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Dall’economia della cultura a un ripensamento della cultura dell’economia
di Luigi Maria Sicca
1. Premessa

1929 una crisi così non si era mai vista...; 1973 una crisi così non si era mai vista...; 1991 una crisi così non si era mai vista...; 2008 una crisi così non si era mai vista...

Espressioni di senso comune, date convenzionali, intervalli asintotici tra una grande crisi e la successiva crisi forse ancora più grande, di certo più lunga.
Quella attuale attraversa tutte le economie occidentali. Ha assunto, è probabile, lo capiremo, caratteri strutturali. Nulla a che vedere con la tradizionale idea di ciclo economico così come definita da Keynes1 in poi, caratterizzata dall’alternarsi di fasi di espansione e recessione. Questa crisi ha più facce. Quella delle famiglie che contraggono i propri consumi. Quella delle imprese che devono ripensare se e come crescere. O non crescere.
C’è poi un volto buio, che sta dietro a tutto questo. Un lato oscuro, meno visibile. E proprio per questo merita attenzione da parte di chi fa ricerca economica2.
È una crisi interna alla produzione di pensiero, di idee e modelli alla base dei possibili modi, in realtà mai scontati e certi, per stare insieme. Perché è proprio nei modi di condivisione delle regole del gioco nei processi di creazione di valore economico e sociale che risiedono le premesse che sottendono la teoria dell’impresa, nelle sue numerose declinazioni, e le teorie dell’organizzazione. Quest’ultimo problema, che è alla base del benessere, si traduce, oggi come ieri, forse ancora più di ieri, nell’esigenza di indagare le fonti di conoscenza economico manageriale.
Obiettivo di questo lavoro è di testimoniare alcune possibili strade perseguite dalla comunità scientifica e dalle comunità di pratiche per lavorarci su: le teorie economiche prevalenti, date come buone negli anni buoni, sembrerebbero non funzionare più in tempi di crisi, quando invece le cose non sono andate come previsto o, almeno, come ci era stato narrato che sarebbero andate. Ponendo e riproponendo, quindi, una questione di sempre e mai risolta. Quella che interessa i nessi tra teoria e pratiche in economia: oggi da un lato assistiamo al moltiplicarsi delle nostre potenzialità computazionali, dall’altro facciamo i conti con lo svanire dell’utilità del prevedere, o, comunque, della capacità di descrivere e interpretare le effettive condizioni di vita nella realtà sensibile.
È nostra convinzione che un contributo utile all’arricchimento delle fonti di conoscenza per le scienze economiche e sociali risieda in quell’ambito di studi incentrato sull’economia della cultura e nel dibattito che ne è scaturito, a partire dagli anni Sessanta, per poi maturare attraverso un’ampia declinazione per oltre mezzo secolo.Per questo, al paragrafo 2 si ripresenterà un sintetico excursus degli studi di economia della cultura, con particolare riferimento al tema della gestione del patrimonio culturale e al management delle organizzazioni culturali e artistiche di matrice pubblica e privata, come luogo di concepimento del matrimonio tra economia e cultura.
Superata la fase pionieristica di studi interessati al patrimonio culturale si è giunti a normalizzare la rinuncia, affermatasi per altri versi in oltre cinquanta anni di ricerca economica, alla razionalità assoluta che sottendeva (e in parte sottende) il decision making, in nome di processi di creazione di valore orientati da altre logiche (paragrafo 3 e ss.): altre e non necessariamente nuove.
Nel paragrafo 4 e ss. si riporteranno i risultati derivanti da una serie di ricerche empiriche: perché affermare che antiche forme di sapere, come quelle insite nelle arti, possono essere fonte di conoscenza richiede poi un lavoro di legittimazione che passa, necessariamente, per uno scambio interdisciplinare condotto sul campo.
Seguiranno al paragrafo 5 alcune riflessioni conclusive.



2. Gli studi di economia della cultura

Gli studi di economia della cultura trovano fondamento dalla metà degli anni Sessanta con il contributo di alcuni studiosi di matrice economico-pubblica3. Dopo i primi lavori pionieristici si è dischiuso un ampio dibattito centrato sul tema della legittimazione dell’intervento pubblico a favore dell’arte e della cultura4.
Per molti anni, tuttavia, non si è riscontrata altrettanta attenzione da parte di quella famiglia di studiosi interessati al mondo delle aziende, alla comprensione delle performance realizzate in termini di efficienza e di efficacia.
La prima questione ha quindi a che fare con la divisione del lavoro cognitivo tra ricercatori che con prospettive e angoli visuali differenti si occupano dello stesso oggetto (il patrimonio culturale), dialogando tra loro di rado e, talvolta, cercando in modo pretestuoso di assegnare delle gerarchie nel processo di legittimazione per spiegare il funzionamento dell’oggetto stesso.
Nel seguente paragrafo si propone quindi una breve riflessione epistemologica (in qualche modo connessa anche a problemi di sociologia della conoscenza), tesa a testimoniare quanto sia urgente abbassare gli steccati tra ambiti accademici, senza per questo temere perdite di identità.



2.1. Divisione del lavoro cognitivo: un’arena di sguardi

Nel processo di divisione del lavoro di produzione della conoscenza tra studiosi interessati a interpretare la complessità di una dinamica sociale5 e, nello specifico, quelle che interessano le organizzazioni artistico culturali, occorre preliminarmente domandarsi quale sia stato, sia e potrà essere (in contesti macroeconomici e politici in evoluzione) il punto di osservazione di ciascuno studioso6.
Chi si occupa di management e, in particolare, di studi organizzativi, non è interessato tanto alla comprensione dell’arte come oggetto (cos’è l’arte? cos’è la cultura?), bensì alla storicizzazione del fenomeno7 e al ruolo che una data espressione dell’arte ha, entro date coordinate spaziali (il contesto sociale, politico, economico in cui essa si sviluppa) e temporale (in che tempo nasce una espressione artistica) definite dalla pluralità degli stakeholder8. Una prospettiva storicizzata di questo tipo porta con sé i rischi connessi alla definizione del concetto di valore, concetto cardine di tutta la storia del pensiero economico9: ciò che ha valore per i governi è − o può essere − cosa diversa da ciò che ha valore per le imprese diffuse sul territorio, o per gli artisti chiamati ad interpretare il processo di produzione e così via. Ciascuna famiglia di stakeholder esprime un proprio sistema di valori (e una concezione di ciò che è il valore), mentre spetta proprio al management (inteso sia come disciplina accademica, sia come azione dei manager) bilanciare e mediare, per raggiungere gli obiettivi che l’istituzione (per esempio un museo o un teatro) si propone di conseguire. I manager, dunque, rilevando sul campo quali sono i valori sottesi ai comportamenti degli attori coinvolti, ricercano le leve che operano alla base del cambiamento e della complessità10.
A fronte della pluralità ed eterogeneità delle concezioni di valore (manifestazione reale del portato teorico della molteplicità degli sguardi gettati su un oggetto) gli studi organizzativi si preoccupano di verificare se gli strumenti tradizionali del management, sorti e affinati nell’era fordista, siano ancora adeguati a interpretare un contesto, quello dei beni culturali11, poco battuto dalla tradizione degli studi di management. Poco battuto, non solo; ma anche di fatto discontinuo, rispetto al mondo industriale dal Secondo Dopoguerra in poi, punto di riferimento sul quale si è costruita e raffinata la teoria dell’impresa e le teorie dell’organizzazione, in molte possibili declinazioni12.
Eppure, il contesto nel quale si trovano ad operare le organizzazioni artistico-culturali13 è quello in cui si consuma la competizione tra soggetti (che chiamiamo aziende, o imprese, per connotarne la dimensione epica, o organizzazioni aziendali) che sono il perno attorno al quale ruota la ricchezza delle nazioni: mentre fino al XVIII secolo i processi di produzione economica erano al servizio del sovrano, con lo sviluppo delle moderne democrazie, pur restando viva l’esigenza di visibilità che i governi ricercano attraverso la promozione delle attività culturali14, le arti assumono le caratteristiche di veri e propri sistemi di offerta da realizzare con logiche imprenditoriali in concorrenza con altre numerose attività del tempo libero. Per cui anche le organizzazioni che producono e distribuiscono cultura e arte, così come le imprese di qualsiasi altro tipo, sono costrette a prendere atto che devono operare rispettando le regole del gioco proprie di quel modo di stare insieme, abbastanza recente, che passa, nella dizione di senso comune, come “capitalismo industriale”: quali insegnamenti, a poche centinaia di anni da quella rivoluzione che segnò l’avvento di questo “modo di produzione”, possono derivare dalle organizzazioni artistiche, portatrici di saperi e linguaggi millenari, alle imprese stricto sensu? Ovvero a quei contenitori di creazione di valore maggiormente studiati nella tradizione della teoria economica?
Possono, questi antichi luoghi di conoscenza, essere considerati, nel lungo periodo, alla stregua dei mentori, da cui apprendere antichi e mai obsoleti significati, al cospetto di uno scenario come quello attuale, in una condizione di crisi dai tratti, probabilmente, strutturali?
Attraverso quali percorsi di ricerca e attraverso quali azioni economico manageriali è possibile passare dall’intuizione sul potenziale fecondativo delle Humanities15, alla sfera delle pratiche gestionali?
Le risposte a queste domande si possono rintracciare nell’evoluzione degli studi di economia della cultura che, superata la fase centrata sul tema della legittimazione dell’intervento pubblico, hanno poi seguito sentieri ulteriori, probabilmente “utili” a comprendere le ragioni di una lunga e intricata crisi a cavallo del terzo millennio.
Dopo la fase pionieristica su menzionata, si è infatti compreso che il matrimonio tra economia e cultura dovesse superare l’orrore epistemologico che assumeva l’ipotesi (una sorta di arroganza dei posteri) per cui le categorie istitutive di una disciplina (per altro giovane) come l’economia potessero essere “applicate” alla gestione del patrimonio culturale, foriero a sua volta di significati e linguaggi molto più antichi.



