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Croce, Machiavelli e la politica
di Giuseppe Galasso
«Lungi dallo scindere l’etica dalla politica, come Croce e altri hanno sostenuto, Machiavelli guarda – al di là dell’etica ufficialmente cristiana del tempo (e, per implicazione, al di là di altri affini orizzonti morali: quello storico o kantiano, o perfino utilitario), interessata essenzialmente all’individuo – a una tradizione più antica, quella della polis greca o della Roma repubblicana, ossia a una morale fondamentalmente collettiva o comunitaria alla cui stregua l’essere un uomo e l’avere dei valori e degli scopi coincidono con l’essere membro di una comunità»1.
Così Roger Hausheer nella introduzione a un volume di Isaia Berlin, ossia di uno degli studiosi europei che nel XX secolo hanno mostrato per il pensiero italiano e per il contributo che esso ha dato al pensiero europeo dell’età moderna, da Machiavelli a Vico, un maggiore interesse e una maggiore capacità di penetrazione.
Sul motivo della separazione crociana fra etica e politica in Machiavelli Berlin insiste, poi, in varii altri suoi lavori, opponendosi in particolare agli studiosi che ritengono Machiavelli «l’uomo che separò la provincia della politica da quella dell’etica»2; e Berlin spiega pure in che cosa consista a suo avviso questa separazione.
Consiste – egli scrive – nell’indurre a ritenere «come politicamente necessari corsi d’azione su cui l’opinione corrente pronuncia una condanna morale: per esempio camminare sui cadaveri per il vantaggio dello Stato»3.
Non era questa, propriamente, la posizione di Croce nel giudicare di Machiavelli. È vero che nella prima occasione in cui egli se ne occupò, ossia nel saggio, del 1896, Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, qualche sua espressione può autorizzare a ritenere che una riflessione del tipo “il fine giustifica i mezzi” sia presente nel suo pensiero. Le massime del Machiavelli – egli scrive qui – «non sono né morali né immorali, né benefiche né malefiche: diventano tali secondo i fini subiettivi e gli effetti obiettivi dell’azione, secondo cioè l’intenzione e i resultamenti»4.
Parole che, comunque vengano presentate o interpretate, sembrano inchiodare senz’altro la questione all’opinione che, se l’intenzione di chi agisce e i risultati della sua azione sono buoni, allora i mezzi adoperati per conseguire siffatti risultati diventano, ipso facto, anch’essi buoni.
È ugualmente vero, peraltro, che Croce aggiunge immediatamente: «quel che è certo, una morale che vuole introdurre per la guerra le massime per la pace sarebbe una morale per agnelli da sgozzare, non per uomini che lottano per affermare il loro diritto»; e ciò – egli nota – è tanto vero che è lo stesso Machiavelli a notare che, «se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non saria buono»5. Parole da ricordare, perché, sia pure in forma ancora aurorale, sembra affacciarsi in esse il criterio della distinzione della politica dall’etica come due ambiti diversi e ugualmente ciascuno specifico, dell’agire umano.
In effetti, la formulazione piena della distinzione machiavelliana fra etica e politica si sarebbe avuta nel Croce solo alquanto più tardi. È così che nel 1924 il saggio su Machiavelli e Vico: la politica e l’etica reca già nel titolo stesso la specificazione dei due concetti. «Il Machiavelli – egli scrive qui – scopre la necessità e l’autonomia della politica, della politica che è di là, o piuttosto di qua dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta». Non che, a suo avviso, il Machiavelli illustri la sua scoperta con tutta l’opportuna chiarezza teoretica ed espositiva. E, tuttavia, a suo avviso, «era questo il concetto che circola in tutta l’opera machiavelliana», e che indubbiamente «è concetto filosofico, e rappresenta la vera e propria fondazione di una filosofia della politica»6.
