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Croce: universale e individuale, una “democratizzazione teoretica”
di Giuseppe Galasso
I

Del pensiero di Benedetto Croce può dirsi che ogni angolo, o quasi, sia stato esplorato e messo in luce, sia che lo si valutasse come prova della sua positività, ravvisandovi, al caso, il germe fecondo di altri pensieri, sia che, al contrario, vi si rilevasse un errore di percorso fuorviante o senza sbocco, fecondo solo di ulteriori errori e di un conforme girare a vuoto.
La taccia di idealismo che accompagnò fin dall’inizio lo svolgimento di quel pensiero contribuì, inoltre, a dare ad esso una connotazione di filosofica astrattezza, che sembrava destinarlo ai circoli ristretti delle conventicole accademiche, per propria natura lontani dal percepire la realtà della vita e del modo di essere del comune degli uomini: “cose da filosofi”, secondo l’antica qualificazione negativa dei pensieri che si ritengono lontani dalla realtà e incapaci di intenderla.
L’intersezione operata da Croce fra la dialettica degli opposti (vigente all’interno di ciascuna delle categorie, quattro, da lui individuate come ambiti e forme del pensiero e della vita) e la dialettica dei distinti (che vige nelle relazioni fra tali categorie, per cui nessuna di essa è opposta a ciascun’altra, e ognuna di esse segue in piena autonomia il proprio specifico andamento) ha acuito la critica, spesso rivolta al Croce, di confusione filosofica, quando con lui si è benevoli, di dilettantismo filosofico, quando benevoli non si è.
Poiché ciascuna di quelle quattro forme della vita e del pensiero procede autonomamente nella sua attività perché mai – si chiede – si dovrebbe passare dall’una all’altra di esse, come Croce sostiene, affermando che la sua non è la dottrina di una ferrovia a quattro binari, ma la dottrina di una sempre viva e attuale unità del pensiero e della vita nella loro realtà processuale?
Per Croce il problema non sussiste. Quei quattro binari sono distinti, ma non incomunicanti o alieni fra loro. Anzi, la loro autonomia e specificità si dispiega e si mantiene proprio perché vive nella loro unitaria realtà processuale. La realtà processuale: ossia la storia, il divenire, il sempre mobile, e mai immobilizzabile, orizzonte così del pensiero e della vita come della loro articolazione in distinte forme o categorie. Il passaggio dall’una all’altra di quelle categorie non è un’ascensione dal basso all’alto, né un superamento in cui l’una Croce: universale e individuale, una “democratizzazione teoretica” venga assorbita e annullata nell’altra, né una discesa dal superiore all’inferiore, né una trasformazione che sia un mascheramento dell’una nei panni dell’altra. La relazione fra loro implica una piena, interrelata e interdipendente simultaneità. Nella loro realtà processuale, ossia nella storia, esse sono specifiche e distinte, ma non isolate o insanabilmente conflittuali. La loro relazione non è ad excludendum, bensì ad cooperandum. Se non fosse così, la loro relazione o si dissolverebbe in una non ipotizzabile frammentazione e caoticità della vita e del pensiero, oppure effettivamente, sarebbe il parallelismo puramente geometrico di una ferrovia a quattro binari.
Dire che c’è un passaggio dall’una all’altra di quelle quattro forme è, peraltro, vero e non vero al tempo stesso. È vero perché la loro storicità, la realtà del loro procedere, il loro corso storico accentua di momento in momento la posizione e il ruolo di ciascuna di esse. Non è vero perché, in effetti, esse sono sempre compresenti e coagenti anche quando a giocare sul proscenio è l’una o l’altra di esse. La storia è un coro con un’orchestra che suona sempre contemporaneamente tutti i suoi strumenti, anche se ora prevalgono quelli a fiato, ora quelli a corda, ora quelli a percussione, ora quelli vocali. La storia è nella sinfonicità di questo coro e orchestra. Nessuna forma della vita e del pensiero tace mai, tutte sono sempre ugualmente attive, e ciò anche quando nel loro coro spicca e domina l’una o l’altra voce, secondo i ritmi e i sensi della loro sinfonicità che nel loro procedere si determinano e che di volta in volta, per ciò, si impongono.
Non c’è, però, il rischio che questa sinfonicità finisca con l’essere la sola unica realtà del processo, risolvendo e annullando in sé le singole forme o categorie di cui si compone? Se così fosse, non vi sarebbe più, per Croce, la sinfonia. Essa sussiste, infatti, solo se resta in essa simultanea e coagente, cooperante eppur distinta la presenza delle sue componenti. Per la stessa ragione l’individuo non è una vana apparenza di quel generale procedere del pensiero e della vita che è la storia. Anche qui è il contrario. Vita e pensiero non consistono nella generalità del loro procedere; consistono nelle individualità in cui il loro procedere si esprime. Tolto l’individuo, quel procedere non sarebbe che l’informe agitarsi di una massa magmatica, un quid indefinibile senza volto e senza nome.
L’individuo non è, dunque, nell’idea di Croce un’illusione ottica fugace e inconsistente sullo scenario della storia, che presenterebbe, altrimenti, una indistinta unità processuale di vita e pensiero. È la forma essenziale in cui quella unità non può fare a meno di esprimersi, così come non può fare a meno di configurarsi senza la simultaneità operosa e concorrente delle specifiche, autonome, irriducibili forme o categorie del pensiero e della vita. L’unità reale del tutto – ossia, la storia – sta tutta in questa simultanea e operativa compresenza e attività di quelle forme e categorie, così come sta tutta nelle figure individuali, nei singoli individui in cui la specifica, autonoma attività di ciascuna forma non può fare a meno di esprimersi. E deriva da ciò l’affermazione di Croce che l’individuo è nell’opera che egli produce, nel segno che la sua opera lascia nel fluire della storia.