2.2. Gli impact studies e la centralità della legittimazione dell’intervento pubblico

Molti studi di area economica hanno centrato l’incontro tra arte ed economia, a partire dall’analisi di impatto che le arti hanno o possono avere sui consumi, sui redditi, sull’occupazione e sulla bilancia dei pagamenti. Ciò come naturale evoluzione dell’attenzione prestata al tema della legittimazione al finanziamento pubblico, allo scopo di dimostrare (assumendo quindi la categoria della dimostrazione propria delle scienze dure) che investire nelle arti può essere un “buon business”, dato il ritorno sotto forma di sviluppo industriale, occupazione, turismo, esportazioni, prelievi fiscali.
Numerosi lavori considerano l’impatto economico di16:
• un singolo evento culturale, come per esempio un festival, oppure istituzioni culturali permanenti;
• l’intera vita culturale di una città o di una regione;
• la vita culturale di un intero paese.
Questi lavori sono noti come impact studies. Studi di impatto ambientale, che ambiscono a poter misurare il valore delle arti, attraverso tre tipi di effetti:
• effetti diretti, come l’occupazione e il reddito, generati dall’arte. Per esempio in termini di numero di occupati;
• effetti indotti, o effetti annessi, spesso chiamati anche customereffects: quando le persone domandano consumi culturali, spendono soldi anche per i trasporti, per mangiare e bere e, talvolta, anche per dormire. In definitiva, la spesa in arte e cultura come generatrice di valore, altrove nell’economia;
• effetti indiretti come moltiplicatore di effetti diretti e indotti.

In base ad analisi di questo tipo, si dimostrerebbe il contributo delle arti all’economia nazionale17. Quelle ricerche, dunque, sostengono l’idea per cui va provato che le arti hanno diritto ad essere sussidiate. E questa prova ha una base fondamentalmente economica, ovvero in una concezione dell’economia fondata su un metodo di costruzione delle ipotesi (attraverso la categoria della “dimostrazione”), che si ispira direttamente alle scienze come la Fisica, la Biologia, la Chimica, etc. Non senza, tuttavia, inevitabili conclusioni politiche, ovvero di ciò che, nel dibattito internazionale, conosciamo con la dizione Cultural policy.



2.2.1. Oltre gli impact studies

Nella fase inziale di sviluppo del pensiero economico riferito al mondo dei beni culturali, restavano fuori dall’orizzonte d’interesse dei ricercatori da un lato i temi connessi all’intera filiera della formazione e dell’apprendimento; dall’altro quelli relativi al ruolo istituzionale da attribuire alle nuove professioni (le cosiddette professioni culturali): la preparazione, cioè, di nuove generazioni di cittadini, consumatori, imprenditori, ma anche artisti e manager destinati ad abitare i territori delle arti e della cultura, operando anche fuori degli ambienti di ricerca e della formazione universitaria.
È in quegli spazi lasciati liberi, nel confronto e attraverso lo scontro interno all’arena competitiva della ricerca e della politica, che l’evoluzione degli studi di economia della cultura lascia il passo a un nuova fase, su un diverso terreno, per ripensare l’incontro tra arti e culture da un lato e management dall’altro. È il terreno che riconosce un valore alle “finalità proprie dell’arte”, senza dovere passare per una qualche “dimostrazione” a supporto del sussidio, perché, per esempio foriero di incrementi nella ricchezza in altri settori. Finalità, insomma, “fini a se stesse”, se si accetta il giuoco di parole, che hanno a che vedere con lo sviluppo dell’identità e della creatività degli individui, soprattutto delle nuove generazioni di cittadini18. Proprio come avviene in ogni altro settore (o branca del sapere) dove si faccia ricerca, dove i risultati diventano oggetto di formazione e si produca – in ultima analisi – qualche risultato. È così per la Biologia, per l’Economia, per la Fisica, per la Matematica, etc.; dove il tema della dimostrazione non passa (o almeno così è stato fino all’avvento degli stringenti vincoli dati dalla partecipazione alla casa comune dell’Europa, che ha fatto dei vincoli di bilancio un fine e non più un mezzo) per una funzione ancillare di queste discipline rispetto a una qualche forma di impatto che abbia effetti diretti, indotti o indiretti.
La graduale istanza di omologazione delle arti ad altre forme di conoscenza non ha una base ideologica, ma fattuale: il denaro che la gente spende per recarsi al teatro o per andare a cena fuori casa dopo una visita a un museo (effetti indotti o diretti) potrebbe essere speso in altre attività del tempo libero se non ci fossero le organizzazioni artistiche e culturali. In molti casi le arti e la cultura, infatti, non generano affatto “nuovi” consumi o “nuova” occupazione in virtù delle loro specificità. Spostano semplicemente un po’ di denaro. Laddove sarebbe necessario determinare in che quantità quelle attività (anche grazie all’intervento pubblico) siano in grado di garantire un ritorno sugli investimenti e la creazione di una crescita reale, in funzione di “proprie e peculiari” caratteristiche.
L’idea proposta in questo lavoro, supportata da una ristretta cerchia di studiosi di management (che si muove sotto l’egida dell’etichetta del critical management), è quindi che sia possibile superare l’impostazione (considerata mainstream) di studi di economia della cultura, fino ad estrapolare almeno due dimensioni di analisi che consentono di generare una più sana e funzionante cultura dell’economia. Due dimensioni che tengano conto dei percorsi formativi degli artisti, dei processi che caratterizzano le loro storie scolastiche e di ricerca, caratterizzate da un investimento nell’esercizio dei sensi e della percezione, fondato in ultima analisi su un ripensamento della razionalità, intesa dalla tradizione di ricerca su richiamata, come guida indiscutibile dei processi di creazione di valore.
Nel prossimo paragrafo 3 (e ss.) si evidenzierà come il lavoro su arti e culture possa fare da sponda per rivalutare alcune certezze soppresse dal pensiero economico prevalente, quando si simulavano cicli economici crisi-ripresa per lo più regolari. Proporremo quindi una riflessione sul significato della rinuncia alla razionalità assoluta di stampo neoclassico (quella che sottende la teoria dell’Equilibro economico generale) con il corrispondente abbandono dell’assunto epistemologico che sussume che vi sia una gerarchia aprioristicamente definita nei processi di produzione del sapere, per esempio che il pensiero formale debba precedere l’azione allo scopo di ottenere risultati efficaci (o efficienti); oppure che la “produttività” sia una categoria necessariamente associata a investimenti (in tecnologia o in risorse umane) orientati da un indice di redditività del capitale investito o “ritorno” (ROI, Return On Investment) semplicisticamente considerati seguendo una logica governata da un vertice in grado di garantire, dall’alto, la crescita. In questa direzione, vedremo le ragioni dell’affermarsi del concetto di gestione strategica, con il riconoscimento che le organizzazioni artistiche hanno molto da insegnare a quelle più studiate nella tradizione degli studi di management, nella misura in cui sono in grado di evidenziare le funzioni di contenimento (nell’accezione plurima del verbo, dacontin re) dell’ansia.