Già da tempo è stato notato come a una tale chiarezza di impostazione e di formulazione del problema machiavelliano il Croce giunga solo quando in lui stesso il problema del rapporto tra etica e politica si è chiarito in termini di originale e complessa maturità7. Si deve, peraltro, ancora notare che gli anni del saggio su Machiavelli e Vico sono pure gli anni in cui affiora e viene definito con altrettanta maturità di pensiero e di esposizione il concetto crociano di “storia etico-politica”. E notare questa coincidenza non è importante solo per confermare lo sviluppo del pensiero di Croce relativamente al Machiavelli. È, forse, ancora più importante o, addirittura, essenziale per intendere come in Croce stesso il problema del rapporto fra etica e politica si snodi attraverso riflessioni che vanno oltre la sua “filosofia della pratica”, con la sua articolazione in “economico” ed “etico”: l’uno, volizione del particolare e campo di azione della volontà riferita soltanto a suoi scopi immediati e irrelati; l’altro, volizione dell’universale e campo di azione della volontà riferita a fini caratterizzati, appunto, da una tale universalità.
Ad approfondire le cose, è proprio il concetto di storia “etico-politica” ad essere esemplare del travaglio di Croce a tale riguardo. Nella Storia del Regno di Napoli, in cui quel concetto fu per la prima volta esposto nella sua integrità, si dichiarava che «storia per eccellenza» è soltanto «quella etica o morale» e, in alto senso, politica. Non molto di più è detto, in verità, sull’intima fisionomia e struttura di questa «storia per eccellenza», se non che essa è quella che ha origine e si svolge nella coscienza e nella volontà di un popolo. Coscienza e volontà che ne sono i veri attori, e che, se mancano, vedono la storia ridotta a teatro o oggetto di azioni altrui, come Croce ritiene che per il Mezzogiorno d’Italia sia accaduto nel periodo normanno e svevo. In quel periodo il Mezzogiorno fu, per l’appunto, a suo avviso, il teatro di una storia di dinastie illustri e fastose e delle loro gesta gloriose e famose, che non era la storia dei meridionali, cui toccò, piuttosto, di fungere da oggetto (o strumento) di quella storia. La storia morale non è, perciò, quella «dei costumi e delle leggi che [a un popolo] furono trasmessi o imposti», bensì la storia di sé come, quanto e quando «esso li volle o li respinse, li asserì o li abbatté, per un suo ideale etico e seguendo impulsi etici». Di questa “vera storia” sono promotori e protagonisti «i ceti o gruppi che si chiamano dirigenti e gl’individui che si dicono politici e uomini di stato»8.
La politica entra, dunque, nel binomio “etico-politico” per quelli che ne sono gli attori veri, i veri promotori e protagonisti, mentre l’etica vi entra per gli impulsi e gli ideali dai quali la loro azione è sollecitata. Questa distinzione non ci sembra finora effettivamente fatta dagli studiosi di Croce; e bisogna convenire che essa non è di immediata percepibilità nella conduzione del discorso di Croce quale si configura nella Storia del Regno. Si potrebbe, a nostro avviso, perfino dire che a questo stadio della sua elaborazione del binomio etico-politico si tratti ancora di una prima sistemazione, per forza di cose ancora provvisoria: quasi l’espressione di una esigenza più che un vero e proprio approdo teoretico.
Che Machiavelli funga qui da punto di riferimento essenziale e di decisiva sollecitazione del pensiero di Croce ha, naturalmente, la sua importanza. In pochi altri autori egli poteva ritrovare una tale schietta e realistica considerazione della politica in quanto campo a sé dell’agire umano, non avulsa, tuttavia, dalla coscienza e dalla preoccupazione morale («se gli uomini fossero tutti buoni …..»). Di qui il confronto con Guicciardini, che per Croce di preoccupazioni etiche non ne ha e «si accomoda tranquillamente in questo mondo disistimato, mirando solo al vantaggio del proprio “particulare”»9.
Croce, a sua volta, vuole distinguersi dal Guicciardini, perché «in questo mondo disistimat» della politica non sa e non vuole accomodarsi tranquillamente. Vuole, però, anche distinguersi dal Machiavelli, perché quella totale diversità e separazione della politica dall’etica non risponde alla profonda trasformazione, in corso, del suo pensiero. Gli sviluppi del suo pensiero lo portano dai tempi della paritetica distinzione categoriale fra “economico” o “utile” e il “morale” o “etico” nella Filosofia della pratica al tempo della finale teorizzazione della vitalità come matrice e come forza propulsiva della dinamica categoriale10; e l’inquadramento non solo della politica, ma. altresì, del diritto, dell’economia e di altro nella categoria dell’economico lo soccorre sempre meno nel corso di tali sviluppi, anche se come punto sistematico e teorico rimane fermo.