II

Sembrerebbe chiaro che nel pensiero di Croce l’identificazione dell’individuo con l’opera sul rapporto che si è visto fra universale e individuale non dovesse sollevare particolari problemi. Eppure, proprio sul punto della individualità si sono avute alcune delle critiche più puntute, e anche più acute, del pensiero di Croce. Valgano per tutte le osservazioni di Federico Chabod nel suo Croce storico, che qui riassumiamo e che riprendono più specificamente e diffusamente quanto abbiamo già accennato su questo tema.
Chabod ricorda che «la storia – scrive, ad esempio, Croce – è sempre delle opere e non degli individui per sé, nella loro individualità priva di qualità e la cui immagine è un fluttuare quantitativo della comune indivisa umanità». Le opere che si sono susseguite nel tempo e hanno costituito e accrescono «il patrimonio dell’umanità […] non sono mai personali, ma volute dalla storia e da Dio che la regge». E ancora: «l’attore, l’unico attore della storia è lo spirito del mondo, che procede per opere individue, ma non ha per suoi impiegati e cooperatori gli individui, i quali, in realtà, fanno tutt’uno con le opere individue che vengono attuando e, tratti fuori da esse, sono ombre di uomini, vanità che sembrano persone». È errata, insomma, «la credenza che autori delle opere siano le persone di cui si suol dare alle opere i nomi, alle opere che sono sempre sovrapersonali, opere dello spirito, create dallo spirito, che è tutto in ciascuna di esse e non delega ad altri il suo potere, laddove quei nomi servono ad un ufficio di pratica designazione e di pratica pedagogia sociale».
A questa affermazione decisa sugli individui che sono simboli e non autori delle loro opere, tutte dovute all’attività sovrapersonale dello spirito, della «comune indivisa umanità», Chabod contrapponeva le altre affermazioni dello stesso Croce, per cui, ad esempio, «la storia concepita sopra e fuori gli individui e che preme agli individui imponendo persone leggi e regole fisse, è, tutt’insieme, annullamento della storia e annullamento di ogni dovere, perché annulla l’unica realtà della operosa e travagliata vita spirituale». Ben di più: «la storia è storia di creazioni dello spirito umano in ogni campo»; e «le creazioni spirituali riescono sempre nella mente e nel cuore degli uomini geniali, dei genii artistici, speculativi, pratici, morali, religiosi». Né si resta fermi qui. Le creazioni degli uomini geniali sono, infatti, «accolte o coltivate nella loro purezza da uomini eletti, che formano le varie classi degnamente dirigenti, e, sostenute da questi, trapassano nei molti e discendono perfino in quegli altri che sono detti volgo».
Si tratta, dunque, di posizioni del tutto contrapposte: da un lato, individui che sono soltanto simboli, neppure cooperatori e impiegati dello spirito, autentico autore, soggetto e oggetto, delle opere alle quali singoli individui danno il nome; dall’altro lato, uomini geniali, dalla cui mente e dal cui cuore escono «le creazioni spirituali» che formano il tessuto della storia. E un problema non del tutto trascurabile è offerto anche dai termini usati da Croce quando scrive che le opere individue sono opere della «comune indivisa umanità»: dove l’equivalenza, a cui si sarebbe indotti a credere, fra lo spirito e questa umanità, se fosse da assumere come punto significativo del pensiero di Croce, ne formerebbe un ulteriore motivo degno di rilievo e di analisi.
La deduzione che, comunque, da questo doppio configurarsi del problema Croce trae a proposito del puro e semplice biografismo, dello psicologismo come dimensione biografica, delle biografie romanzate, delle mitizzazioni o distorsioni eroicizzanti di fatti e persone, sono molto interessanti e, spesso, molto istruttive. Ben più importante è, tuttavia, osservare lo iato che, come Chabod rilevava, si nota fra le premesse teoriche di Croce sulle individualità e le relative antinomie e, invece, «la pienezza umana del racconto», che caratterizza gli scritti storici di Croce, e non solo nelle biografie o profili biografici – un genere da lui molto, e spesso eccellentemente, coltivato – e caratterizza, insieme, ben più di quanto si crederebbe anche le sue maggiori opere storiche, per cui Chabod ne includeva che, su questo piano, «il Croce storico non conforta il Croce teorico».



