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Referendum, passato e presente
di G. G.
Non c’è dubbio che il referendum del 17 aprile – il “referendum sulle trivelle”, come volgarmente è stato indicato – abbia costituito l’evento politicamente più importante delle vicende italiane di questi ultimi tempi. E certamente è anche paradossale che sia così, considerati i gravissimi problemi di politica interna ed estera che pesano sul paese e che condizionano l’azione del governo, a partire da quello delle immigrazioni in Europa di folle asiatiche e africane, ormai cronico e di sempre più difficile soluzione, nonché connesso alle questioni, addirittura, del futuro dell’Unione Europea. Il fatto è, però, che ogni paradosso si dissolve, se si pensa che il referendum ha costituito un’occasione perché si manifestasse l’orientamento dell’intero corpo elettorale italiano; e, questo, in un momento chiaramente di rilievo degli sviluppi della situazione politica nazionale, come dimostrano le sempre più ricorrenti discussioni sul futuro non soltanto del governo Renzi, ma di tutta la prospettiva politica che lo stesso Renzi ha sagacemente costruito da quando ha preso in mano le redini del governo.
Non ci fermeremo qui su questa prospettiva, anche se essa è in diretta relazione con ogni discorso su Renzi e il suo discorso. Ci fermeremo, invece, su qualche implicazione di ordine politico che può essere ritenuta di maggiore rilievo a proposito del referendum, del suo significato e del suo esito.
All’indomani si è scoperto che coloro che sembravano aver perduto avevano, in realtà, vinto. Succede sempre in Italia. Tutti all’indomani di una votazione scoprono motivi di conforto, anzi di compiacimento anche quando le cause da essi sostenute sono uscite mortificate e minimizzate o annichilite dai risultati elettorali. In questo caso si è detto che, intanto, Renzi ha dovuto scoprire di avere 14 o 15 milioni di persone dichiaratamente contrarie a lui perché hanno partecipato alla votazione, mentre egli aveva sostenuto che era meglio non andare a votare, vanificando così subito il referendum, non valido se non convalidato da una partecipazione al voto del 50% più uno degli aventi diritto. Di queste persone, si è detto, adesso Renzi dovrà tenere ben conto. Naturalmente, uno si chiede se Renzi non debba tenere conto anche, e anche molto di più, dei 33 milioni che, non avendo partecipato al voto, si potrebbe supporre che non abbiano assolutamente nulla contro Renzi.
Però, si dice, di quei 33 milioni una gran parte appartiene alla parte dell’elettorato italiano; e Renzi, nel sostenere l’astensione dal voto del 17 aprile, è stato soltanto furbo a contare, nei suoi calcoli, su questa “riserva indiana” del corpo politico nazionale. Parrebbe inconfutabile, ma non lo è. A parte che poco meno del 10% dei partecipanti al voto (poco meno di un milione e mezzo) hanno votato “no”, e hanno quindi espresso chiaramente espresso un consenso alla tesi di Renzi, nessuno – crediamo – può sostenere che tutti coloro che hanno partecipato al voto e hanno detto “si” al quesito referendario abbiano inteso esprimere un dissenso rispetto alla complessiva linea politica di Renzi e una disapprovazione di questa linea. A tutti era chiara la specificità di quel quesito, e per una quota incalcolabile, ma certamente tutt’altro che esigua, anzi, probabilmente piuttosto rilevante, il dissenso rispetto a Renzi era strettamente limitato alla materia del referendum, e non implicava nessuna ostilità di principio alla sua linea di governo. In altri termini, debbono essere stati molti di più di quanto non si creda i “renziani” che hanno risposto “si” al referendum.
Il risultato del referendum del 17 aprile è stato, comunque, archiviato. È ormai un passato sul quale si continuerà a discutere anche in termini politici, ma con l’occhio volto al futuro ancor più che al presente, ossia con l’occhio volto al prossimo referendum autunnale sulle riforme costituzionali approvate in Parlamento. Di tutta la discussione svoltasi sul 17 aprile rimane vivo, a nostro avviso, un solo punto: la questione, cioè, della percentuale dei votanti, che è stata talmente bassa da aver prodotto, la invalidità della consultazione.
