi divulgato da Weber; a Bologna l’A. individua in Guido Morpurgo, Achille Levi e Roberto Del Vecchio le figure più eminenti di intellettuali ebrei della cerchia attorno a Carducci. Ciò nonostante, l’A. ritiene di individuare in Weber alcuni risentimenti antisemiti, che, invece, egli dichiara essere del tutto assenti in Carducci: a differenza che per quest’ultimo, per Weber gli Ebrei erano il prototipo del “diverso”, dello “straniero” (p. 239). Anche in questo caso, come nel precedente (Milano/Berlino), una delle differenze principali tra le due città risiedeva nel clima cittadino: nella borghesia bolognese ogni spirito antisemita era proibito e manifestazioni antisemite si ebbero solo da parte della Chiesa cattolica, che peraltro non aveva alcuna influenza sull’opinione pubblica. Diverso il caso di Heidelberg, dove l’antisemitismo divenne con il passare degli anni una cospicua forza politica (pp. 241-242).
4) Il “campo di conflitto” della Chiesa, per il quale l’A. ha analizzato i casi di Breslau/Breslavia e di Venezia. La prima città è stata scelta perché la divisione confessionale della sua popolazione (circa 60% di Protestanti e circa 35% di Cattolici) rispecchiava grosso modo la percentuale della divisione tra Protestanti e Cattolici nella Germania di allora; la seconda è stata scelta in quanto luogo di nascita dell’associazionismo cattolico nell’Italia liberale, luogo di svolgimento del primo congresso dei Cattolici italiani nel 1874 e, infine, città dalla quale il Cattolicesimo italiano cominciò a riavvicinarsi alla società civile ed alla politica nazionale. Oggetto dell’esame accurato dell’A. è la stampa confessionale in entrambe le città e la sua lotta contro la “metamorfosi del mondo”. In questa lotta l’A. dimostra (ed è elemento di grande interesse) come la Chiesa, quella cattolica come quella protestante, ebbero un ruolo di primo piano nell’approntare quella nuova lingua “laica” dell’antisemitismo, quella nuova semantica antisemita che, poi, si imporrà verso la fine degli anni ’70 e negli anni ’80 a partire dalla Germania. Se negli articoli degli anni ’60 compaiono ancora motivi religiosi, quelli tradizionali del Cristianesimo, a giustificare sentimenti antigiudaici, a partire dagli anni ’70 la stampa confessionale nelle due città articolò un antisemitismo ispirato piuttosto da motivi socio-economici, che individuava negli Ebrei i responsabili della nascita della deprecabile economia di mercato, della politicizzazione della società e della decadenza dell’antico ordine cetuale. A Breslau il Protestantesimo era diviso tra un’ala conservatrice, rigidamente luterana e fortemente antisemita, ed un’ala minoritaria di ispirazione liberale-borghese, che assunse una posizione più moderata. Il campo cattolico era più omogeneo, anche se pure in esso il fronte ultramontano si distinse per i suoi toni energicamente antisemiti. Tuttavia, né il clero ultramontano di Venezia, né quello protestante-conservatore di Breslau riuscirono a influenzare con la loro propaganda antisemita l’opinione pubblica delle rispettive città, ove la popolazione ebraica, per lo più appartenente al ceto borghese e benestante, era ben integrata nel tessuto sociale. La società civile e il clima culturale in entrambe le città si rivelarono impermeabili alla retorica antisemita e rimasero immuni da atteggiamenti ostili agli Ebrei.
Nel complesso lo studio di Wyrwa convince per il rigore con il quale la ricerca è stata condotta, per l’ampiezza delle fonti sulle quali si basa la sua indagine, per la ricchezza degli spunti di riflessione che offre, e consegue a mio avviso pienamente l’obiettivo che si era prefisso: quello di cogliere i contesti sociali, politici ed economici della nascita dell’antisemitismo nei due paesi da lui scelti e messi a confronto, di illustrare il carattere agonale dei dibattiti a favore o contro di esso, e di definire le concrete costellazioni e configurazioni sociali dei dibattiti intorno ad esso.




NOTE

11 J. Osterhammel, Die Verwandlung der Welt. Eine Geschichte des XIX. Jahrhunderts, München, Beck, 2009 (rist.: ivi nel 2010, 2011 e 2013, e tradotto in inglese, castigliano e polacco).^
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