In Machiavelli egli ravvisa una duplicità fondamentale di considerazione della politica. E, ciò, non tanto nel riferimento al Centauro come icona machiavelliana della stessa politica: il Centauro in cui convivono in unità l’umano e la bestia, e – egli nota ancora, finemente – «perché non cada dubbio sulla purezza di quell’umanità, anche gli argomenti della mente, la malizia, [Machiavelli] rigetta nella parte belluina del Centauro», che si esprime nelle arti del leone e, insieme, della volpe11.
La duplicità machiavelliana a tale riguardo è, anzi, fortemente accentuata da Croce. Machiavelli – egli scrive – appare «come diviso d’animo e di mente circa la politica della quale ha scoperto l’autonomia e che gli appare ora triste necessità di bruttarsi le mani per aver da fare con gente brutta, ora arte sublime di fondare e sostenere quella grande istituzione che è lo Stato». Addirittura egli ravvisa un «tono religioso» del Machiavelli nel parlare di questo tema, o quando «ricorda il detto che bisogna per il bene dello Stato essere disposti a perdere, nonché la reputazione, la salute dell’anima propria; o quando guarda indietro, con poco celata invidia, alla religione pagana, che poneva il sommo bene nell’onore del mondo ed esaltava gli uomini pieni di umana gloria e pregiava la grandezza dell’animo, la forza del corpo, e tutte le virtù che rendono gli uomini fortissimi, laddove la religione cristiana, col mostrare la verità e la vera via all’altro mondo, dispregia questo, loda l’abiezione, e gli uomini contemplativi pone sopra quegli altri, e il patire sopra il fare»12. Ma questa duplicità di considerazione della politica e l’inflessione religiosa nel parlarne sono solo del Machiavelli studiato da Croce o sono anche dello stesso Croce che lo studia?
Un tale interrogativo non può non affacciarsi, visto che il saggio del 1924 si chiude con la notazione di un «inconsapevole vichismo del Machiavelli» e di un «non voluto machiavellismo del Vico»13. Diremmo, anzi, che la definizione di “inconsapevole” per quel vichismo e per quel machiavellismo apre ancora di più la porta all’interrogativo riguardo al Croce del 1924. In lui è, anzi, da notare, inoltre, anche la pratica identificazione della materia politica con l’arte, se così si può dire, dello Stato: arte «sublime», egli dice in un passo già citato; e sulla quale insiste ricordando che lo stesso Machiavelli «al cardinal di Rohan che gli diceva che gli italiani non s’intendevano di guerra, rispose che i francesi non s’intendevano dello Stato»14.
Non erano, tuttavia, osservazioni che valessero per Croce, a chiudere la questione. Pochi anni dopo, nel tempo in cui preparava il volume Etica e politica, apparso nel febbraio 1931, in una breve nota egli confermava la sua idea del primato e dell’autonomia della politica fatta valere dal Machiavelli con «un’asserzione del dovere politico posto al di sopra di ogni altro: cioè non solo sopra gli’interessi privati, ma anche sopra il dovere o gli altri doveri morali». Aggiungeva, però, che una tale idea «può considerarsi addirittura vera, sempre che si stia attenti a non convertire […] le parole del Machiavelli in una teoria elaborata e a non chiudervi dentro un sistema di concetti intorno a ciò ch’egli pensasse intorno al paradiso e all’inferno, e alla morale in rapporto alla politica, e simili, e le si prenda, quali sono, come manifestazione di uno stato d’animo»15.