I cittadini che non hanno votato sono buoni cittadini o no? Questo paradossale quesito è stato posto addirittura dal presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, per il quale la partecipazione alle consultazioni elettorali fa parte della carta di identità del buon cittadino. Il sostenitore di questo punto di vista è particolarmente autorevole non solo per l’alto ufficio che oggi ricopre. Su questo punto ci sembra, però, che il suo parere non possa essere affatto raccolto e accettato. Votare è un diritto-dovere? La questione è complessa e, per qualche verso, anche incerta. Quel che, però, è, comunque, più certo è che il votare è un diritto: un diritto per il quale si è storicamente lottato gran tempo prima che fosse acquisito anche solo per l’elettorato attivo, ossia per il diritto di eleggere le rappresentanze nazionali o locali in base al principio della sovranità popolare. Se, però, questo è un diritto – e non sembra possibile dubitarne né storicamente né (oggi) in dottrina, allora ne è anche, e non può che esserne, libero l’esercizio, nel senso che si rimane sempre liberi di esercitare o non esercitare quel diritto, senza, peraltro, che per il mancato esercizio se ne possa mai perdere la titolarità. Lo posso – in altri termini – esercitare sempre, mai o qualche volta o a volte si e altre no, restando sempre in possesso della facoltà di decidere nell’uno o nel’altro modo e del diritto di voto, restando, insomma, sempre, un componente a pieno titolo del corpo elettorale nazionale.
Non esercitando – si dice – questo diritto, si manca, però, al dovere del buon cittadino di partecipare alla formazione della volontà nazionale nel momento decisivo della conta delle opinioni, ossia della scelta del da farsi o non farsi nel governo del paese. In Italia in base a un tale principio si praticò per un certo tempo una sanzione per cui si annotava “non ha votato” su certi documenti rilasciati ai cittadini che, per l’appunto, non avevano votato nella precedente ultima consultazione elettorale. Era una sanzione puramente morale, senza alcun’altra conseguenza civile o penale. Si avvertiva che quel cittadino non era un cittadino modello. Erano i tempi della “guerra fredda” e del primo, incerto e faticoso riavvio di un regime di libertà dopo la lunga parentesi fascista. Alle elezioni di allora partecipò, di fatto, una percentuale altissima degli aventi diritto, spesso oltre il 90%. Era un frutto del timore di quella sanzione? Certamente no, poiché non vi fu mai nessuno che, a quanto si sa, si adontasse di quell’innocuo e universalmente ignorato o trascurato rilievo. Era, invece, il frutto di una condizione storica di estrema tensione interna e internazionale e di una attivazione politica della cittadinanza, che faceva sentire in modo estremamente diretto e personale la chiamata alla consultazione elettorale. L’afflusso alle urne sarebbe stato assolutamente lo stesso se quella notazione non si fosse mai avuta. In seguito la partecipazione alle elezioni rimase in Italia sempre assai alta fino a che le forze politiche conservarono la loro iniziale vitalità e dinamismo o in particolari momenti e congiunture della vita nazionale. In linea di massima, però, l’affluenza alle urne andò declinando in misura crescente e i picchi delle votazioni degli anni ’50 non furono più raggiunti se non in momenti o su problemi particolari.
I commentatori politici salutarono, in questo venir meno del voto espresso sulla scorta di una costante sindrome dell’Annibale alle porte o dei Turchi alla marina, un indizio di normalizzazione e di stabilizzazione della vita e dei costumi politici del paese. Si faceva notare che quelle elevate percentuali di votanti erano una particolarità italiana: negli altri paesi europei le percentuali erano alquanto minori, mentre nelle democrazie anglo-sassoni una partecipazione del 60% rappresentava già una soglia significativa di interesse alla cosa pubblica. Solo nella “democrazie popolari” al di là della “cortina di ferro” si avevano percentuali pari o superiori a quelle italiane (a un certo punto si parlò, non per caso, di “maggioranze bulgare”). Appare difficile, quindi, che la “carta di identità” del “buon cittadino”, anche per questi riferimenti storico-politici di immediata evidenza, possa essere redatta in base al parametro della partecipazione alle votazioni politiche o amministrative o referendarie.
