Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVII - n. 2 > Saggi > Pag. 33
 
 
Francia repubblicana e tradizione socialista
di Luigi Compagna
La Repubblica dopo l’Impero

«Il segreto – per Walter Bagehot – che rende efficace la Costituzione inglese può essere individuato nella stretta unione, nella fusione pressoché completa del potere esecutivo con quello legislativo. La dottrina tradizionale dominante pretende che la bontà della nostra Costituzione consista nella completa separazione dell’autorità legislativa da quella esecutiva; ma, in verità, la sua superiorità sta proprio nella loro eccezionale vicinanza. Il loro correttivo è costituito dal gabinetto...o il gabinetto riesce a legiferare o scioglie l’assemblea»1.
Esisterebbe, insomma, un “segreto” inglese riconducibile al sapiente rovesciamento della separazione dei poteri della dottrina tradizionale, cioè di Montesquieu. Di certo la Francia è andata in cerca di quel “segreto” fin dalla Restaurazione e poi durante la monarchia orleanista. Non meno all’inglese sarebbe stato poi, al tramonto del Secondo Impero, il costituzionalismo post tocquevilliano, quasi tutto imperniato sulla figura di un premier di tipo britannico, dagli Albert de Broglie ai Prosper Duvergier de Hauranne o ai Lucien Prévost-Paradol2.
Loro continuatore, ma per certi versi precursore del presidenzialismo di De Gaulle, in opposizione all’assemblearismo radicatosi nella Terza Repubblica, sarebbe poi stato ritenuto, dal tempo della prima guerra mondiale, l’allora consigliere di Stato Léon Blum nelle pagine de La Réforme gouvernementale3.
Non se ne può dedurne però una sorta di percorso obbligato dalla Terza alla Quinta Repubblica. Né può parlarsi di trapianto continentale della monarchia inglese4 quando l’istituzione governo sarà dettata di fatto dal voto dell’insieme dei cittadini in America e in Francia. Valga qui la classica battuta di Maurice Duverger5.
Quanto a Montesquieu, la sua dottrina in tema di rapporti fra esecutivo e legislativo conterrà sempre previsione di ambiti e di limiti, più e prima che geometria di separazioni e connessioni. Così come l’assemblearismo, inteso come degenerazione, non avrebbe tanto caratterizzato la Terza quanto la Quarta Repubblica ed avrebbe per molti aspetti inaridito la stessa pianta del parlamentarismo, irrinunciabile protagonista di una Repubblica che mirava a lasciarsi alle spalle la disfatta del 1870.
Non fanno storiografia, ma fatalismo di politologia, fin troppo schematica, le ricostruzioni fondate su una storia d’Italia tutta incardinata, da Cavour a Giolitti, ed anche dopo magari, nel trasformismo6. E lo stesso può e deve dirsi a proposito di una storia di Francia tutta predestinata a farsi gollista, sia pure passando per il club Jean Moulin e magari incoronando Duverger, da sinistra, o Debré, da destra, sul trono di un resuscitato Montesquieu della democrazia7.
Il trasformismo non era affatto insito nel parlamentarismo italiano, né lo era il presidenzialismo in quello francese. Storia italiana e storia di Francia non devono prestarsi ad abusi di determinismo che spiegano tutto e non raccontano nulla.
La migliore apologia dell’Italia liberale fu quella di Benedetto Croce, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, apparsa nel 1928. Ma se nella storiografia etico-politica “convergenze parallele” esistono, deve registrarsi come tale quella di Aldo Garosci, Storia della Francia moderna: 1870-1946, forse il libro più crociano dedicato alla storia di Francia. A cominciare dai giorni amari di Sedan8.
La sensazione di allora, assai ben riproposta da Garosci, fu che mai più la Francia avrebbe ritrovato quella stabilità politica e quell’equilibrio sociale, che parevano irrimediabilmente perduti quando il Secondo Impero si era infranto contro la macchina da guerra bismarckiana. Nella storiografia di Jules Michelet si sarebbe avvertita, ad esempio, una sofferta nostalgia della Francia, paese delle gesta Dei o della grande Rivoluzione, patria dei moti elementari di popolo e delle rivolte ideali. Come se dopo il 1870 l’esistenza della nazione stessa fosse in pericolo. Era quel che legittimamente spaventava i conservatori ed angosciava i patrioti.
Si pensi a quel consiglio di guerra, presieduto dal duca D’Aumale, che aveva giudicato il maresciallo Bazaine simbolo di come e quanto l’esercito francese fosse stato a Sedan scompaginato e travolto nella sua stessa struttura interna. Bazaine, rimasto inerte nella fortezza di Metz senza opporsi all’avanzata nemica, si giustificava, argomentando che con la caduta dell’Impero, con la Comune tutto era crollato, non c’era più un governo, non c’era più attorno a lui nulla per cui battersi. Ma il duca D’Aumale lo aveva interrotto ribattendogli: “C’era ancora la Francia!”9.
E infatti, secondo Garosci, la Francia si sarebbe a poco a poco ritrovata attorno a uomini nuovi, espressi da quelle che Gambetta avrebbe chiamato les nouvelles couches sociales, che avrebbero sempre più sostituito il paternalismo precedente, il piccolo signore, l’esponente continentale della gentry, che si era reputato fino ad allora unica base credibile di un regime parlamentare. Dapprima provvisoria ed incertissima, la Repubblica si affermò e consolidò grazie ad uomini di Stato intelligenti e prudenti e ad un ceto politico coraggioso e sapiente, liberale al modo di Edgar Quinet o, magari, di Victor Hugo, i due grandi patriarchi del romanticismo repubblicano, ai quali la narrazione di Garosci sente il dovere di rendere omaggio10.
Ma il mito popolare della Repubblica stava e doveva restare sullo sfondo, insieme a quelli della pace, della reintegrazione del territorio nazionale, dell’amnistia, del ritorno dei deportati della Comune e con essi del ritorno della Francia a Parigi e della irriducibile continuità della Parigi politica. Questi sono e restano sentimenti primaires, distanti e distinti dai più evidenti filoni culturali di riferimento della Terza Repubblica.
Fin dal ’48 per Garosci l’interesse positivistico per la “società” aveva messo in crisi il romanticismo e i sentimenti primaires: una sorta di ritrarsi della storia verso la sociologia. Cresceva in Europa la solidarietà dei detentori del potere, che si sentivano minacciati, in corpo, dalla spinta rivoluzionaria del ‘48 europeo, da nuovi sistemi ostili ai loro valori, dal rischio di ribaltamento degli equilibri post napoleonici.