III

A ripercorrere l’analisi di Chabod si capisce meglio l’insistenza di alcuni dei maggiori critici di Croce sul tema dell’individualità, considerato il punto più debole del suo pensiero e una vera cartina di tornasole per cogliere quelli che ne sono ritenuti i fondamenti metafisici e idealistici.
Lo stesso Chabod notava, peraltro, che alla contrapposizione di spirito e individuo, di un universale e singolare, di «comune indivisa umanità» e persona Croce aveva dato tempestivamente una sua soluzione più articolata ed equilibrata. Aveva scritto al riguardo, in Teoria e storia della storiografia, una pagina fondamentale e risolutiva, per la sua posizione in questa materia, nel senso già da noi sopra indicato.
In questa pagina – che va perciò letta per intero – egli aveva affermato che non aveva senso contrapporre a «un’astratta storiografia individualistica e pragmatica» un’altrettanto «astratta storia dello spirito, dell’astratto universale». Contro queste due opposte, ma equivalenti astrazioni bisognava far intendere che la vera storia è storia dell’individuo in quanto universale e dell’universale in quanto individuale.Non si tratta di abolire Pericle a vantaggio della Politica, o Platone a vantaggio della Filosofia, o Sofocle a vantaggio della Tragedia; ma di pensare e rappresentare la Politica, la Filosofia e la Tragedia come Pericle, Platone e Sofocle, e questi come ciascuna di quelle in uno dei loro particolari momenti. Perché, se fuori della relazione con lo spirito l’individuo è ombra di un sogno, ombra di un sogno è anche lo spirito fuori delle sue individuazioni; e raggiungere nella concezione storica l’universalità è ottenere insieme l’individualità, e renderle entrambe salde della saldezza che l’una conferisce all’altra. Se l’esistenza di Pericle, di Sofocle e di Platone fosse indifferente, non sarebbe per ciò stesso pronunziata indifferente anche l’esistenza dell’Idea?.
Il senso profondo di questa pagina non solo conferma, come ben si vede, quanto avevamo premesso sul senso del rapporto che Croce istituisce fra universale e individuale, ma va anche colto e messo in evidenza che, appunto, questo suo senso ne risulta talmente dominante e specifico da poterne essere considerato pressappoco esclusivo.
Le illazioni che Chabod ne traeva circa il rapporto tra “storia etico-politica” e “storie speciali” (diritto, economia, società etc.) nella «nuova storiografia» proposta dal Croce perdono, quindi, non poco di pertinenza dal momento che non conservano a quella pagina il valore che si è detto rispetto alla tematica del rapporto universale-individuale in storia e in storiografia.
Per questo rapporto Croce aveva parlato, come si ricorderà, di «uomini geniali», di «genii», che con e nelle loro opere realizzano l’articolata relazione di universale e individuale. Aveva parlato di classi dirigenti, formate da «uomini eletti», che accolgono e coltivano le opere degli uomini geniali, e perfino le trasmettono in qualche modo al cosiddetto volgo. Chabod aveva parlato, per ciò, di élites, e a ragione, poiché elitario, in effetti, è anche il concetto che Croce ha delle classi protagoniste, per lui, della «vera storia», ossia quella etica e, in alto senso, politica, rispetto alla quale tutte le altre sono storie “speciali” o “presupposti”, o, insomma, materiali da costruzione e complementi. E proprio sul terreno del tema delle élites (così familiare al pensiero italiano ed europeo dei primi del Novecento) si pongono, però altri problemi per una corretta intelligenza dell’idea crociana di individuo e individuale. Altri problemi, che sono poi quelli acutamente intesi e illustrati da Chabod quando aveva rilevato «la pienezza umana del racconto» nei lavori storici del Croce, e aveva affermato che, da questo punto di vista, «il Croce storico non conforta il Croce teorico» del rapporto fra universale e individuale quale egli lo vedeva: una pienezza umana – osserva a ragione Chabod – che non solo dà rilievo all’individualità personale dei protagonisti del suo racconto storico, ma coinvolge in esso in vario modo o, almeno, sullo sfondo, il volgo disperso che nome non ha negli annali della memoria e della storiografia.
Dal punto di vista, però, della «comune indivisa umanità», quale differenza sussiste o può mai sussistere fra gli «uomini geniali» e quel volgo, fra i «genii» e gli altri?