Rimaneva, così, valida l’idea che «l’interesse supremo del Machiavelli era la politica e la difesa politica della patria»; e che si manifestasse in ciò «l’affiorare […] di un atteggiamento spirituale, che ha “trasvalutato” i “valori” medievali»16. Si trattava, però, di espressioni di uno “stato d’animo”, non ancora di un pensiero, di una concezione dotata di un suo consistente fondamento logico-critico17. E anche qui possiamo chiederci se questa qualificazione del pensiero di Machiavelli sulla politica come «manifestazione di uno stato d’animo» – con un’oggettiva riduzione, perciò, del suo immediato significato teorico, pur così conforme alle sue idee – non tradisca una sua intima, crescente difficoltà nel pensare e ripensare il rapporto fra etica e politica.
Negli Elementi di politica, del 1925, a ridosso, quindi, delle formulazioni del 1923 e del 1924, il capitolo Lo Stato e l’etica trattava specificamente il problema. All’apparenza, la concezione già fissata nel 1909 in Filosofia della pratica non muta: politica = volizione del particolare; etica = volizione dell’universale. Qualcosa, tuttavia, muta, e queste pagine non sono una statica ripetizione di quelle di quindici anni prima. Muta nel senso che la relazione dialettica già formulata da Croce fra le categorie del suo sistema sembra ora animarsi di una spinta più drammatica, che porta a una più risoluta compenetrazione di etica e politica. Se resta fermo che nel «processo dell’attività spirituale alla incessante posizione delle utilità segue l’incessante risoluzione di esse nell’eticità», ora, però, i due momenti, con termini significativi, sono definiti come “corpo” (la politica) e “anima” (l’etica); e questo serve a negare, come mai prima, di poter anche solo immaginare «in concreto un politico privo di afflato e coscienza morale», quasi che «si possa essere “uomo politico” senza essere “uomo”»18.
È certamente difficile non scorgere qui una difficoltà che sembra farsi sempre più esplicita. È la difficoltà di risolvere un contrasto già presente nella formulazione iniziale del suo sistema. In esso, da un lato c’era l’utile, dall’altro l’etico. La loro eterogeneità era dialetticamente superata con la risoluzione del primo nel secondo. Il carattere dialettico della risoluzione era tutto nella natura complessiva del ritmo dell’attività spirituale. In ultima analisi, poi, non di vero e proprio contrasto si poteva parlare tra quei due, come tra tutti gli altri momenti della vita, bensì di una reciproca e progressiva integrazione delle singole forme o momenti o, più esattamente, categorie nel ritmo complessivo e fondamentalmente unitario dell’attività spirituale. Ora, invece, la dialettica del superamento integrativo e tutto interno ed essenziale all’attività spirituale si trasformava in una dialettica in cui l’accento batteva sul piano del contrasto più su quello della diversità, così come sul piano della risoluzione dei due termini in un qualcosa che era di più di un sintesi dialettica.
L’accentuazione del contrasto non era, qui, figlia di un pacifico sviluppo e dell’assiduo ripensamento, secondo il consueto costume di Croce, delle sue posizioni. Era figlia, piuttosto, dello sconvolgimento apportato in lui dal dramma della prima guerra mondiale, che segnò a fondo tutto il corso ulteriore del suo pensiero19. Al trauma della guerra era pure legata l’epifania della storia etico-politica, del cui significato anche per la teorizzazione del rapporto fra etica e politica in Croce va fatto, come abbiamo già detto, il massimo conto. E sulla storia etico-politica abbiamo anche notato come la relazione interna del binomio etico-politico sia, in un primo momento, ancora tale da configurarsi quasi come un’esigenza più che come un pensiero già compiutamente definito: quasi «come manifestazione di uno stato d’animo», non diversamente da quel che Croce aveva ipotizzato per il Machiavelli sullo stesso problema.