3. Dall’economia della cultura alla cultura dell’economia: superare la razionalità limitata

Un ripensamento della cultura dell’economia, a partire dalla lezione che viene dagli studi di economia della cultura, così come su ripercorso, passa per il riconoscimento di una crisi dei modi di stare insieme, dati per scontati nei tempi di normale crescita e sviluppo e non più così sicuri al cospetto di quanto sta accadendo negli ultimi anni: a partire dal fatidico 15 settembre 200819.
Ne derivano non pochi quesiti, di difficilissima soluzione, ma non per questo ulteriormente eludibili.
È pensabile rinunciare alla razionalità ex ante, quella che orienta tutti noi verso un fine? È possibile battere, invece, antiche (e altrove attuali) vie che consentono di raggiungere, diversamente, l’efficacia organizzativa e la qualità della vita, motore e scopo del benessere economico e sociale, sempre promesso e rincorso?
Come dare spazio, nei processi di decisionmaking, a un modo alternativo a quello proprio della tradizione illuministica, sintetizzata da Immanuel Kant con il richiamo a Sapere aude, già presente in Orazio (Epistulæ, I, 2, 40), imperativo etico nei processi di creazione di valore proprî delle economie più forti del terzo millennio?
È possibile attraversare i ponti che uniscono le nostre esperienze di apprendimento e l’azione quotidiana che si esprime attraverso i comportamenti di cittadinanza, di consumo, di convivenza?
E se la ricerca accademica, per affermare una sempre più qualificata cultura dell’economia, passasse anche per un ripensamento delle categorie più consolidate di senso comune, a partire dal dibattito sulla razionalità limitata già tematizzata dal premio Nobel Herbert Simon20, nel 1978, proprio all’indomani di quella che nel 1973 sembrava essere la più grave delle crisi del Dopoguerra?
Possiamo ammettere che le certezze, quelle rassicuranti, contenitive anch’esse d’ansia, che la tradizione del pensiero positivistico ci ha consegnato in coincidenza dell’affermarsi del Capitalismo Industriale, possano essere rilette in nome di un recupero degli archetipi, potenti, espressivi, adeguati a ripensare i modi, mai scontati di condividere spazi e tempi comuni?
Insomma, «L’amore per principio, l’ordine per fondamento, il progresso per fine» caro al Sistema di politica positiva di Auguste Comte, che sembrerebbe aver orientato e accompagnato la formazione del mondo moderno, come si raccorda all’evoluzione (in chiave geopolitica) cui stiamo assistendo in questi anni di migrazioni e di continui spostamenti dei confini, con una graduale perdita di ricchezza e di senso del “ceto medio” (che aveva decretato l’ascesa dell’Europa moderna) in questa circoscritta area del mondo che abitiamo?
Queste, con molte altre domande, sono alla base di una trama di attività di ricerca ampiamente distribuita in contesti internazionali e nazionali, allo scopo di leggere e scrivere le regole di un capitalismo in movimento. Allo scopo di delineare alcune risposte, nelle seguenti pagine focalizzeremo l’attenzione solo su due movimenti di pensiero (tra i tanti che sarebbe possibile chiamare all’appello) declinati attraverso gli occhi dello studioso di management:
• il concetto di gestione strategica, in relazione al valore strategico delle arti (par. 3.1.);
• il ruolo dell’impresa contemporanea nei processi di creazione di valore attraverso la lezione impartita dalle arti, nel contenere l’ansia (par. 3.2.).



3.1. Gestione strategica e valore strategico delle arti

Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che definiremo senso della possibilità [...]. Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, rispetto a quello che non è21.
L’assenza di qualità à la Musil, getta luce su un’idea di strategie per le imprese (e di gestione strategica) che si afferma in corrispondenza del declino del concetto di decisione razionale in nome della “produzione di nuove possibilità d’azione”, non necessariamente improntate al calcolo a priori. Quest’ultimo appartiene per definizione al senso della realtà, mentre la gestione strategica afferisce al senso della possibilità (“quello che è [...] quello che non è”).
Su questo terreno si staglia un primo ripensamento per una più qualificata cultura dell’economia, a partire dal dibattito in senso alla letteratura di economia della cultura. È nel DNA, a vocazione empirica, degli studi di matrice aziendale22, intenti a esplorare i processi nella loro dimensione operativa, fattuale e mai fino in fondo standardizzabile, così come si manifestano nell’imprevedibile varietà dei comportamenti umani. In contesti macroeconomici caratterizzati dalla discontinuità asintotica tra tempi di crisi e di espansione, il problema da mettere sotto osservazione non è tanto “cosa” decidere (una decisione può valere un’altra, a seconda del contesto, del tempo e di altre n variabili), quanto piuttosto “come” si formano le decisioni (i limiti di un approccio one best way sono oramai consolidati), soprattutto dando spazio a chi le deve prendere e applicare, con tutta la variabilità associata a “chi è dietro quel chi”: donne e uomini, manager e professionisti d’impresa che attivano concretamente i processi di implementazione. Seguendo questa linea di ragionamento, la dialettica tra pensiero e azione, centrale in tutta la storia del pensiero, troverebbe una tematizzazione sul terreno delle teorie (e delle pratiche) dell’impresa e dell’organizzazione. Riproponendo così un problema tanto antico quanto irrisolto, sia per le scienze dure, che su questi temi ancora sono all’inizio; sia per le scienze umane e sociali entro cui si colloca il management.
La nostra prospettiva è circoscritta, in tal senso, attraverso la declinazione del concetto di “gestione strategica”23:

gli strateghi efficaci non sono persone che si astraggono dai dettagli della quotidianità, ma all’opposto, al contrario, sono coloro i quali si immergono in essi, essendo nel contempo in grado di estrarne il messaggio strategico [...] Citando un sobrio responsabile della pianificazione, l’idea che una strategia efficace possa essere costruita da qualcuno in una torre d’avorio è totalmente fallimentare.


I manager decidono e agiscono la struttura di un’organizzazione a tutti i livelli, perché pianificare e implementare sono esperienze prive di soluzione di continuità.
È quel che riscontriamo nel lavoro empirico condotto a stretto gomito con chi l’arte la produce, la legge e la scrive.
Chi maneggia arte e cultura, come oggetto empiricamente significativo prima ancora che per speculazione teorica, agisce spontaneamente, intuitivamente, nella prassi del quotidiano, ciò che i manager e gli studiosi di management seguono per via razionale24. Per un musicista, per esempio, è dato per scontato che per suonare insieme e raggiungere un obiettivo organizzativo (la messa in piedi di un brano) ci si debba ascoltare reciprocamente. Per la gente di management, non è così scontato. Al punto che di questo se ne parla, se ne discute, si elaborano teorie, si organizzano percorsi di formazione. Si sente l’esigenza, insomma, di dovere precisare l’importanza (nell’esempio) dell’ascolto. Nella letteratura di management, specie quella più attenta alle dinamiche delle Risorse Umane e del Comportamento Organizzativo, ci si sbraccia e ci si spertica per comprendere quei segreti della divisione del lavoro e del coordinamento fondati proprio sulla capacità di ascoltarsi, di vedersi, di guardarsi, di cercarsi. Dalla migliore letteratura basata su solide fondamenta teoriche, agli approcci divulgativi, ai testi persino banali e di immediata fruizione anche per i non addetti ai lavori, ci si accorge che la fisicità, le emozioni che il corpo e i sensi veicolano possono essere fonti di vantaggio competitivo.
Ciò testimonia quel che accade lungo il ponte che unisce l’economia della cultura con la cultura dell’economia: alcuni saperi millenari, target principale di chi si occupa di cultura e arte, sono alla base di quelle esperienze (per nulla millenarie, molto più recenti) che chiamiamo “aziende”.
Muovendo lo sguardo da chi “si occupa” di cultura e di arte a chi (il musicista, il pittore, lo scultore, l’attore, il cantante, etc.) produce personalmente queste manifestazioni dell’azione umana, si staglia il potere degli artisti che da sempre praticano quotidianamente, per proprio statuto, spontaneamente, azioni e comportamenti che chi è destinato all’azione manageriale deve imparare, far proprie, interiorizzare per via cognitiva, attraverso processi di apprendimento formale: azioni che passano per un uso (più o meno consapevole) della fisicità, dando spazio alla percezione e all’intuizione, di grande esempio per pensare e ripensare le teorie e le pratiche manageriali e organizzative. Insomma, spostando l’attenzione dall’esempio relativo all’ascolto alle possibili declinazioni di esso in altre aree, ci si accorge che anche le arti visive, ma anche poesia, letteratura, la scultura, la recitazione etc., impegnano, inevitabilmente, l’uso degli occhi o del tatto, del respiro, dell’olfatto, il contatto con il colori, con lo spazio, etc.: dimensioni (queste, sì) strategiche nel campo dell’organizzazione e del management25. È da qui che sorge una delle lezioni che derivano dalla ricerca condotta nell’ambito degli studi di economia della cultura, che si prestano, sempre più, a testimoniare la propria “utilità” nell’essere risorsa e sempre meno sparring partner per gli studi di impatto ambientale, propri della tradizione dell’economia industriale.
In un recente lavoro26 si è evidenziato come fare gestione strategica, significhi anche respingere quelle posizioni, diffuse più a livello accademico che nelle pratiche aziendali, per cui la strategia sarebbe qualcosa che sta al di fuori e al di sopra della gestione, come attività esclusiva di pochi (il vertice) ai quali spetterebbe il compito di definire le linee di fondo e il piano strategico, lasciando ai livelli inferiori, la gestione e l’attuazione del disegno. È questo, d’altra parte, un messaggio già respinto nel dibattito intorno alla tradizionale lezione di Chandler27 il cui riferimento empirico era la grande impresa integrata del Secondo Dopoguerra, orientata a uno sviluppo dimensionale deterministico, fino alla perdita del controllo proprietario e la progressiva managerializzazione.
Naturalmente, nella realtà economica del 2016 sono prevalenti le imprese, specie di piccole e medie dimensioni, dove vige una sorta di polarizzazione tra un vertice depositario della riflessione strategica e delle decisioni di fondo, da un lato e una base di “operativi” che eseguono, dall’altro. Ma l’evidenza empirica dimostra ampiamente che il coinvolgimento ai diversi livelli e nelle varie aree funzionali, è un requisito essenziale per assicurare il successo, rendendo del tutto inadeguata quella ulteriore distinzione tra gestione operativa orientata a un orizzonte di breve e strategia, erroneamente considerata in funzione di un orizzonte di lungo periodo.
La dimensione “processuale” della strategia dà spazio, invece, ai modi (“come si fa”, che indica la tecnica, da techně, che nel mondo antico è arte28) con cui i manager interpretano il mondo che li circonda e attivano la comunità di persone con cui agiscono. La nozione di gestione strategica, dunque, come esercizio di “traduzione e interpretazione” che il management è chiamato ad operare29.
La non separabilità del piano (pensiero formale) dalle decisioni (azione) è di fatto solo la punta dell’iceberg di un più articolato percorso che trova spazio su prestigiose riviste internazionali dalla metà degli anni Settanta, con una attenzione sempre più sofisticata, nella messa a fuoco dei meccanismi che orientano i processi di decision making. Il riferimento è, ancora, Mintzberg30: allora giovane e dirompente, rispetto alla tradizione centrata sulla pianificazione formale di matrice harvardiana, laddove assegnava un ruolo dialettico (e non automaticamente gerarchico) agli emisferi del sistema nervoso centrale, destro e sinistro, per la corretta costruzione dei processi decisionali. Questo approccio va liberamente associato a un contestuale movimento che ha interessato gli studi economici, con l’assegnazione, nel 1978, del premio Nobel per l’Economia a Herbert Simon «per le sue pioneristiche ricerche sul processo decisionale nelle organizzazioni economiche». Un contributo che, irrompendo nella tradizione del pensiero economico neoclassico, introduce il concetto di “razionalità limitata” (bounded rationality), centrale per lo sviluppo del pensiero e dell’azione manageriale guidata da limiti cognitivi e da un ammontare finito di risorse in presenza di costi associati a contratti incompleti31. È in questa direzione che il contributo del ricercatore-artista si staglia con piena cittadinanza: porre l’attenzione su “come” una questione (nell’ibridazione tra cultura e natura, il colore, per esempio, che si fa pittura) produca significative implicazioni al di fuori della propria sfera di partenza, in differenti campi dell’agire, assegna a chi pratica l’arte e la cultura dall’interno, maneggiandone le specifiche strutture sintattiche, il ruolo di portatore d’acqua alla casa comune. L’artista assume, insomma, una responsabilità: genera salti paradigmatici32 che, attraverso la tecnologia, sanno tradursi in produttività, fino ad assurgere a senso comune. Proprio come avviene per un qualunque altro ricercatore, che “opera” alla radice della propria filiera di creazione del valore: per esempio in Fisica, in Economia, in Filosofia, in Genetica, etc.