Lo spettro di una società democratica, – egli avverte – di una società socialista tirannica grava sulla coscienza delle classi detentrici del privilegio culturale ed economico fin dal 1848. La fraternità con l’umanità nella storia, la comunione con il passato e l’attesa trepida dell’avvenire, l’instaurazione di nuove forme di civiltà come di nuove forme di libertà ansiosamente attese, tutto ciò lasciava il posto a un più acuto e realistico sguardo, che sfatava le illusioni, mostrava tirannia e barbarie dei moti più intimi delle masse, faceva paura con la folla scatenata e riconduceva riconciliati al gendarme11.

La svolta, ed ancor più poi la storia della Terza Repubblica, avrebbero frenato, ma non impedito, passaggi reazionari. La Francia abbandonava ogni iniziativa volta alla creazione di un nuovo ordine internazionale. Ci si rassegnava a considerarsi uno Stato tra gli altri, con un apparato militare inferiore a Inghilterra, Germania, Russia. Ci si adattava all’estinguersi di ogni forma di democrazia socialista cittadina: se nelle giornate di giugno del 1848 era stato solo schiacciata una insurrezione operaia, la sanguinosa sconfitta della Comune nel 1871 parve la liquidazione in Europa di tutta una stagione di tentativi insurrezionali.
Del resto, anche l’Italia del 1870 non poteva atteggiarsi a erede integrale di tutta la civiltà italiana, di tutte le speranze implicite nella tanto sognata unificazione. La soluzione né rivoluzionaria né mazziniana simboleggiata dalla monarchia e poi dall‘adesione (1882) alla Triplice segnava per l’Italia una sorta di abdicazione, come in Francia, all’iniziativa europea, con evidente riconoscimento dei limiti imposti da Bismarck.
La Terza Repubblica fu così scuola di parlamentarismi, i suoi uomini nuovi – più e meglio dei distintissimi Tocqueville, Prévost-Paradol, Gobineau, dei legittimisti o liberali compromessi con l’Impero – coltivarono grande rispetto dell’ordine internazionale e sociale esistenti ed ebbero nozione precisa di dover creare parlamentarismo fra classi dirigenti formate e scelte in democrazia popolare rurale. A differenza che in Italia, né “opportunismo”, né “trasformismo” in Francia furono parole ingiuriose.
Anzi erano benvenute se e quando liberavano la Francia, prima dai pericoli di restaurazioni dinastiche, poi dalle caste che rappresentavano la politica del passato, dall’ingerenza del clero, dalle figure dei romanzi di Balzac e Flaubert, da quella gente colta addormentata nel compiacimento di sé, dai signorotti locali, dal notaro dottrinario. Si estinguono i notabili proprio perché Parlamento e parlamentarismo nella Terza Repubblica ne assolvono pienamente le funzioni: il conservatorismo più autentico e meno velleitario non aveva che da cogliere tali opportunità.