IV

Il problema non appare posto, neppure in termini approssimativi o generali, nella letteratura su Croce, e per la verità, salvo errore, neppure in Croce stesso. Se, tuttavia, ci si pone una tale domanda, la risposta – ai termini del discorso teoretico di Croce – appare subito chiara. La differenza fra il genio e l’uomo comune non sussiste, ossia, per seguire appieno la logica della domanda, nessuna differenza di struttura e di funzionalità categoriale sussiste tra il genio e il comune degli uomini. L’umanità – razionale, emotiva, pratica, pensante, poetica, inventrice o come che si voglia – è assolutamente pari in tutti gli uomini per il solo e semplice fatto che essi sono uomini. Il cosiddetto volgo è altrettanto umano sia del genio che di quelle classi dirigenti di uomini eletti, colte, politiche o quali che siano, alle quali appare o potrebbe sembrare riservato un più alto e pieno rapporto col genio.
La poesia? Tutti siamo poeti già solo per il fatto che parliamo a noi stessi e con gli altri, e la parola, comunque espressa (versi, canti, suoni, immagini etc.), è già piena e compiuta attività estetica (ed era questa la ragione per cui Croce, con grande scandalo dei linguisti, definiva l’estetica come “scienza dell’espressione o linguistica generale”). La filosofia? Tutti adoperiamo i medesimi strumenti di concettualizzazione e razionalizzazione (la base kantiana di Croce è poco messa in luce, ma è solida e ferma) quali che siano i concetti e le ragioni di cui si tratti (i massimi problemi del filosofo metafisico e i problemi più elementari che si possano immaginare in una qualsiasi materia. Non è improprio, perciò, affermare che ogni uomo ha la sua o le sue filosofie, i suoi momenti o aspetti filosofici, per quanto rozzo, discontinuo, deforme, condizionato, incerto, passivamente o capricciosamente formato, incoerente o povero e pressoché irriconoscibile ne possa essere il contenuto, per non dire il senso.
Quanto poi alla vita pratica, questa universalità del modo di essere e del modo di operare del genere umano è, sul filo del discorso crociano, ancora, e di molto, più facilmente percepibile e valutabile. Dalle attività economiche alla politica, dalle relazioni sociali o pubbliche e private alle questioni di giustizia e di diritto, dai sentimenti e dalle passioni al senso di obblighi e doveri inderogabili (anche se fin troppo spesso derogati) non è solo l’universale radice umana ad apparire presente e attiva in tutti gli uomini. L’uomo di cui Croce ragiona nella Filosofia della pratica è qualsiasi uomo, e le distinzioni di classe che, su questo piano della pratica, si possono osservare non attengono minimamente ad alcuna differenziazione di costituzione genetica, strutturale o funzionale, fra uomo e uomo.
È questa quella che si potrebbe definire la “democratizzazione teoretica” operata da Croce, che alla sua filosofia dà una «pienezza umana» molto maggiore (è, infatti, totale) di quella che Chabod osservava nelle pagine del Croce storico, quasi a dispetto del Croce teorico. E dispetto invece non vi era, perché la «pienezza umana» era già nella struttura nei fondamenti del pensiero di Croce, per il quale gli «uomini geniali», i «genii» appaiono solo quando si passa a parlare delle opere dello spirito di somma rilevanza, che formano il tessuto di quella che si suole definire «grande storia». È nella vita sociale che si determina e agisce in tutti i suoi effetti la differenziazione fra il volgo, le classi dirigenti, il genio. È, però, una differenziazione che nasce su un