3.2. Le organizzazioni (artistiche e non) come contenitori d’ansia

La crisi della razionalità assoluta, che si afferma da un lato nelle teorie e nelle pratiche manageriali e organizzative, dall’altro attraverso la lezione che deriva agli studi di management dai millenari linguaggi delle arti e della cultura, consente di spostare anche l’angolo visuale rispetto al ruolo svolto dalle organizzazioni aziendali nei contesti che operano negli odierni sistemi competitivi.
Senza dubbio, il ruolo principale dell’azienda, nella regolazione dei “modi di stare insieme”, mai univoci e dati per scontati, ha a che fare con i processi di creazione e di distruzione del valore economico e finanziario. In un saggio del 198533, negli anni, cioè, in cui si dibatteva dell’identità della ricerca economico-aziendale e delle pratiche manageriali annesse, Sergio Vaccà raccomandava, per una comprensione profonda dei meccanismi di funzionamento dell’economia post fordista e, specularmente, per definire con rigore teorico le rappresentazioni e le formulazioni nella teoria d’impresa, di riconoscere il ruolo “centrale” dell’impresa industriale, dove “centrale” sta a indicare anche la sua posizione intermedia (di regolazione, appunto) tra le dinamiche macroeconomiche (tagliate sempre di più sul sistema di relazioni internazionali con il territorio) e le dinamiche di comportamento micro, che interessano quindi i singoli, siano essi imprenditori o manager, i consumatori, i cittadini etc.: si tratta di “una frontiera non eludibile"
perché l’impresa genera il cambiamento che si osserva a livello di macrosistema; e simmetricamente, il cambiamento del macrosistema non è osservabile in modo teoreticamente satisfattivo nella realtà delle singole imprese. La dinamica evolutiva e innovativa della realtà industriale connette infatti continuamente micro e macro, in una dialettica interattiva che non rende ormai comprensibile l’uno senza l’altro (p. 13).
Vi è però un altro ruolo, non meno significativo e sempre più evidente in questi anni di (interminabile) crisi che risulta ancor più esplicito, a partire dalle considerazioni sulla razionalità, da un lato e sul contributo fecondante dell’economia della cultura, dall’altro. È il ruolo che le organizzazioni hanno come regolatori dell’ansia.
L’“ansia” è una categoria propria della letteratura di psicologia. Tuttavia, già da alcuni anni, sta crescendo la circolazione delle idee tra ambiti disciplinari e, in particolare, tra Psicologia e Studi Organizzativi. Si pensi al Tavistock Institute di Londra34, che raccoglie la sfida di fare incontrare questi due ambiti di sapere, offrendo un metodo di analisi delle istituzioni, a scopi di ricerca-azione o di diagnosi organizzativa. Non solo, ma oggi Tavistock offre strumenti per il decision making, anche attraverso metodologie di consulenza, fertilizzando l’incontro tra storie di ricerca e accademiche di eterogenea scaturigine. Forti di tali presupposti, al tempo stesso teorici e professionali, possiamo affermare il ruolo delle organizzazioni come contenitori d’ansia.
Le organizzazioni artistiche (musei, scavi archeologici, teatri, orchestre, etc.) e l’azione di creazione di valore che esse producono, contengono una importante lezione per le organizzazioni tout court: esse hanno il compito (esplicito e visibile) di fornire istruzione, educazione, conoscenze e competenza35. Ma, ad un livello invisibile, si tratta di organizzazioni destinate a gestire l’ansia rispetto a tutto ciò che non è misurabile, palpabile, finalistico o finalizzato, utile, legittimabile (come argomentato nelle precedenti pagine) e che invece sopravvive a ciascuno, a dispetto di qualunque costrutto sociale.
Vi è anche un’altra dimensione esplicativa di come le organizzazioni artistiche possano essere prese ad exemplum di contenitori dell’ansia, a partire dalla liminalità assegnata alle arti dall’economia di mercato. Un “caso di studio” può chiarire in tal senso: oggi manca in Italia una rete di orchestre stabili, per definizione luoghi di lavoro per generazioni di professionisti. L’unica Orchestra Sinfonica Nazionale, con sede a Torino, nacque nel 1994 dall’avvio (con mobilità orizzontale) dello scioglimento, nel 1992, delle orchestre dell’ente radiofonico di Napoli36, Roma, Milano e Torino. Se l’impatto economico di quella decisione è in linea con le logiche di investimento pubblico in arti e cultura fondate sul concetto di “legittimazione” (di cui sopra, al paragrafo 2.2), è anche vero che quel vuoto lasciato, specie nel Mezzogiorno, espose ed espone intere popolazioni professionali alle ansie derivanti dalle scarsissime opportunità di impiego, a fronte di lunghi percorsi di studio e formazione (e di aspettative) incardinati nelle istituzionali scolastiche e universitarie del Paese37. Questa esperienza, simile ad altre in contesti analoghi, rafforza (al di là del dato politico) un insegnamento, teoreticamente rilevante, a più ampio spettro: le organizzazioni artistiche, attraverso la liminalità assegnata loro dal modo di procedere dell’economia della cultura orientata agli impact studies, rendono evidente, ingrandiscono, come avviene quando si mette qualcosa di molto piccolo sotto la lente di un microscopio, il concetto di “contenitore di ansie”, in realtà riscontrabile, per altri versi, con riferimento alle organizzazioni più studiate nella letteratura economico manageriale38. Quel che avviene là, in contesti liminali, lo si riscontra anche, seppure con accenti meno appariscenti, in quei luoghi, centrali nei processi di creazione di valore, che chiamiamo imprese.
Introducendo così alcuni distinguo, emerge anche agli occhi di chi non si occupa di arte e di cultura come molte ansie siano legate a situazioni di realtà; mentre altre riflettono angosce e fantasie più profonde e irrazionali. Fino ad assomigliare a quelle che popolano il mondo infantile, come la mortificazione, il narcisismo, le rivalità e le aggressioni invidiose, la fusione e lo smarrimento dell’identità all’interno del gruppo.
Se utilizziamo questa duplice prospettiva (coerente con quella su menzionata di critical management), l’impresa nell’economia di questi anni può imparare dalle organizzazioni artistiche ad adoperare una lente che offre prospettive alternative rispetto a quelle tradizionali. Facendo nostre alcune idee che derivano dalla letteratura di matrice psicoanalitica, categorizziamo quindi tre tipi di ansie:
• ansia primitiva, onnipresente, onnicomprensiva, che appartiene al destino dei singoli e dell’umanità39;
• ansia che deriva dalla natura, dalle caratteristiche delle organizzazioni e dai mercati del lavoro. Essa, entrando in risonanza con quella primitiva, innesca aspetti di ansia individuale. Quest’ultima, dunque, va letta dunque in relazione con le prime due, allo scopo di comprendere correttamente il cambiamento, con le associate potenzialità e resistenze.