In realtà, nell’esperienza sconvolgente della guerra era stato tutto il pensiero di Croce a essere coinvolto nelle ragioni e nei modi della sua genesi, nella sua struttura concettuale e nella sua fondazione storico-critica. Ne sarebbero nate quella “assolutizzazione dei valori” e quella “attenuazione sistematica”, di cui abbiamo discorso nella nostra biografia intellettuale di Croce anche in rapporto allo “spirito del suo tempo”20. Sul tema della relazione fra politica ed etica, ciò avrebbe portato a tutto un nuovo impianto teoretico, che in ultimo avrebbe postulato, come categoria dell’utile, la vitalità. «Se l’Utile o la Vitalità – avrebbe scritto nel 1951 – esercita un ufficio integratore delle altre forme dello spirito e ne convalida con l’attuazione l’armonia, in un altro suo aspetto, provocando il nuovo, esercita un ufficio rivoluzionario col suggerire problemi da risolvere all’arte, al pensiero e alla morale. Quell’irrequietezza dello spirito muove da lei, perché la vitalità è irrequietezza e non si soddisfa mai»21.
A questo approdo Croce era giunto attraverso un travaglio in corso in lui già dagli anni ’30. Era un travaglio evidentemente legato anch’esso alle circostanze europee dei tempi del totalitarismo trionfante e delle libertà oppressa. In un primo momento era stata l’etica quale momento egemone di ogni aspetto o momento dell’attività spirituale a costituire per Croce il piano risolutore e unificante del processo: «la moralità non è la politica o l’utilità, come non è le altre forme dell’attività umana, ma le comprende tutte e tutte le converte, in quanto adempiono al loro fine speciale, in azione etica»; e si vede come «l’attività morale, che per un verso non fa alcuna opera particolare, per altro verso le faccia essa tutte, e regga e corregga l’opera dell’artista e del filosofo non meno che quella dell’agricoltore, dell’industriale, del padre di famiglia, del politico, del soldato, rispettandole nella loro autonomia e di tutte convalidando l’autonomia col mantenere ciascuna nei suoi confini»22. Sulla stessa linea, ma in un secondo momento, è invece, la vitalità (o utile) a giocare un ruolo protagonistico quale forza motrice, per così dire, e come abbiamo visto, dell’intero processo dell’attività spirituale.
«Terribile forza – scrive Croce nella sua pagina più drammatica a questo riguardo – questa, per sé affatto amorale, della vitalità, che genera e assorbe o divora gli individui, che è gioia ed è dolore, che è epopea ed è tragedia, che è riso ed è pianto, che fa che l’uomo ora si senta pari a un dio, ora miserabile e vile; terribile forza che la poesia doma e trasfigura con la magia della bellezza, il pensiero discerne e conosce nella sua realtà e nella realtà delle sue illusioni, e la coscienza e volontà morale impronta di sé e santifica ma che svela sempre la sua forza propria, con le sue ragioni che si fanno valere oltre la nostra volontà e riimmergono di volta in volta l’umanità nella barbarie, che precede la civiltà e alla civiltà succede, interrompendola per far sorgere in lei nuove condizioni e nuove premesse. L’uomo non può negare il diritto di essa, la forza della vitalità, perché le appartiene, come non può negare quelle della poesia, del pensiero, della vita morale, alle quali parimente appartiene, né può negare lo spirito in universale, perché l’ha in sé come sua forma eterna»23.
Su questa conclusione fortemente drammatica della lunga riflessione del Croce non sono affatto frequenti le corrette e attendibili ricostruzioni e interpretazioni del suo pensiero. Ben si può dire, però, che, mentre continuano ad abbondare le critiche alla sua presunta svalutazione e inintelligenza nei riguardi delle scienze naturali e matematiche, sembrano essersi fatti meno frequenti i giudizi su di lui come impenitente fautore di una filosofia dell’ottimismo storico, della perenne positività della storia, delle “magnifiche sorti e progressive” del corso storico. Anche nella fase finale – e ancora così innovativa del suo pensiero – sia il concetto di etico-politico, sia il rapporto fra politica ed etica, sia il riferimento a Machiavelli quale punto nodale della storia delle idee in questa materia, sia l’ufficio del tutto nuovo da lui assegnato infine alla vitalità quale scaturigine di tutta l’attività spirituale continuarono a essere tra i punti centrali della sua riflessione; e, secondo il suo costume, ogni volta che egli tornava a trattarne, sempre emergevano nuove specificazioni e nuove inflessioni del suo discorso, anche se il quadro generale rimaneva quello che si è detto. Le quali specificazioni e inflessioni sono spesso dettate dall’assidua partecipazione del Croce alla vita del suo tempo.