Cogliere – per Garosci – l’opportunità, entro la cornice di un ordine esistente, per un allargamento e un raddoppiamento delle attività economiche e politiche: cogliere l’opportunità, per rendere alla Francia un aspetto di nazione moderna e attiva; cogliere l’opportunità di far accettare nuove conquiste laiche o nuove espansioni oltremare. Ciò non voleva dire, naturalmente, che non vi fossero violente tempeste, violenti ritorni di forze anche contro quell’opportunità; la tradizione viva delle lotte politiche in Francia ci dà, per la cronaca del secolo, un assai più agitato panorama che per il periodo corrispondente, poniamo in Italia. Ma in complesso il progresso si tenne entro la cornice dell’ordine giuridico, sociale e internazionale esistente, per uno sviluppo e un potenziamento di forze12.




L’affaire

A completare la costruzione della Francia moderna, momento di consolidamento e di virtù civile dello Stato laico e repubblicano, sarebbe venuto a fine secolo un tipico affaire francese. In gioco valori di alta umanità; interessi e schieramenti politici; vicende di uomini, minoranze, ambienti; tutti proiettati oltre se stessi, in grado di imporsi all’attenzione del mondo, quasi a imporre al centro la nozione, oltre alla nazione, di Francia.
Nel 1894 il capitano Alfred Dreyfus era stato condannato da un tribunale militare come colpevole di spionaggio a favore della Germania. Contro di lui qualche indizio, ma soprattutto larga prevenzione dei giudici militari verso un loro collega ebreo, dal nome che aveva suono tedesco ed in quanto tale sospetto. Dell’atto di spionaggio, per il quale era stato condannato Dreyfus, si era invece nei fatti reso autore un soldato di ventura di fine secolo, elegante frequentatore di bische e di bordelli, il capitano Esterhazy di origine ungherese. Dopo la condanna, la famiglia Dreyfus era andata a cercare aiuti e solidarietà alla giusta causa della revisione del processo.
Al principio il fronte revisionista era sembrato debolissimo. Radicali e socialisti (allora seguaci del marxismo di Jules Guesde) erano stati freddissimi. L’idea di impugnare una sentenza di tribunale militare in materia di spionaggio era di per sé una forma di attentato all’equilibrio tra ceto politico ed esercito (rimasto in gran parte, per reclutamento e tradizione dei propri ufficiali, legittimista e cattolicissimo). Incombeva l’Europa dei nazionalismi e fra Parigi e Vienna il sogno di uno Stato ebraico si sarebbe fatto strada proprio al fianco dell’affaire13. Né quella di Alfred Dreyfus era accreditata come personalità naturaliter simpatica.
Fu un gruppo di intellettuali, e fra essi tanti ebrei e tanti protestanti a schierarsi accanto a Dreyfus, non senza rivendicare, a titolo di minoranze minacciate nei loro diritti, l’eguaglianza politica vantata dalla Repubblica. Dal deputato gambettista professore universitario di prestigio Joseph Reinach14 al vicepresidente del Senato Scheurer-Kestner, alsaziano protestante, dal colonnello Picquart, che allo Stato Maggiore aveva formulato dubbi sulla legalità del processo, al grande scrittore ebreo Bernard Lazare15.
Verso la fine del 1897, il fratello di Dreyfus riuscì a scoprire come il principale documento sul quale era stata basata la condanna di Alfred, un bordereau di ricevute, fosse in mano di Esterhazy. Di qui la generosissima battaglia di Zola, che vi portò tutto il suo prestigio di autore popolare, la sua capacità di far grandeggiare, tramite generalizzazioni icastiche, la causa generale nel particolare. Fino a quel j’accuse dal tono “religioso”, non solo intellettuale, che denunciava la sopraffazione compiuta per istinto di casta dei giudici e quasi per la stessa ragione sostenuta dalle maggioranze parlamentari.