Queste tre tipologie di ansia operano a differenti livelli nei processi di apprendimento di chi debba affrontare le situazioni di cambiamento. Mentre, a bilanciamento, le organizzazioni abitate durante la maggior parte del tempo della vita adulta aiutano proprio a gestire quelle ansie e il timore dell’ignoto: è la loro funzione “invisibile”40, poiché quel che accade nei processi di divisione del lavoro e di coordinamento è influenzato da molte funzioni associativo-difensive, per tollerare l’ansia primitiva41.
Se considerate come sistemi specializzati nella gestione dell’ansia, le organizzazioni assurgono allora a “contenitori”, sia nell’accezione di spazio che contiene qualcosa (le ansie), sia nella “funzione di contenimento”, di marca propriamente infantile. È questo il duplice significato derivato dal modello di W.R. Bion (allievo di Freud e tra i padri del Tavistock) “contenitore/contenuto”, per evidenziare una funzione (anche in senso matematico di relazione fra due entità), fondamentale per il procedere mentale e per comprendere lo sviluppo della personalità42. Le moderne organizzazioni aziendali svolgono anche questo ruolo: danno lavoro, conferiscono identità, scandiscono i tempi del sonno e della veglia, della produttività e degli affetti, stabiliscono il grado di aggressività socialmente necessario e la quota sanzionabile. Sono metronomo. Segnano il principio di inizio e fine. È questo, in ultima analisi, un ruolo assai significativo che, in un’ottica di umanesimo del management, si può attribuire a quel recente modo di organizzare le attività umane, che chiamiamo capitalismo industriale.



4. E per questo preferisci il dispari

«E per questo preferisci il dispari». È il secondo verso dell’Artepoetica di Paul Verlaine43. Manifesto di quella tendenza alla valorizzazione del simbolismo, che nasce da una crisi della ragione e da una profonda sfiducia nella possibilità di descrivere razionalmente la vita, e l’uomo, e – oggi – quei luoghi che chiamiamo “aziende” dove sorge, si sviluppa e prolifica la maggior parte dell’azione, della cultura, talvolta il pensiero, proprî dell’odierna contemporaneità.
È l’invito a cercare sempre – oltre la razionalità formale – la dissonanza. L’invito a non apparare, apparecchiare, preparare, ad pàrare, ma anche accoppiare, quindi nel significato puro di questo verbo, denso di altri significati, nella tradizione del dialetto napoletano. Perché è nel dispari che risiede la necessaria inquietudine che orienta la contemporaneità, in ogni tempo e in ogni luogo, fonte fisiologica di ricerca e condizione per generare innovazione.
«La musica prima di tutto». È il primo verso di Verlaine, ispirato all’Ars Poetica di Orazio, dove si afferma l’importanza della “lima”: la “limatura” che spetta a ciascuno dopo aver abbozzato la propria opera. E laborlimae è la più ampia immagine che il mondo antico ci consegna per la costruzione di un ponte con il lavoro, categoria centrale nella cultura e nell’agire del capitalismo industriale. Un’immagine che proprio gli studiosi di management hanno il dovere di ripensare in questo momento storico, rintracciando in un eccesso di dogmatismo, probabilmente inevitabile se riletto in chiave storica, le ragioni (e le cause) del modo di “fare economia” che ha caratterizzato l’età moderna.
Seguendo questa traccia, nelle prossime pagine si descriveranno alcune esperienze di ricerca empirica, fondate sul costrutto concettuale presentato in questo scritto.



4.1. Alcune esperienze di ricerca empirica

Il costrutto concettuale proposto nelle precedenti pagine, per cui l’economia della cultura è fonte di conoscenza per una qualificata cultura dell’economia, è comune denominatore di una serie di esperienze di ricerca empirica, svolte negli ultimi sei anni in seno a un programma di ricerca interdisciplinare che si identifica nell’etichetta puntOorg (www.puntOorg.net)44, richiamate nelle prossime pagine.
Punto di partenza è il lemma org, idoneo a recuperare le origini più profonde delle pratiche di pensiero e di lavoro, con l’obiettivo, da un lato di interpretare il presente e comprendere le più recenti tendenze marcate da una crisi di quelle certezze formalizzate dalla modellistica propria della prima e della seconda rivoluzione industriale; dall’altro di tradurre (e, in certa misura, tradire) i significati più autentici dell’“economia”, che nel mondo antico, era oikos (οἶκος,), quindi “casa”, ovvero “beni di famiglia” e nomos (νόμος), norma, legge.
Sono almeno tre le questioni sollevate che si intrecciano sistematicamente nelle diverse ricerche svolte sul campo:
• il rapporto tra mezzi e fini, che si porta dietro una riflessione sulla tecnica e sulla tecnologia;
l’importanza di conoscere e valorizzare l’imperfezione;
• il costante contatto con il dibattito sull’economia della cultura e dell’arte.



4.1.1. Il rapporto tra mezzi e fini: tecnica e tecnologia

La dialettica tra mezzi pone innanzitutto una questione metodologica (e ancor prima epistemologica), a partire dalla mai risolta questione del rapporto tra soggetto osservante e oggetto osservato: attraverso quali sentieri il “punto di osservazione” del ricercatore, il suo sguardo sul mondo e relativo entroterra teorico raggiunge un oggetto d’indagine, per definizione un po’ costrutto di cultura, un po’ dato di natura?
La ricerca in ambito artistico-musicale, affiancata a quella della simulazione computerizzata nelle scienze sociali45, per esempio, sembra risultare quanto mai fertile per cercare risposte, utili e al tempo stesso urgenti, per gli studiosi di scienze umane, economiche e sociali, nell’ottica di un ripensamento anche in chiave biopolitica46: muoversi da un dato punto predefinito (qualunque esso sia, nell’ambito delle arti) e collocarsi in ideali regioni di confine, dove si incontrano e si intersecano saperi musicali, sociali, semiotici, filosofici, sembra essere una via in grado di mettere in gioco antiche e sempre funzionanti forme di conoscenza. In questi termini, il dibattito sulla tecnologia che sta animando in anni più recenti il mondo accademico, quello imprenditoriale e manageriale dovrebbe fare riferimento a quella scaturigine in seno al mondo antico, allo scopo di dare senso al mestiere dell’economista: colui che si occupa di oikos e di nomos, sui modi mai scontati e dati per definitivi ex ante, di stare insieme, di “organizzare”: appunto da erga, dal fonema arg/erg/org.
Entro tale spettro semantico, la questione della dialettica che, da sempre, lega mezzi e fini assume una posizione di primo piano, evidenziando come i primi siano mai neutrali rispetto ai secondi. Al punto da influenzare i processi di creazione di valore e di produttività industriale, ma anche di rappresentazione sociale e narrazione, a partire dal gesto della scrittura nella retorica della formulazione dei risultati di ricerca47.