La materia non è soltanto accademica, né soltanto una esercitazione ex post rispetto al referendum del 17 aprile. Si avrà, infatti, tra pochi mesi un secondo, e molto più importante, referendum destinato a convalidare o a respingere le riforme istituzionali e le modificazioni del vigente testo costituzionale deliberate dal Parlamento seguendo la prevista procedure della doppia lettura in entrambe le Camere. Se già al referendum del 17 aprile è stato indebitamente annesso un significato di pronunciamento a favore o contro il governo Renzi e la linea politica che Renzi ha perseguito dal suo avvento prima alla segreteria del partito democratico e poi alla presidenza del governo. A evocare un tale significato è stato, anzi, lo stesso Renzi: se il referendum boccerà le riforme – ha dichiarato – andrò via.
È una dichiarazione comprensibile, anche se alza notevolmente il già notevole livello di quel significato. Sorgeranno anche in questo caso le discussioni su quella che sarà la più o meno alta partecipazione al voto? Speriamo di no. Sul merito di questo secondo referendum torneremo, comunque, a suo tempo. Qui vogliamo solo osservare che il ricorso al referendum è stato saggio. Come quella sulla partecipazione al voto nel caso del 17 aprile, così una polemica di principio si è pure sviluppata a proposito del secondo referendum. Le riforme costituzionali – si è detto – vanno fatte d’accordo tra tutte le parti politiche presenti in Parlamento, e non secondo l’opinione della sola maggioranza parlamentare che si forma per tale occasione. Ricorrere al referendum è una voluta violazione di tale norma del dover essere politico: è uno stratagemma per fare riforme costituzionali di parte. È proprio così?
Diciamo subito che, a nostro avviso, non è affatto così. Se i punti di vista delle forze politiche presenti in Parlamento sono irriducibilmente contrapposti e si rivelano inconciliabili a qualsiasi mediazione, bisogna rinunciare a modificare alcunché? Se l’irriducibilità non dipende soltanto da una diversità di opinioni sul merito delle questioni in discussione, ma da un preciso disegno alternativo a quello della maggioranza, tra cui, in primo luogo, il disegno di rovesciare quella data maggioranza e di avviare un nuovo corso politico, vale sempre quel dover essere dell’accordo fra tutte le parti del parlamento? E, inoltre, le parti presenti in Parlamento esauriscono per intero il quadro delle parti e delle opinioni presenti nel paese? E perché non dare una possibilità di ripensamento del proprio astensionismo elettorale a coloro che nelle elezioni al Parlamento che decide le materie sottoposte a referendum hanno preferito astenersi e non hanno concorso a formare le opinioni presenti in tale Parlamento?
Insomma, a nostro avviso la pratica referendaria in materia istituzionale e costituzionale è un forte arricchimento del significato democratico della revisione, quando se ne ravvisa l’opportunità o la necessità, degli ordinamenti di un paese. Temerne una pratica napoleonica ai fini di svolte autoritarie e personalistiche? Ci sembra, nel caso specifico, del tutto fuori di ogni seria attualità e probabilità politica. Non ci sembra, invece, che il prossimo referendum, come ogni altro, possa essere spogliato di un significato politico. Pensare a una consultazione che esaurisca il suo significato nel merito, per così dire, tecnico dei suoi quesiti ai fini di questa o quella visione di un regime di libertà è un’astrazione con poco senso giuridico e con nessun senso storico-politico. Il referendum avrà, anzi, in questo caso un più pieno ed evidente senso politico, legato com’è per ammissione dello stesso Renzi a un pronunciamento sul suo indirizzo politico e sulla sua azione di governo.
Sono questi i motivi per cui ci sembra che anche sul referendum del 17 aprile sia tuttora proficua una certa riflessione che non abbia soltanto il senso di un’astratta e superflua discussione su un evento del passato, anche se passato recentissimo, ma possa avere anche il senso di una riflessione di qualche valore in vista del referendum prossimo.
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