Come era inevitabile, osserva Garosci, nel clima arroventato dalle pressioni religiose – l’intera massa clericale prendendo parte per i sostenitori nazionalisti della condanna – si sfaldò la maggioranza moderata che aveva fermato, su un programma di transizione, la politica francese, pressappoco al punto a cui l’avevano lasciata il primo quindicennio della Repubblica, e si riformarono, lentamente, i due partiti del progresso e della conservazione, che si possono sempre osservare, sebbene non coincidenti strettamente con i partiti politici, nei momenti decisivi16.

Dopo la morte di Félix Faure, avverso ad ogni revisione del processo, divenne Presidente della Repubblica Émile Loubet e presidente del Consiglio Waldeck Rousseau, il cui ministro della guerra Galliffet (quello che aveva schiacciato la Comune) chiuse almeno provvisoriamente l’affaire, facendo concedere al capitano Dreyfus una grazia presidenziale.
Fu sul terreno del dreyfusismo o dell’anti-dreyfusismo che si formarono, fin dopo la guerra, ambienti, umori, tendenze che avrebbero dominato il mondo intellettuale e politico francese. Dreyfusarda a tinte anarchiche la «Revue Blanche», con redattori della statura di Blum, Natanson, Gide, sui quali si ergerà per profondità filosofica la figura di Lucien Herr, bibliotecario dell’école normale, maestro di socialismo alla generazione di Jaurès prima e di Blum poi, riferimento importante anche dei «Cahiers de la Quinzaine» di Péguy. Di primo piano anche il ruolo di Anatole France e degli allora giovanissimi Sorel e Bergson, Proust e Halévy. Contro di loro nel campo nazionalista, al fianco del vecchio Barrès, gli accademici: dai Faguet ai Brunetière, Boissiet, Bouget.
Con l’affaire nacque e si consolidò in Francia una nuova tela di interessi medi e piccoli, che integrerà nel bene e nel male il tradizionale apparato dello Stato. Garosci ne ricostruisce da par suo la trama.

È l’epoca – egli scrive – dei grandi deputati-sindaci, dei capi provincia ragguardevoli, che passeranno più tardi a rappresentare il paese nel suo intero. In questo senso, e cioè nel costume, una enorme trasformazione si compie. Come è stato osservato, lungi è il tempo in cui ci si rivolgeva a un operaio, a un uomo del popolo, con un confidenziale e indulgente: eh l’ami!. Si introduce nella conversazione, cerimonia diretta a tutte le classi, il rispettoso Monsieur; il cappello femminile domina anche tra la gente del popolo. È, insomma, un paese più sciolto, più moderno, dove i sentimenti, se non le idee che fioriscono nella capitale, continuano ad avere l’importanza mondiale stessa che per il passato17.

Ponendo in termini universali un problema di giustizia, l’affaire risvegliò la politica estera nella coscienza della Francia. Lo stesso ordine bismarckiano non implicava di tenersi obbligatoriamente sui margini della politica europea, ma consentiva alla Francia moderna di irrobustirsi. Ai socialisti toccava farsi grande partito parlamentare, di opposizione, certo, ma perché all’opposizione interpretasse l’anima della maggioranza nelle grandi questioni umane e nazionali, ed ai radicali assumere quella che fino all’affaire era stata la funzione del grande opportunismo.
Il nazionalismo francese si aggrappava all’insegnamento di Maurras e dell’Action Française e si faceva gelida ostentazione della politica per la politica, della gerarchia per la gerarchia, dell’ordine per l’ordine. Fuori dalla storia e dall’umanità francese, il nuovo nazionalismo optava invariabilmente per metodi di violenta denuncia degli scandali, delle spie, dell’immoralità altrui, nella presunzione di una propria moralità superiore alle altre e, quindi, abilitata a cancellare ogni moderatismo repubblicano dal cuore e dalla mente dei ceti conservatori.
Ed è qui che accade di incontrare la grande figura di Jean Jaurès, socialista del Parlamento e parlamentare del socialismo, moderato eppur riformatore, nutrito di cultura dialettica tedesca, interprete di fermenti europei, radicale senza boria e albagia “borghese”, attratto dalla comprensione del socialismo non meno di quanto lo erano stati in Italia il vecchio Labriola e il giovane Croce. Jaurès rappresenterà nella Francia della Terza Repubblica l’anello di congiunzione tra la grande tradizione liberale umanistica e il movimento della massa operaia, tra l’età della Restaurazione ed il mito della Comune, tra il superamento di quel mito ed il dispiegarsi di parlamentarismo.
Gli furono avversi quanti della politica ebbero accezione angusta: dai nazionalisti alla Barrès o alla Maurras ai sindacalisti avidi di antiparlamentarismo; dagli stessi parlamentari “di mestiere”, che si vedevano trascinati in contese di carattere ideale estranee alla politica degli affari, che nell’organismo parlamentare scopre sempre una sua dimensione ed una sua ribalta, agli stessi tradizionali militanti del partito socialista francese che diffidavano della sua affascinante eloquenza. Gli furono al fianco quanti, a loro modo moderati, si sentivano più vicini alle aperture di una società articolata nelle varietà socialiste che all’aritmetica degli “uguali” del programma radicale. Per gli uni e per gli altri Jaurès era comunque un figlio della Francia dell’affaire, capace di pensare allo sviluppo umano della libertà in termini colti e insieme politici.