piano quantitativo di intensità e di ricchezza delle attività spirituali. Fra il poeta più semplice e, come suol dirsi, meno civilizzato, colto, alfabetizzato che si voglia, e il poeta sommo che incontriamo in Dante o in Shakespeare la diversità non sta nel fatto che il primo viva non solo ignaro, ma anche (e magari del tutto) fuori della poesia, bensì nel fatto che nel primo l’attività e coscienza poetica si ritrova in dosi minime, laddove in quei sommi essa raggiunge vette tanto incomparabilmente alte da apparire di altra natura e qualità.
La poesia, la politica, la filosofia, l’esperienza morale, l’attitudine economistica e ogni altra specificazione del tessuto di struttura e di attività, in cui consiste l’essere uomini e operare in quanto tali, sono, insomma, un patrimonio costituzionale di tutti gli uomini, e neppure possono non esserlo, ché altrimenti di humanitas, humanum genus non si potrebbe parlare. Non lo sono, però, soltanto nel senso di una potenzialità che possa eventualmente realizzarsi, così come non realizzarsi. Lo sono – e sta in ciò il senso profondo della riflessione del Croce – nel senso, invece, che sono un’esperienza costante, continua, ininterrotta, simultanea, onnipervasiva di ogni condizione e vita umana. Quando diciamo che qualcuno è privo di ogni senso o capacità estetica o di ogni senso o impegno morale o di ogni attitudine economica o di ogni capacità di razionalizzazione o ragione secondo logica, enunciamo proposizioni senz’alcun possibile fondamento o supporto teoretico, se la realtà e l’esperienza dell’uomo sono quelle teorizzate da Croce.
Non si tratta, dunque, del buon senso di cui Cartesio supponeva che tutti gli uomini siano ugualmente dotati, né della fede per cui tutti siamo figli di Dio, né della banale constatazione della comune anatomia e fisiologia propria dell’animale uomo, né di tante altre professioni di umana comunanza nell’essere e nell’agire. Si tratta, piuttosto, nel contesto della riflessione del Croce, di una petizione filosofica o visione dell’uomo che è la specificazione funzionale ed esistenziale di quella generale “sintesi a priori” in cui consiste, a ben vedere, la filosofia dello spirito da lui elaborata nei primi anni del secolo XX, e poi via via rielaborata e, in fine, come si sa, riassunta e definita come “storicismo assoluto”.
Generale “sintesi a priori”, che non concerne solo la conoscenza, ma l’intera attività ed esperienza dello spirito, cioè dell’uomo, che in tutti i suoi momenti e svolgimenti realizza nelle sue varie configurazioni quella sintesi, e non ha, né può avere altro modo di essere e di agire. Il volgo, dal quale si distaccano gli “uomini geniali”, i “genii”, è fatto del tutto come essi sono fatti, ed è, quindi, per una tale, basilare ragione che delle opere del genio e delle loro implicazioni ed effetti anche esso volgo può ricevere i riflessi attraverso la mediazione delle classi dominanti e dirigenti della società, che col genio hanno più diretto rapporto e ben altra consuetudine di frequentazione.
Omogeneità totale, o, meglio ancora, omogeneità essenziale fra volgo, classi dirigenti e uomini geniali, per cui si spiega pure il perché genetico di quella «pienezza umana del racconto», che, come si è visto, Chabod notava nelle pagine storiche di Croce, e che non senza ragione, egli metteva in evidenza come contraddittoria rispetto alla generale teoria delle opere umane quali opere sovrapersonali, «create dallo stesso spirito, che è tutto in ciascuna di esse e non delega ad altri il suo potere».