Così accade, ad esempio, per la Nota aggiunta allo scritto del 1946 Intorno alla teoria hegeliana degli individui storici. Qui Croce ha di mira «un che di erroneo o di non abbastanza esatto nella formula del Machiavelli e dello Hegel e degli altri che ammettono una sorta di derogazione che i grandi uomini, i creatori e salvatori degli Stati e dei popoli, fanno talvolta alla legge morale: quasi un ottundere la moralità per attuare una più alta morale». L’errore o l’inesattezza di quei pensatori sta nel fatto che essi «ammettono una sorta di derogazione che i grandi uomini, i creatori e salvatori degli Stati e dei popoli fanno talvolta alla legge morale: quasi un ottundere la moralità». In effetti, questo gli appare in questi essi «un errore sfuggente che c’è e non c’è e al quale furono tratti o disposti non dalla frode alla legge morale, […] ma dall’affetto alle cose grandi, alla salvezza e alla potenza dello Stato e della patria». Pur sfuggente, è, però, un errore o «ombra di errore e, come tutti gli errori, genera non solo errati giudizi storici, ma effetti pratici, fornendo il mezzo di eseguire il turpe loro giuoco ai presenti grandi uomini, o uomini geniali, perniciosi allo Stato, alla patria e al genere umano24.
In altri termini, si ribadisce, quindi, che la politica è amorale, non immorale; ha logiche e procedure sue non regolabili da nessun codice etico o giuridico, ma non è per nulla un regno dell’arbitrio, che il libito faccia licito in sua legge o che trasformi la necessità cogente di determinati atti in una pianificazione o programma di intenti e di azioni delittuose. Solo a questo patto la politica trova la sua moralità nella sua stessa amoralità; e la preoccupazione di Croce nel sottolineare questo punto traspare anche dalla cura che egli mette nel distinguere la qualità riconoscibile all’agire politico dalla “casistica gesuitica” di “direzione dell’intenzione”, e nel richiamare lo Stato e la patria come valori-tipo di esemplificazione della prospettiva in cui la politica agisce25.
Ancora nella stessa nota Croce ribadisce e sottolinea che la riflessione machiavelliana è quella di un autentico filosofo, «ancorché le comuni e tradizionali storie della filosofia lo trascurino», e anche se in lui «manca la forma così esterna come interna del filosofo». La forma, ma non la sostanza, perché «ogni pensamento e affermazione di concetti» è sempre in qualche modo sistematica e unitaria; e «altissimo fu certamente il grado che nel Machiavelli raggiunse il concetto della politica, che con grande energia egli distinse dalla moralità e della religione; e in ciò consiste la sua immortale opera filosofica»26.
Ugualmente fermo restava per Croce che la politica appartiene al regno dell’economico, al quale «convenientemente si addirebbe» la definizione di regno della tecnica; e, infatti, «la politica è anch’essa una tecnica»27. Ben di più: è la morale stessa a non potere «far di meno della tecnica, perché non può far di meno dell’umano vivente e del suo organismo fisiologico, che è lo stesso strumento dell’opera sua»28.
Non che, con tutto ciò, Croce chiarisca sempre, in tutto e sino in fondo, le relazioni sulle quali esercita la sua sempre vigile e approfondita riflessione.
La stessa formula dell’etico-politico ne è dimostrazione. Se da una parte si dice che la politica è anch’essa una tecnica, altrove si dice, invece, che tecnica è la scienza. Su quest’ultima affermazione si distinguono addirittura «tre storie in relazione tra loro, che si presuppongono reciprocamente, ma che pure sono pensabili ciascuna per sé, come riferite a tre momenti dello spirito pratico, e le trattazioni storiche si distinguono secondo questi tre concetti, come storie della civiltà, storie degli Stati e storie dei ritrovati o invenzioni, e tutte insieme, in unione con quelle dello spirito teoretico, esauriscono l’intero campo della storia, della seria o legittima storia»29: dove davvero non è, poi facile orientarsi.