Da Jaurès A Blum

Jaurès – scrive Garosci – è stato, come dice la storia, deputato “moderato”, convertito poi al socialismo, oppure è stato dall’inizio, più o meno coscientemente, socialista? La risposta può essere affermativa, per tutti e due i casi dell’apparente dilemma. Jaurès, anche moderato, ha avuto sempre sensibilità apertissima per i problemi che i socialisti ponevano; Jaurès, anche socialista, rimane sotto certi aspetti un moderato18.

Nella Terza Repubblica la Francia dei socialisti e quella dei moderati non sono più due France l’una contro l’altra armate, come a lungo si erano sentite e atteggiate Francia della Rivoluzione e Francia della Restaurazione. La forze che Jaurès guadagna al socialismo, rispetto alle loro radici tradizionali, sono più vigorose ma non meno moderate. Non è un caso che fra esse non figurino a pieno titolo blanquismo e marxismo: avvinghiato ai suoi ricordi e alle sue velleità il primo; forte delle sue solidarietà internazionali, ma limitato dal suo finto storicismo il secondo.
Se per Guesde il socialismo doveva essere soprattutto ortodossia, per Jaurès esso implicava tanta moderazione, tanto parlamentarismo, nessun dogmatismo, nessun settarismo. Sopravvissuto allo strappo comunista di Tours nel 1920, il partito di Blum si sentirà erede e continuatore di Jaurès. La battaglia dreyfusarda per la justice, dalle campagne ai centri industriali, era servita a Jaurès ad aprire ed allargare il circuito delle istituzioni repubblicane, a vantaggio di vignerons del Sud e di grandi masse impiegatizie. Ed ugualmente moderazione di toni e di accenti, anche per limitare nel fronte popolare impulsi operaisti e rumori cittadini, furono nella seconda metà degli anni Trenta risorse dei socialisti di Blum nel difficilissimo rapporto con radicali e comunisti in quella esperienza di governo.
Tanto non ebbe Guesde il senso della complessità del quadro internazionale, tanto, invece, lo avvertirono e ne furono magari schiacciati Jaurès prima e Blum poi. Fin dagli anni Novanta, tra i vari possibili casi di guerra, era ipotizzato da Jaurès quello di una guerra di coalizione europea contro una potenza egemonica. L’idea della Armée Nouvelle si fondava sullo scenario di un paese come la Francia improvvisamente invaso da una forza militare che in pochi giorni avesse ragione delle forze militari organizzate del paese. Quanto al colonialismo, esso era probabilmente inevitabile ma non per questo lo si doveva lasciare degenerare in una guerra europea: di qui la massima prudenza perché il contenzioso “marocchino” con la Germania non si facesse “europeo”.
Uomo di pace, a suo modo di pacifismo, Jaurès, animato da profondo orrore verso la guerra in generale ed in particolare avverso all’idea di una guerra contro la Germania. Liberale e moderato autentico, forse non intuì quanto il nazionalismo più cinico e violento avesse preso piede in Francia resuscitando nell’esercito una tradizione di efficienza centralizzata scossa dall’affaire e quanto poco ancora in Europa potessero durare, senza Bismarck, gli equilibri dettati da Bismarck alla Francia.
Il conflitto si scatenò su uno sfondo nel quale pesavano pure le rivalità coloniali e le imperialistiche brame di dominio nei Balcani ed una infinità di altre ragioni, ma il cui elemento fondamentale era il venir meno di quell’aristocraticissimo “ordine” degli Stati nazionali di bismarckiana memoria. L’invasione rovesciatasi sulla Francia (ipotizzata da Jaurès, ma non dal suo partito) impose una collaborazione di governo alquanto improvvisata ed una guerra di patriottica difesa contro un’aggressione. Ormai comunque già la pallottola di un esaltato aveva tolto alla Francia il suo Jaurès.