4.1.2. Imperfezione, margini e confini

Un altro tema, diretto precipitato delle riflessione condotta nelle precedenti pagine intorno alla rivisitazione nel tempo del concetto di razionalità, è sviluppato empiricamente nel programma di ricerca citato attraverso un’idea di imperfezione associata alla ex-marginalizzazione48 e, in ultima analisi, al concetto di “inclusione”.
Punto di partenza del lavoro empirico è, ancora una volta, a cavallo tra i grandi quesiti sollevati da questioni di natura e le possibili risposte inseguite attraverso i costrutti di cultura propri delle scienze sociali:
«È possibile costruire un quadrato che abbia la stessa area di un cerchio utilizzando solo riga e compasso?»49.
L’impossibilità scientifica di ottenere la quadratura del cerchio si ha solo di recente, in epoca moderna, nel 188250: riconoscere l’esistenza del numero trascendente, un numero irrazionale, che non può essere scritto come una frazione, è punto di arrivo di una intuizione (la trascendenza di π) sull’ineludibilità dell’imperfezione. Una acquisizione già presente nel mondo antico, acquisita quindi in via prescientifica.
Lo scenario dell’imperfezione è quello proposto più sopra, relativo alla crisi che l’intero Occidente sta attraversando ormai da anni e con i menzionati intervalli asintotici. Crisi (κρίσις) dal greco (κρίνω) è separare. Quindi discernere, giudicare, valutare. Avere criterio (κριτήριον) è un modo di evocare il buon senso. Anche senso comune, quello che va in automatico, comunque precede, anche di poco, l’azione.
Lungi dall’idea del “mercato perfetto”, formalizzato all’interno diun paradigma le cui fondamenta erano da un lato l’“utilità marginale decrescente”, dall’altro la “funzione di produzione” tesa alla massimizzazione dei risultati, con rendimentidi scala crescenti quando la capacità produttiva è sottoutilizzata e decrescenti in prossimità di pieno regime; la ricerca empirica, condotta attraverso distinti percorsi di analisi intorno all’evoluzione del concetto di razionalità come su ripercorso, si è interessata a comprendere:
• come costruire un mondo abitabile, senza necessariamente contare sulle acquisizioni della prima stagione del capitalismo industriale51;
• come rompere l’egemonia di uno schema di potere aprioristicamente fondato sull’accentramento e sulla gerarchia a favore dell’affermarsi di una crescente fiducia nelle reti 52;
• come generare, nei ruoli apicali, una gestione sostenibile, distinguendo tra risorse (che in quanto tali impongono un ritorno sull’investimento) umane, dal riconoscimento delle “persone” in quanto tali, in natura e per cultura in posizione ortogonale tra le dimensioni del dono e del disinteresse53;
• come far leva sulla formazione, lungo l’intera filiera che va dalla formazione scolastica a quella professionale.

Quest’ultima questione, il tema della formazione (specie delle nuove generazioni), assume una valenza di primaria importanza, attraverso un ripensamento della soggettività che si manifesta nella “percezione del reale”54: la Fisica dello Spazio-Tempo, per come si è affermata nel Novecento, ha condotto ad approfondire le grandi trasformazioni intervenute in quel periodo storico in settori tra loro molto diversi. Quel che si è verificato nei trasporti, con il telefono, la radio, ma anche nella musica, nelle arti figurative, nella medicina, etc. conduce a proporre un’idea non ingenua di cambiamento, guidata sia da processi naturali, sia economici e organizzativi; un’idea di cambiamento che si traduce nell’esigenza di fare convivere pensiero critico55 e pensiero creativo56, che trovano la propria fonte di ispirazione, ancora una volta, in narrazioni millenarie, di cui studiosi di filosofia e artisti sono depositari57.



4.1.3. Il dibattito interno all’economia della cultura e dell’arte

Il terzo terreno toccato dal programma interdisciplinare di ricerca empirica è, come è naturale che sia alla luce di quanto fin qua discusso, tutto interno agli studi di economia della cultura e dell’arte.
La pratica del continuo confronto, scambio e contaminazione tra pratiche creative e organizzative conferisce crescente attenzione al contributo delle arti alle scienze sociali, tanto sul fronte della comprensione delle logiche che sottendono la funzione di domanda (quanto si sono modificati i consumi negli ultimi cinquanta anni?), che su quello dell’offerta. Fino a porre sotto osservazione le trasformazioni epocali nei modi di produrre e erogare arte, che interessano una fetta non marginale del PIL, specie in un Paese come l’Italia58. Allo scopo di sopperire alle critiche di anglocentrismo che emergono sempre più radicalmente rispetto a una impostazione acontestuale e astorica degli studi internazionali di management (con la conseguente esigenza di aprire alla varietà di processi economici e di gestione, che a livello di economia mondiale – e di approccio alla global history – si possono indagare), il lavoro di ricerca empirica evidenzia il vantaggio competitivo che deriva dalla ricchezza del patrimonio e delle tradizioni presenti nel nostro Paese59: ciascun contesto territoriale può essere riletto con angolazioni che contribuiscono a fare del cultural heritage una risorsa strategica, necessaria a costruire identità imprenditoriali distintive in un panorama ampio e variegato di casi ed esperienze che trattano le potenzialità della cultura per il rafforzamento del vantaggio competitivo del made in Italy e delle strategie di comunicazione e branding delle imprese.
Questo percorso “sul campo” conferma anche come lo studio di arti e culture sia in grado di rafforzare la tendenza a produrre problemi metodologici di portata non indifferente: per esempio in termini di dialogo interdisciplinare considerato lungo i confini delle terre di mezzo60. Lungo, cioè, un’attitudine a viaggiare all’interno delle organizzazioni aziendali contemporanee, che approdano all’arte e assumono l’arte stessa come impresa: nei percorsi della creatività si rintracciano così le fonti di sviluppo e per un’economia sostenibile, a supporto dei manager orientati all’innovazione, con un approccio che fa da naturale contraltare al pensiero mainstream e alla razionalità ad esso sottesa, che prevedeva invece la menzionata gerarchia tra pensiero e azione, tra razionalità ed emotività.



5. Conclusioni

In questo lavoro si è proposto un ponte tra la tradizione degli studi di economia della cultura (con punto di partenza nel dibattito sull’economia delle performing art) e la costruzione di un modo di procedere nei processi di costruzione delle teorie e delle pratiche in economia e management, adottando come vertice lo sguardo proprio degli studi di organizzazione aziendale.
Si è così illustrato come, attraversata la fase dei contributi pionieristici che hanno visto protagonisti gli economisti pubblici, si è poi passati a superare la logica degli studi di impatto ambientale focalizzati sul concetto di legittimazione del finanziamento pubblico alla cultura e all’arte. Per accedere, quindi, a un modo di intendere l’art management attraverso esperienze di diretta interazione tra studiosi di scienze umane e sociali e artisti. Questi ultimi, con i propri linguaggi, la propria grammatica e la propria sintassi, portatori di tradizioni di pensiero e di azione di radice millenaria, hanno testimoniato e testimoniano come sia possibile considerare arte e cultura come fonte di conoscenza manageriale. Contribuendo così, in ultima analisi, a una migliore e più qualificata cultura dell’economia. L’asse di questo spostamento dall’economia della cultura a una più efficace cultura dell’economia è dato da un ripensamento della razionalità che sottende i processi di decisionmaking. Punto centrale, non solo per il dibattito interno alle teorie dell’impresa, ma anche al cospetto di un’evoluzione degli scenari macroeconomici e di modelli di creazione del valore aziendale che in tempi di crisi (come quella che stiamo vivendo negli anni in corso) sembrerebbero smentire approcci dogmatici e formali che avevano avuto invece il momento di massimo splendore in precedenti fasi caratterizzate da maggiore regolarità del ciclo economico e dalla possibilità di fare della previsione uno strumento di crescita e di benessere.
Si è anche detto come le argomentazioni proposte abbiano trovato più recentemente riscontro in un set di ricerche empiriche che si identificano nel progetto puntOorg: una rete di senso internazionale, con solide radici nel Mezzogiorno, con la partecipazione di una media impresa dell’editoria scientifica.
Si sono così passati in rassegna i principali risultati emersi dalle ricerche condotte, tenendo un atteggiamento palindromo, teso a fare convivere la profondità dell’impegno intra disciplinare e inter disciplinare, coerenti con l’evoluzione delle conoscenze in ambito accademico, al cospetto di quei fallimenti associabili ai limiti della razionalità stessa che sembrerebbero non consentire alle scienze umane e sociali di conquistare, da sole, fino in fondo, risultati esaustivi e capacità interpretative di un mondo in evoluzione.


