Allo stesso modo è Croce stesso a dichiarare che «per timore dell’assai facile confusione della storia morale con la storia moralistica, mi è venuto spontaneo di designare altre volte la storia morale con un suo sinonimo, che forse ha maggiori speranze di entrare nell’uso e minori pericoli di equivoci. come storia etico-politica»30. Dove la specificazione della natura affatto pratica dell’associazione del politico all’etico appare in pagine che sono fra le più dense di Croce nel presentare «quel che giuridicamente si denomina “Stato” come quel che si denomina “Chiesa”, quello che si considera come Stato e quel che si considera come società, quel che si approva come Stato e quel che si combatte come antistato, l’elemento positivo e il negativo, che è anch’esso, a suo modo, positivo, nel fatto se non ancora nel diritto»31. In pagine, cioè, in cui la nozione di Stato, che in Croce appare sempre oscillante fra varie e diverse, quand’anche non opposte, accezioni, si riempie di una complessità per cui lo Stato non è solo se stesso, ma anche ciò che sta fuori e/o contro di esso. E qui pure si ribadisce, alla fine, che alla storia da lui teorizzata «sembra adatta la denominazione di “etico-politico” in cambio di quella di “morale”, che ritiene alquanto del vaporoso»; e si ribadisce, altresì, che i protagonisti della storia dello Stato e di ciò che ne è fuori o che ad esso si oppone «sono i genii politici, e le aristocrazie o classi politiche che li esprimono e che essi a loro volta generano o mantengono»32. Sicché questa specificazione della ragione pratica da cui figura ispirato il ricorso al binomio etico-politico sembra collegarsi all’incidentale e maliziosamente ammiccante osservazione che fuggevolmente si fa ancora altrove, per cui la “storia morale” è diventata “storia etica” per la buona ragione della bella figura che sempre fa fare a buon mercato l’uso della lingua greca.
Il binomio etico-politico è, dunque, sciolto, così, nella piena proclamazione dell’essenza morale della relazione: il politico è sciolto nel vitale, materia e premessa dell’eticità, che a sua volta si dispiega nelle varie articolazioni dell’attività spirituale e tutte, secondo le loro specificità, le sollecita e le informa.
Linea di pensiero che nell’ultimo Croce affiora e riaffiora, in ripetute variazioni, che fanno intendere come egli avvertisse la permanente centralità, nella sua riflessione, dell’etica e del suo ruolo nell’attività dello spirito. E tema ancor più centrale, se possibile, specialmente da quando era stato il contrasto tra vitalità ed eticità a trovarsi al centro dei suoi pensieri, mentre il nome e l’opera di Machiavelli restavano, a loro volta, sempre non solo presenti in tutte quelle variazioni, ma continuavano a costituirne il maggiore punto di riferimento, pur senza mai irrigidirsi in uno schema definitivo di formulazione interpretativa.
Alla fine, nel 1949, Croce ne trasse materia per un saggio dal titolo più che significativo: Una questione che forse non si chiuderà mai. La questione del Machiavelli. Machiavelli rimaneva il fondatore della filosofia politica, avendo osato di «asserire che la politica non è né la morale né la negazione della morale, cioè il male, ma ha l’essere suo positivo come forza vitale [si noti questo aggettivo] che nessun’altra forza può abbattere e nessun raziocinio cancellare, come non si vince e non si cancella ciò che è necessario». Per intendere «la verità della dottrina del Machiavelli» occorreva seguire la «difficile logica filosofica», rifuggendo sia dalla facile «logica empirica e classificatoria» che dalle altrettanto facili valutazioni moralistiche. Ed è per ciò che «la questione del Machiavelli resterà una di quelle che non si chiuderanno mai», come era pure provato «dalla quantità e dalla qualità dei libri che si continuano a pubblicare sull’argomento»33.