La lotta – ricorderà Garosci – che Jaurès aveva condotto, con forza costante, contro l’imperialismo, lo fece apparire, nella successiva tradizione del socialismo francese, come un rivoluzionario; mentre il suo umanesimo, il suo profondo patriottismo, l’attaccamento tutto umano al suo suolo, la sua personalità di parlamentare ne fecero il tipico capo del riformismo. Rimase nel socialismo francese quella stessa ambiguità, quella stessa intermittenza dell’azione internazionale, quella stessa soggezione alla dottrina della socialdemocrazia tedesca, che hanno le loro radici nello stato di soggezione e depressione della Francia durante il periodo dal 1870 al 191419.

Grandezze e limiti di jauressismo, torneranno più di vent’anni dopo all’attenzione di Garosci a proposito di chi accettò, in condizioni così profondamente diverse, di onorare la tradizione da lui lasciata in Francia ed in Europa. Su Blum il suo giudizio è più impietoso che su Jaurès. Ancor più del Fronte popolare, gli sembra fallito il tentativo di andare oltre il Fronte popolare, di non lasciare disperdere quel patrimonio di energie e di allargarlo in una sorta di unione nazionale, che comprendesse tutti i resistenti, tutti quelli che intendevano rinforzare la difesa nazionale e l’opposizione a Hitler, nell’ambito dell’alleanza inglese.
Il piano di Blum era vuoto di specifico contenuto sul piano internazionale e soprattutto accentuava oscillazioni e sovrapposizioni tra patriottismo (strettamente di difesa) e nazionalismo isolazionistico, nel quale il cosiddetto “interesse della Francia” era avulso da ogni considerazione umana (e politica) più ampia.«In che – si chiede Garosci – una politica intrapresa con il concorso più vasto dei gruppi di destra e dei comunisti avrebbe potuto essere diversa dalla politica di Daladier? Voleva saldare assieme Russia e Inghilterra? I fatti, la Spagna prima, poi Monaco, rispondevano. Non certo l’inventore del non intervento poteva dare ad una ripresa francese in Europa l’ampiezza adeguata di energia tale da disincagliare il Fronte popolare20».
Rilievo duro, quello di Garosci, sul personaggio di Blum: forse ingeneroso, o quanto meno dettato da vicende che non esauriscono il jauressismo di quell’antico dreyfusardo col quale, almeno negli anni ’30 e ’40, il rosselliano Garosci stentava a simpatizzare21. Per poterlo fare il rosselliano Garosci avrebbe avuto bisogno di un tempo successivo: se si vuole di un tempo “saragattiano”, quello in gran parte, in termini di storia d’Italia, legato alla stagione, dal marzo 1945 al marzo 1946, di Giuseppe Saragat ambasciatore a Parigi22.