NOTE
1 Se la riduzione del tasso d’interesse potesse dimostrarsi di per sé sola un rimedio efficace, sarebbe forse possibile ottenere una ripresa senza il decorso di un intervallo considerevole di tempo e con mezzi sotto il controllo più o meno diretto dell’autorità monetaria. Ma di solito ciò di fatto non si verifica, e non è tanto facile resuscitare l’efficienza marginale del capitale, determinata com’è dalla incontrollabile e disubbidiente psicologia del mondo degli affari. Per esprimerci col linguaggio ordinario, è il ritorno della fiducia che è così poco suscettibile di controllo in un’economia capitalistica individualista» (J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, Utet, 2005, p. 509).^
2 L.M. Sicca, in www.puntOorg.net^
3 W.J. Baumol, W.G. Bowen, On the Performing Arts: The Anatomy of their Economic Problems, in «American Economic Review. Papers and Proceedings», 55 (1965); W.J. Baumol, W.G. Bowen, Performing Arts: The Economic Dilemma, New York, The M.I.T. Press, 1966; A.T. Peacock, Welfare Economics and Public Subsidies to the Arts, Manchester School of Economics and Social Studies, 1969.^
4 K.V. Mulcahy, The Rationale for Public Culture, in K.V. Mulcahy, C.R. Swaim, Public Policy and the Arts, Boulder, Colo., Westview Press, 1982; D. Netzer, The Subsidised Muse. Public Support for the Arts in the United States, Cambridge, Cambridge University Press, 1978; J.H. Gapinski, The Production of Culture, in «Review of Economics and Statistics», 62 (1980), A.T. Peacock, E. Shoesmith, G. Millner, Inflation and the Performed Arts, London, Arts Council of Great Britain, 1982; V.L. Owen, Technological Change, and Opera Quality, in W.S. Hendon, J.L. Shananan, Economics of Cultural Decision, Cambridge, Mass., Abt Books, 1983.^
5 H.R. Maturana, Biology if language: the epistemology of reality, in G.A Miller-E. Lennberg, Psychology and biology of language and thought, New York, Academic Press, 1978; J. Piaget, La construction, du réel chez l’enfant, Paris-Neuchatel, Delachaux et Niestlé, 1934; P. Watzlawick, Die Erfundene Wirklichkeit, Munchen, Piper & Co. Verlag, 1981; P. Watzlawick, J.H. Weakland, R. Fish, Change: principles of problem formation and problem solution, New York, W.W. Norton and Co., 1974.^
6 Assumiamo cioè una prospettiva che, partendo dal rifiuto del concetto di “verità” nelle scienze, considera rilevante la “molteplicità dei punti di vista” (S. Vicari, L’impresa vivente, Milano, Etas libri, 1991): ciascuno studioso contribuisce alla spiegazione della complessa fenomenologia che interessa la realtà delle arti, con gli strumenti della critica d’arte, dell’estetica, della musicologia, dell’epistemologia; così come dell’economia, della politica, della storia, della sociologia, o del management (G. Galasso, Definire i beni culturali. Spunti e appunti, in G. Galasso, Beni e mali culturali, Napoli, Editoriale Scientifica, 1996).^
7 M. Rispoli, Per un approccio storico allo studio dell’impresa, in «Economia e Politica Industriale», 46 (1985).^
8 Consideriamo qua, nell’ambito dell’ampio dibattito interno alla Stakeholertheory, la definizione di Stakeholder come tutti quei soggetti che interagiscono nei processi di creazione di valore che abbiano una duplice caratteristica: siano da un lato portatori di interesse rispetto all’azione organizzativa; siano anche dotati, dall’altro, di una qualche forma di potere per fare valere i propri interessi. Interesse senza potere, e viceversa, non consente di concettualizzare il ruolo degli stakeholder e comprenderne la loro portata nei processi di creazione di valore, E. Rullani, La teoria dell’impresa: soggetti, sistemi, evoluzione in M. Rispoli, (a cura di), L’impresa industriale, il Mulino, Bologna, 1989.^
9 Si veda l’archivio di Storia del Pensiero economico, http://socserv2.socsci.mcmaster.ca/~econ/ugcm/3ll3/ ^
10 «Il termine complessità è oggi impiegato in modo così diffuso che rischia di essere allusivo invece che significativo [...]. Per complessità [...] deve intendersi il grado di varianza esprimibile da un fenomeno, ossia il numero dei casi possibili che si presentano distinti nel senso di qualitativamente differenti l’uno dall’altro per aspetti significativi. [...] La varianza di un fenomeno ha una dimensione sincronica (varietà) e una dimensione diacronica (variabilità), che sono comprese insieme nel concetto di complessità. La varietà si riferisce alla differenziazione (effettiva o potenziale) dei casi possibili che possono presentarsi in uno stesso momento; la variabilità si riferisce invece alla possibilità che un fenomeno presenti varianti successive nel tempo» in E. Rullani, op. cit, 1989, p. 16.^
11 Si rinvia al dibattito intorno al tema (e alla categoria) dei distretti culturali, a partire dal concetto di distretto industriale, W. Santagata, Cultural Districts, in V. Ginsbourg, D. Throsby (Eds.) Handbook on the Economics of Art and Culture, (Series “Handbooks in Economics” - General Editors, K. Arrow, M.D. Intriligator), ElsevierScience, North Holland, Amsterdam, 2004; A.J. Scott, The Cultural Economic of Cities. Essay on the Geography of Image Producing Industries, London, Sage Publication, 2000.^
12 A. Grandori, Teorie dell’organizzazione, Milano, Giuffrè, 1984; G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, Milano, Franco Angeli, 2008.^
13 G. Hamel, Managing out of bounds, in Handbook of Management, London, Pitnam Publishing, 1995.^
14 R. Bereson, Democraticy and the State Opera House: Conflicts and Confusions, in «Acts of Third International Conference on Arts Management», London, City University, Department of Arts Policy and Management, July 3-5, 1996.^
15 Il termine Humanities deriva dal latino studia humanitatis, o studio della humanitas, con riferimento a oltre a l’umanità, ovvero cultura, raffinatezza, educazione. Nel suo uso, nei primi anni del XV secolo, studia humanitatis prevedeva la grammatica, la poesia, la retorica, la storia e la filosofia morale, a partire dai classici latini e greci. La parola humanitas ha anche dato origine al neologismo “umanista” nel Rinascimento italiano. Oggi, negli ambienti accademici, si intendono Humanities: lo studio dei classici, la Storia, la Geografia, le Lingue, il Diritto e la Politica, la Letteratura, le Performing art e la Musica, il Teatro, la Danza, la Filosofia e la Religione, le Arti Visive e lo studio dei media. Aperto è, invece, il dibattito sul posizionamento dell’Economia, in ragione degli assunti epistemologici che sottendono i processi di costruzione delle teorie: per le ragioni ampiamente argomentate in questo scritto, si afferma qua, con convinzione, l’appartenenza di questa disciplina all’ampia famiglia delle humanities.^
16 T.B. Hansen, Mesuring the Value of Culture, in «The European Journal of Cultural Policy», 1/2 (1995).^
17 F. Van Puffelen, Cultural Accounting and cultural performance. What Can Economists Say About the Amount of Subsidaries Needed, in C.R. Waits, W.S. Hendon, J.M.D. Shuster, Cultural economis 88. A Europeanperspective, Akron, 3 (1989).^
18 S. Settis, Italia S.p.A., Milano, Einaudi, 2007.^
19 Data spartiacque, in cui Lehman BrothersHoldings, in piedi dal 1850, con quartier generale a New York, dichiara di volersi avvalere del Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense, ovvero di una procedura che si attua in caso di bancarotta, annunciando debiti bancari per 613 miliardi di Dollari, debiti obbligazionari per 155 miliardi e attività per un valore di 639 miliardi. Nulla, dopo di allora, sembra essere stato più come prima. Molto, dopo quel crollo, è ancora da scrivere, allo scopo di ridefinire le logiche di una convivenza, in grado di ragionare, riflettere e ripensare i criteri che orientano la gestione e il consumo delle risorse e delle relazioni interpersonali.^
20 H.A. Simon, Administrative Behavior: a Study of Decision-Making Processes in Administrative Organization, New York, Macmillan, 1947.^
21 R. Musil, Der Mann ohneEigenschaften, Berlin, Rowohlt Verlag, 1930-1933.^
22 L. Sicca, L.M. Sicca, Tensioni manageriali e formazione delle decisioni: sperimentazioni italiane e tradizione internazionale in L. Guatri (a cura di), Economia aziendale: com’era e com’è, Milano, Egea, 2015.^
23 H. Mintzberg, Ascesa e declino della pianificazione strategica, Torino, Isedi, 1996 p. 192. [Ed. or., The Rise and Fall of Strategic Planning, Hemel Hempstead, Prentice Hall, 1994].^
24 L.M. Sicca, Management dell’arte o arte del management? Il Caso Settimane Internazionali di Musica d’insieme in «Economia & Management», 2 (1999); Idem, OrganizingChamber Music as Culture, in «Aam/Tac, Arts and Artifacts in Movie: Technology, Aesthetics, Communication», 2 (2005).^
25 Si pensi, in questa direzione, alle condizioni entro cui competono le economie orientali, che fanno della propria idea (olistica) della persona, una condizione per generare innovazione e sviluppo, anche nei processi di internazionalizzazione, I. Nonaka, H. Takeuchi The Knowledge-Creating Company: How Japanese Companies Create the Dynamics of Innovation, Oxford, Oxford University Press.^
26 L. Sicca, (a cura di), Strategie di crescita e comportamento organizzativo, Padova, Cedam, 2013: in quella sede, la verifica empirica è stata condotta da un lato su due grandi imprese operanti in contesti tra loro molto diversi (grande distribuzione, Carrefour; trasporti a elevato contenuto di tecnologia, Ansaldo Sts); dall’altro su una serie di piccole e medie imprese, a loro volta eterogenee per esperienze imprenditoriali e core business.^