V

Non si può dire che sul problema della distinzione tra “uomini geniali” e “volgo” Croce si fermasse spesso o, almeno, che si fermasse spesso con ricchezza di dettagli. Nell’ultima parte della sua vita egli appare, tuttavia, fermarsi su questi problemi con una certa novità di accenti o, addirittura, di affermazioni e deduzioni.
Nello scritto Aristocrazia e masse, del 1943, ad esempio, notava con franchezza che «gli uomini che pensano e che operano profondamente sono pochi e che perciò le sorti dell’umanità sono legate a quelle di un’aristocrazia»: l’aristocrazia – possiamo aggiungere – degli «uomini geniali». Rispetto a questa aristocrazia la «massa» non è «la bestia, il mostro» da reprimere, dominare, ingannare. Del resto, gli stessi genii «vengono dalla cosiddetta massa» ma, soprattutto, è da rilevare che «masse ed aristocrazia non sono […] entità separate e separabili, due mondi ciascuno chiuso in sé e che non può far pressione sull’altro se non dall’esterno; ma, tra loro comunicanti, compongono entrambi l’unica società umana in continuo intimo fervore di reciproci scambi e di trasformazioni».
Non solo combaciano, insomma, appieno, per natura e struttura e loro attività, la massa degli uomini comuni e i pochi uomini geniali, ma sono fra loro legati da un interscambio intenso e ininterrotto; e addirittura Croce non esita ad affermare che lo stesso uomo di genio, l’aristocratico, l’intellettuale, il membro di classi dirigenti ed eminenti «anch’esso, per qualche rispetto, sempre è massa o volgo, in quella parte che non è la sua propria vocazione e professione e che non impegna il suo vigore mentale e morale, e nella quale passivamente aderisce, dal più al meno, al pensiero e al sentire comune o volgare, indotto dalla moda o da altro che sia».
Questa non è una punta isolata nel discorso che qui fa Croce. Non solo egli non concede che il genio stia «fuori e sopra della massa per privilegio di natura o per illuminazione della grazia», ma aggiunge che «rendere tutti gli uomini superiori è pretesa contraddittoria e vana, e vano è del pari voler separare con una divisione assoluta gli uomini considerati superiori da quelli che si considerano inferiori»; e non esita, per di più, a concludere che «gli uni e gli altri prendono quel carattere ed entrano in quel rapporto unicamente nella organica unità sociale e nel moto della storia».
La distinzione di genio e volgo, lungi dall’essere assoluta e pregiudiziale, è addirittura parziale. Il genio è genio per quel che dice o fa di geniale. Per il resto, fa parte anch’egli della massa, e in nessun modo se ne distingue. E per di più, la sua stessa qualità di genio prende corpo solo nella realtà immediata e circostanziata del corso storico in cui il genio fa valere la sua genialità e la traduce in opere geniali. È solo grazie a tali opere geniali che il ruolo del genio emerge e prende legittimo e pieno rilievo, e si delinea la sua superiorità sul volgo e rispetto ad esso. Perché vi sia il genio, occorre che vi sia il volgo che dà senso e campo alla genialità. Uscendo da questa piena e reciproca relazionalità, il genio non ha senso, né campo; rientra appieno nella ordinaria età della massa, perdendo ogni titolo a una diversa collocazione di ordine storico o di qualsiasi altro ordine. Uomini interamente ed esclusivamente geniali, insomma, non ce ne sono. La favilla del genio può destare una grande incendio, come, appunto, accade negli uomini che perciò sono detti geniali, oppure può restare molto modestamente accesa sotto la cenere dell’ordinarietà che è propria della massa. Nell’un caso (molto, molto meno frequente) e nell’altro (di generale frequenza) vale appieno la «comune indivisa umanità».