Da Blum a Saragat

Austro-marxista tenace e solido nel decennio trascorso in esilio fra Parigi e Saint-Gaudens, Saragat fu indotto proprio dall’esperienza di ambasciatore di Italia a Parigi (’45- ’46) a riscoprire Blum. Il quale fu il maggior riferimento ideale e politico del suo ritorno al socialismo turatiano o del suo distacco da Nenni, ammesso e non concesso che si tratti di cose diverse.
Differenza fondamentale ed irriducibile fra tradizione socialista e tradizione comunista in Europa era la disciplina di partito. Ad essa si era affidato e amava affidarsi, quando e ove processato per crimini inesistenti, ogni militante comunista. Non così il socialista Blum, sottoposto nel ’42 all’odioso processo “pétainista” di Riom, deportato a Buchenwald nel marzo del ’43, liberato fra Braies e Villabassa insieme ad altri “invisibili” prigionieri di Hitler il 28 aprile 194523. La disciplina di partito fu sempre in questo tristissimo periodo l’ultimo dei suoi pensieri.
Piuttosto, Blum si preoccupò costantemente di agire soprattutto secondo coscienza, perché per lui, come per Turati, veniva prima di tutto la volontà dell’individuo e poi quella del partito. Quanto alla storia di Francia, senza vittimismi e senza personalismi, da imputato, da prigioniero, da calpestato, a Blum sarebbe stata riconosciuta da tutti24 una straordinaria capacità di interpretare il meglio della tradizione della Terza Repubblica: quella che esige, se è accusata la Repubblica, di restare al proprio posto senza schivare responsabilità e umiliazioni.
Tornato a Parigi, Blum approfondì più che mai il tema del rapporto fra socialisti e comunisti. Gli articoli da lui scritti su “Le Populaire” del 5 luglio 1945 (Le problème de l’unité), del 13 luglio 1945 (La conditione primordiale), e del 12 luglio (Quelque chose n’a - t - il pas changé) e soprattutto del 19 luglio 1945 (Rappel du passé) saranno i testi sui quali incessantemente l’ambasciatore Saragat richiamerà di volta in volta l’attenzione del ministro De Gasperi. Né gli sembrerà inopportuno, man mano che venivano pubblicati, segnalarli a Nenni25.
In Rappel du passé Blum rispondeva al comunista Marcel Cachin che, in un articolo di qualche giorno prima su “L’Humanité”, gli aveva ricordato l’opera del suo predecessore Jean Jaurès per il conseguimento dell’unità a sinistra. Dopo aver ripercorso quella che era stata la sua attività al fianco di Jaurès, affermando di aver voluto continuarne l’esempio e l’insegnamento, Blum precisava che l’antica unione delle sinistre francesi del 1899, dettata dall’esigenza di fronteggiare l’anti-dreyfusismo che minacciava la Repubblica, si era rotta già l’anno seguente, per ricostituirsi poi nel 1905 e sfaldarsi subito dopo, quando il blocco della sinistra aveva perso gran parte della sua forza. L’ipotesi di collaborare fra socialisti e comunisti, quindi, non era da confondersi con una fusione che avrebbe favorito soprattutto i secondi26.
Non c’è dubbio che, tornato a Roma per partecipare al Consiglio nazionale del PSIUP (29-31 luglio), Saragat nella sua polemica con Nenni si facesse guidare ormai più dalle riflessioni politiche ricavate dagli articoli di Blum che dalle dottrine dell’austro marxismo tanto frequentate e citate fino ad allora. Significativo il diversissimo giudizio di Nenni e di Saragat sulla Russia sovietica: la convinzione che essa potesse configurarsi “guida dei popoli liberi sulla strada del socialismo e della libertà” in Saragat era stata irrimediabilmente cancellata27.
Da Blum soprattutto, verrebbe da dire. Lo stesso atlantismo, se si vuole euro-occidentalismo, era una idea di Blum28, senza spazio e tempo per dissertazioni più o meno filosofiche su grandezza e limiti di Marx29. Il che da un rosselliano come Garosci sarebbe stato sempre apprezzato. Anche per ritrovare radici e motivi di influenza sull’Italia repubblicana di quella suggestiva impronta di civiltà politica legata alla Terza Repubblica francese.
Storiograficamente Garosci aveva amato Jaurès più di Blum. Ma politicamente l’atlantismo di Saragat sarebbe stato per lui irrinunciabile. E non c’è dubbio che esso risalisse a Blum30. Del resto, pure per Blum si sarebbe potuto ripetere, come per Jaurès: «anche socialista, rimane sotto certi aspetti un moderato». Un riconoscimento, nel caso di Garosci, prima e più che al personaggio Blum, alla storia viva e vitale della Terza Repubblica, dopo l’Impero, migliore di come era già apparsa “bella” al tempo dell’Impero.