Non era, però, lo stesso Croce a non chiudere mai quella questione? Come mai, se era così dirimente l’interpretazione del Machiavelli da lui tanto spesso formulata e riformulata, egli non aveva mai smesso di trattare della “questione del Machiavelli”, e aveva in ultimo affermato la probabilità che si trattasse di questione destinata a non mai chiudersi? E difficile è per ciò non pensare e non credere che quella questione non si fosse mai chiusa neppure per lui nel lungo cammino che lo aveva portato dalle conclusioni della “filosofia dello spirito” nel 1908-1909 alle ultime riflessioni sulla vitalità quaranta e più anni dopo, sempre interrogandosi sul rapporto tra l’etica e la vita – che fu costantemente la sua grande questione – e sempre muovendosi in base a quel singolare reagente (se così lo si può definire) storico-filosofico che per lui fu, in materia, il fiorentino e italiano Machiavelli.
Che, se, poi, in questo lungo cammino si riscontrassero contraddizioni e abbagli anche al di là di quel che il Croce stesso ebbe cura di correggere o modificare, ciò non dovrebbe portare a negare o a porre in dubbio in lui “la coerenza della mente coerente”. Egli stesso ammonisce che «per ritrovare la coerenza della mente coerente bisogna prendere i suoi pensieri historice, nel loro succedersi, svolgersi e sempre più arricchirsi sotto gli stimoli della vita, senza che perciò si perda il filo che li lega, giacché intrecciarlo con nuovi fili non si chiama perderlo. In questa storica concatenazione anche le eventuali contraddizioni o errori, in cui la mente è incorsa e di cui è poi avveduta, riappaiono convertiti in trapassi a nuove verità»34.









NOTE

1 R. Hausheer, Introduzione, in I. Berlin, Controcorrente. Studi di storia delle idee, a cura di H. Hardy, Milano Adelphi, 2000, pp. XXXVIII-XXXIX.^
2 I. Berlin, L’originalità di Machiavelli, ivi, p. 44.^
3 Ivi, pp. 66-67.^
4 B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, Bari, Laterza, 19468, p. 106.^
5 Ibidem.^
6 B. Croce, Machiavelli e Vico: la politica e l’etica, già in “La Critica” XXII, 1924, pp. 193-197, poi in Idem, Etica e politica, Bari, Laterza, 19567, p. 256.^
7 Cfr. G. Sasso, Benedetto Croce interprete del Machiavelli, in Benedetto Croce, a cura di F. Flora, Milano, 1953, pp. 505-522.^
8 B. Croce, Storia del Regno di Napoli, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1992, pp. 53 segg e 82 segg.^
9 Croce, Machiavelli e Vico, cit., p. 257.^
10 Per un quadro specifico dell’intero corso del pensiero del Croce si veda G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022.^
11 Croce, Machiavelli e Vico, cit., p. 258.^
12 Ivi, pp. 257-258.^
13 Ivi, p. 261.^
14 Ivi, p. 258.^
15 B. Croce, Per un detto del Machiavelli, già in “La Critica”, XXVIII, pp. 310-312, poi in Etica e politica, cit., pp. 17-20.^
16 Ivi, pp. 19 e 20.^
17 Ivi, p. 18.^
18 B. Croce, Elementi di politica, Bari, Laterza, 1925, poi in Etica e politica, cit., pp. 232 e 233.^
19 Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, cit., pp. 250 segg.^
20 Ivi, pp. 349 segg.^
21 B. Croce, Intorno a Hegel e alla dialettica, già in “La Critica”, Quaderno 19-20, pp. 2-13, poi in Idem, Etica e politica, cit., p. 31.^
22 B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 19382, pp. 45 e 44.^
23 Croce, Indagini su Hegel, Bari, Laterza, 1952, pp. 144-145.^
24 Croce, Filosofia e storiografia, cit., pp. 149-151.^
25 Ibidem.^
26 Ibidem.^
27 Croce, Indagini su Hegel, cit., p. 172.^
28 Croce, Filosofia e storiografia, cit., p. 110.^
29 Ivi, p. 111.^
30 Croce, Etica e politica, cit., p. 283.^
31 Ivi, p. 285.^
32 Ivi, pp. 285-286.^
33 Croce, Indagini su Hegel, cit. pp. 185-186.^
34 Croce, Discorsi di varia filosofia, cit., vol. II, pp. 296-297.^
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