27 A.D. Chandler, Strategy and Structure: Chapters in the History of the American Industrial Enterprise, Cambridge, The Mit Press, 1962.^
28 Nel greco antico (e in quel potente bacino di senso della civiltà in cui quella lingua si esprimeva) la parola tekhnê (τεχνη), che comunemente viene tradotta con arte, indicava l’abilità manuale: gli scultori e pittori greci erano artigiani, imparavano vivendo la bottega, spesso con il proprio padre e potevano essere schiavi di uomini ricchi.^
29 Sul concetto di traduzione e di interpretazione, nella formazione delle decisioni dei manager e nella loro preparazione accademica e post, L.M. Sicca, O l’impresa, o la vita. Storieorganizzative. Ed Epiche, Milano, Egea, 2013.^
30 H. Mintzberg, Strategy Making in Three Modes, in «California Management Review», 16/2 (1973); H. Mintzberg, H., Planning on the Left Side and Managing on the Right, in «Harvard Business Review», 1 (1976).^
31 Si pensi, per esempio, agli anni Settanta e al ruolo dell’impresa pubblica in generale e l’impresa a Partecipazione Statale, in particolare, intesa come mano operativa dello Stato nel sistema economico. Senza ridimensionare il fondamentale ruolo assunto dalle piccole e medie imprese e dai piccoli e medi imprenditori, quella delle PP.SS. resta un’esperienza di grande rilevanza, nonostante le numerose e corrette critiche di ogni parte. Quel modello, teorizzato in modo tanto esemplare quanto contraddittorio da Pasquale Saraceno, infatti, ha contribuito allo sviluppo economico industriale e finanziario, portando il nostro Paese, in particolare il Mezzogiorno, a superare una dimensione a carattere fondamentalmente rurale, anche perché intercettava le esigenze di ricostruzione, dopo i danni arrecati dalla guerra, P. Saraceno, Il processo decisionale nel sistema delle imprese a Partecipazione Statale, in «Economia e Politica industriale», 9 (1975).^
32 Con tale termine – dice Kuhn – «voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca». Attraverso questo concetto, Kuhn esplicita un “sistema”, fatto di credenze e assunti, ma anche di modelli scientifici ovvero un apparato di principi di natura e concezioni di cultura universalmente riconosciuti, anche in termini processuali e metodologici, che si traducono in modi di comunicare e trasmettere teorie, a cui si ispira il lavoro della “comunità scientifica” di una data epoca. Un sistema, un apparato, cioè, non disgiunto da fattori extrascientifici, ovvero sociali e psicologici: non, dunque, un modello “puro”, astorico e astratto. T.S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, Chicago University Press, 1962.^
33 S. Vaccà, L’economia d’impresa alla ricerca di un’identità, in «Economia e Politica industriale», 45 (1985).^
34 http://www.tavinstitute.org ^
35 L.M. Sicca, Management of Opera Houses: The Italian Experience of The “EntiAutonomi”, in «The International Journal Of Cultural Policy», 4/1 (1997); Idem, L. Zan, Alla faccia del management. La retorica del management nei processi di trasformazione degli Enti Lirici in Fondazioni, in «Aedon. Rivista di arti e diritto on line», 2 (2004); L.M. Sicca, L. Zan, Much Ado About Management. Managerial Rhetoric in the Trasformation of Italian Opera Houses, in «International Journal of Arts Management», 7/3 (2005).^
36 Si trattava dell’orchestra (creata in seno all’Associazione Alessandro Scarlatti), che fu ceduta alla RAI nel 1956 dall’allora presidente Giuseppe Cenzato, per l’impossibilità di sostenerne i costi su base associativa, L.M. Sicca, Organizzazione e musica. Il caso Associazione Alessandro Scarlatti, Napoli, Arti Tipografiche, 2006.^
37 Si rammenti che nella sola Campania, dove aveva sede una delle quattro orchestre della Rai, ci sono quattro Conservatori di Musica: Napoli (San Pietro a Majella); Benevento (N. Sala); Salerno (G. Martucci) e Avellino (D. Cimarosa), con circa 3.000 studenti iscritti, dove si insegnano quasi tutti gli strumenti, dal pianoforte al violino, viola e violoncello; dal flauto all’oboe al clarinetto al fagotto e controfagotto; musica da camera, percussioni, composizione, musica elettronica, musica antica, canto, musica jazz, e altro, attraverso l’organizzazione di corsi di primo e di secondo livello, secondo le indicazioni dell’AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica), afferente al Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca.^
38 L.M. Sicca, Chamber Music and Organization Theory: Some Typical Organizational Phenomena Seen Under The Microscope, in «Culture and Organization», 6/2 (2000).^
39 E. Bick, The experience of the skin in early object-relations, in «International Journal of Psychoanalysis» 49 (1968), pp. 484-486, parla di timoredell’individuo di essere “personellospazio”; mentrealtrovesiparla di “ansia di separazione”: J. Bowlby, Separation: anxiety and danger, in Attachment and loss, London, Hogarth, Vol. I, 1969, Vol. II, 1973, Vol. III, 1980.^
40 M. Perini, L’organizzazione nascosta. Dinamiche inconsce e zone d’ombra nelle moderne organizzazioni, Milano, Franco Angeli, 2007.^
41 L.I. Menzies, The Functions of Social Systems as a Defence Against Anxiety: A Report on a Study of the Nursing Service of a General Hospital, in «Human Relations», 13 (1959).^
42 W.R. Bion, A theory of thinking in «International Journal of Psycho-Analysis», 43 (1962); W.R. Bion, Learning from Experience, London, William Heinemann, 1962.^
43 Art poétique, composta nel 1874, fu pubblicata nel 1882, anticipando così Ioannis A. Papadiamantopoulos (Ιωάννης Α. Παπαδιαμαντόπουλος), che conosciamo come Jean Moréas, autore del “Manifesto del Simbolismo” (Le Figaro, 18 settembre 1886): un movimento che attraversò la Francia del XIX secolo nella letteratura, nelle arti figurative e, in certa misura, nella musica.^
44 Il fisiologico precipitato di questi lavori è raccolto prevalentemente nella Collana punto org, diretta da chi scrive per Editoriale Scientifica, Napoli.^
45 A. Di Scipio, Pensare le tecnologie del suono e della musica, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012; E. Mollona, Computer Simulation in Social Sciences. A Logic of Enquiry, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015.^
46 Si rinvia a M. Foucault, Nascita della biopolitica, (corso al Collège de France, 1978-1979), a cura di F. Ewald, A. Fontana, M. Senellart, nella traduzione italiana, a cura di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano, 2005.^
47 LM. Sicca (a cura di), Leggere e scrivere organizzazioni. Estetica, umanesimo e conoscenze manageriali, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010, seguito da LM. Sicca, Alla fonte dei saperi manageriali. Il ruolo della musica nella ricerca per l’innovazione e per la formazione delle risorse umane, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012. Ulteriore declinazione della questione, tutta interna al dibattito sulla matrice umanistica del management, si riscontra, tre anni dopo la pubblicazione di Leggere e scrivere (op. cit.), nella collettanea dal titolo: Tavola rotonda. Umanesimo del managemen attraverso gli occhi dell’altro, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.^
48 S. Oliverio, L.M. Sicca, P. Valerio (a cura di), Transformare le pratiche nelle organizzazioni di lavoro e di pensiero, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, seguito da P. Valerio (a cura di), Linee guida in materia di detenzione per persone transessuali e transgender, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016.^
49 F. Perillo (a cura di), Impresa imperfetta, Napoli, Editoriale Scientifica, 2014.^
50 F. Lindemann, Umber die Zahlπ, in «Mathematische Annalen» 20 (1882).^
51 Si rinvia, per questo, alla ricerca sull’acqua, archetipo, risorsa scarsa e vitale, causa ed effetto di civiltà, fonte di innovazione possibile, di resistenza o di sviluppo, M. Iaccarino, Un mondo assetato. Come il bisogno di acqua plasma la civiltà, Napoli, Editoriale Scientifica, 2014.^
52 B. Masiello, Fiducia nelle reti. Strategie per la crescita nei mercati internazionali delle PMI, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.^
53 L.M. Sicca (a cura di), I linguaggi dell’organizzare. Musica e testo tra dono e disinteresse, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.^
54 R. Musto, Scienza, natura e cambiamento, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.^
sup>55 F. Piro, Manuale di educazione al pensiero critico, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015.^
56 F. D’Errico, Fuor di metafora. Sette osservazioni sull’improvvisazione musicale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015.^
57 R. Diana, Disappartenenza dell’Io. Filosofia e Musica verso Samuel Beckett, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016.^
58 L.M. Sicca, L. Zan (a cura di), Management Arti Culture. Resoconto del primo anno del GSA - Accademia Italiana economia Aziendale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.^
59 M.R. Napolitano, V. Marino (a cura di), Cultural Heritage e Made in Italy, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016.^
60 M. Calcagno, Narrare terre di mezzo. Management Arte Design, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013.^
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