VI

Non si fa fatica a ritenere che a spingere Croce a mettersi su questa via di esplicitazione di punti fondamentali della sua filosofia siano state le vicende storiche del suo tempo, quali potevano apparire in Europa intorno al 1940. Era, però, un’esplicitazione che solo in parte era tale. In altra, cospicua parte era anche uno sviluppo e, per qualche aspetto, una modificazione di posizioni, atteggiamenti e discorsi del Croce quale era apparso fino ad allora.
Quella del rapporto fra aristocrazia e masse era effettivamente, come abbiamo cercato di mostrare, una esplicitazione di punti tra i più caratteristici e fondamentali della sua filosofia. Una diecina di anni dopo, nel 1950, Croce tornava ugualmente su un problema di filosofia politica, che era pure un problema della politica attuale già ai tempi del Croce della “filosofia dello spirito”, ossia ai primi del secolo XX: il problema del suffragio universale.
Vi tornava per affermare ora «l’ufficio ideale del suffragio universale», che nel suo pensiero politico egli riteneva ora inconfutabile. Vi tornava senza smentire nulla della sua avversione al mito del popolo o delle masse come soggetto storico e come soggetto di diritti. Meno che mai vi tornava smentendo alcunché della sua avversione alle elezioni in quanto prassi politica e giuridica fondata sulla «presunzione che gli uomini col contare i loro si e no e con l’accettare le proposte che raccolgano il numero maggiore di consensi, determinino e regolino gli atti della loro vita o almeno della loro vita pubblica». Questa presunzione «non è, se si guarda bene, una realtà, ma una sorta di fictio iuris, la quale se è scambiata per realtà porta come effetto naturale lo smarrimento, le lamentele e il pessimismo», a cui dà luogo la diffusissima critica dei modi in cui si indirizzano e si svolgono le elezioni. Ciò a cui bisogna badare è invece, il ius, il diritto, che è la «la realtà di cui la fictio è fictio».
Dietro la realtà di una prassi troppo suscettibile di condanna, di sdegno e di rifiuto, quale può essere quella delle elezioni, c’è un diritto talmente forte da vanificare il realistico pessimismo dei “ludi cartacei” in cui fin troppo spesso esse consistono, e tale da resistere, allo stesso tempo, al realismo storico e politico per cui la direzione e il corso effettivo della vita e dell’azione politica procedono con una logica propria, rispetto alle quali le elezioni, sul piano del diritto come su quello dei fatti, si risolvono in una fictio iuris.
L’illustrazione del diritto che giustifica il suffragio universale porta a concludere che «agli altri uomini che chiedono di partecipare con noi al maneggio delle cose umane che sono a tutti comuni non si può rispondere se non assentendo». È, peraltro, una illustrazione che – si può qui notare – che appare fra le più persuasive e le più profondamente argomentate del Croce. Il punto, anche teoretico, più rilevante era, comunque, che la libertà politica esercitata attraverso la prassi delle elezioni non può essere differenziata «distribuendola in varia quantità nei singoli uomini, perché essa è tutta in ciascuno, eguale in ciascuno, combattente in ciascuno, in ciascuno vincente e perdente e di nuovo vincente, ed essa fa si che ogni uomo conosca il vero, attui il bene, crei il bello ed erri nel falso, nel cattivo, nel brutto». E, comunque, il Croce, che aveva a suo tempo sorriso delle elezioni, della retorica elettorale e delle congiunte ideologie di diritti “universali”, superava ora quel suo lungo sorriso, ed esaltava, senza remore, l’«ufficio, ideale del suffragio universale», che rimaneva per lui una fictio iuris, ma veniva riconosciuta come finzione relativa ad elementi imprescindibili nell’esercizio della libertà, in un regime di libertà non chiuso intorno al privilegiamento di particolari gruppi sociali. D’onde la conclusione che, in pretto spirito crociano, prestava al suffragio universale lo stesso omaggio che Giosuè Carducci, tanto amato da Croce, aveva prestato alla rima, dopo averla misconosciuta e ripudiata per i metri classici delle sue “odi barbare”: «un ribelle ti saluta, – combattuta, – e a te libero s’inchina».



VII

Il parallelismo che si può notare tra la esplicitazione di certe implicazioni del suo pensiero quale in lui si formò agli inizi del secolo XX e ne rimase poi sempre a fermo fondamento, e il mutato atteggiamento sul problema del suffragio universale mezzo secolo dopo non annulla la diversità sostanziale fra i due termini di tale parallelismo. Altro era svolgere ampiamente la sua originaria concezione delle forme o categorie spirituali da lui affermate nella fase fondante del suo pensiero, altro era mutare un atteggiamento che era stato ampiamente razionalizzato nelle argomentazioni con cui se ne giustificava il rovesciamento.
Abbiamo notato, tuttavia, che esplicitazione e mutamento si legavano alle sollecitazioni della storia, in particolare d’Europa, intorno al 1940. Sollecitazioni che si aggiungevano a quelle degli anni seguiti alla «guerra sovvertitrice», come la definiva Giustino Fortunato, e che avevano già indotto Croce a una revisione, a una risistemazione e, quasi, a una rifondazione teoretica, per cui si è parlato per gli anni ’30 di una “seconda filosofia dello spirito” rispetto alla precedente di trent’anni prima. Ed è anche in rapporto a tali considerazioni che può non apparire troppo superficiale e non riuscire banale quella caratterizzazione di “democratizzazione teoretica”, che abbiamo già di sopra avanzato e proposto.
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