NOTE
1 W. Bagehot, The English Constitution, Oxford University Press, London, 1867, 1872, 1928, trad. it. La Costituzione Inglese, il Mulino, Bologna, 1995, p. 52.^
2 Cfr. E.F. Callot, La pensée libérale au XIX siécle: à travers trois moments de sa formation: Benjamin Constant, Alexis de Tocqueville, Lucien A. Prévost-Paradol, Hermès, Lyon, 1987.^
3 Cfr. F. Clementi, Profili ricostruttivi della forma di governo primo-ministeriale tra elezione diretta e indiretta, Roma, Aracne, 2005, pp.79-84.^
4 Al termine di una approfondita disamina dei meccanismi britannici operata da Michel Debré, furono introdotti nella Costituzione della Quinta Repubblica principi di regolamentazione dei lavori del Parlamento e parimenti si rafforzarono i poteri dell’esecutivo, il quale, in base agli articoli 20 e 21 della Costituzione determina e dirige la politica della nazione. (Cfr. L. Pegoraro, Il Governo in Parlamento. L’esperienza della Quinta Repubblica francese, Cedam, Padova, 1985).^
5 «Dobbiamo continuare – si era ironicamente domandato M. Duverger, La sesta repubblica e il regime presidenziale, Comunità, Milano, 1962, p. 38 – ad imitare le istituzioni inglesi della regina Vittoria, o dobbiamo trapiantare piuttosto quelle di Elisabetta II, adottandole alle condizioni della nostra vita politica?»^
6 Cfr. D. Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1958 (titolo originario, Italy. A Modern History, University of Michigan Press, Ann Arbor, 1959), Laterza, Bari, 1959. (Secondo lo storico inglese il trasformismo italiano risalirebbe alla prassi politica di Cavour e non solo del Cavour del connubio).^
7 Cfr. F. Clementi, cit., pp. 305 – 314 (Vengono qui riproposti fra gli allegati i quattro articoli di Duverger del ‘56 su “Le Monde”: Réformer le régime. Un système présidentiel?, 12 aprile 1956; Réformer le régime. Un véritable régime parlementaire, 13 aprile 1956; Un révisionisme de gauche, 18 maggio 1956; Bilan d’une campagne, 12 giugno 1956).^
8 A. Garosci, Storia della Francia moderna: 1870-1946, Einaudi, Torino, 1947.^
9 Cfr. L. Compagna, Garantismo e democrazia, Napoli, E.S.I., 1980, pp. 117-121.^
10 Cfr. A. Garosci, cit., pp. 29-31.^
11 Ivi, p. 30.^
12 Ivi, p. 18.^
13 Cfr. L. Compagna, Theodor Herzl. Il Mazzini di Israele, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2010, pp. 69-86.^
14 Sarà proprio Joseph Reinach, non in tribunale, ma nell’ultimo volume della sua Histoire de l’Affaire Dreyfus nel 1908, a guardare a quello che dieci anni di “guerriglia” a favore e contro Dreyfus avevano significato per l’Europa (Cfr. J-D. Bredin, Dreyfus, un innocent: l’Affaire, Fayard, Paris, 2006).^
15 Era stato il fratello Mathieu Dreyfus a dare incarico al giovane scrittore ebreo di Nîmes, Bernard Lazare, di redigere il primo pamphlet (Une erreur judiciaire: la verité sur l’Affaire Dreyfus), che poté essere pubblicato a Bruxelles solo alla fine del 1896.^
16 A. Garosci, cit., p. 49.^
17 Ivi, p. 57.^
18 Ivi, p. 64.^
19 Ivi, p. 72.^
20 Ibidem.^
21 L’epiteto di “inventore del non intervento” riservato da Garosci a Blum è decisamente graffiante. Ma in altre stagioni della vita di Blum, in tutt’altra parte della sua stessa Storia lo stesso Garosci sembrerà volesse quasi prenderne le distanze.^
22 Cfr. M. Donno, Italia e Francia: una pace difficile. L’ambasciatore Giuseppe Saragat e la diplomazia internazionale (1945-1946), introduzione di F. Grassi Orsini, Manduria-Bari-Roma, P. Lacaita Editori, 2011.^
23 M. Serri, Gli invisibili, Longanesi, Milano, 2015, pp. 138-148.^
24 Anche da Garosci. «E poi, – si legge in A. Garosci, cit., p. 384 – c’è stato il processo intentato da Pétain a Blum e a Daladier, e i due imputati si sono difesi assai bene; e c’è il libro scritto da Blum in prigione, tutto pieno di sensi umanistici e contenente il ripudio dei passati pacifismi».^
25 Cfr. M. Donno, cit., p. 120.^
26 «Due fattori – stando ad Alexander Werth – ebbero una parte assai importante nell’allontanamento tra socialisti e comunisti in Francia: i primi segni di un rapido assorbimento dei socialisti da parte dei comunisti in paesi come la Polonia ed il ritorno a Parigi di Léon Blum. Blum godeva nel partito socialista di grande autorità ed era quasi patologicamente anticomunista. Il suo anticomunismo ebbe gran parte nelle risoluzioni che i socialisti presero nel ’45 e rappresentò un importante fattore nel crescente allontanamento ed ostilità fra i due partiti, nonché nella tendenza dei socialisti ad orientarsi verso concezioni di terza forza e verso una scelta risolutamente occidentale (e filoamericana) in politica estera». (A. Werth, Storia della Quarta Repubblica, Einaudi, Torino, 1958, p. 378).^
27 «Con il crollo dell’hitlerismo, – si leggeva in un opuscolo di G. Saragat, Per la Russia dei sovieti, prima Repubblica socialista al mondo, PSI, Roma, 1944, p. 8 – con l’alleanza di tutti i popoli liberi della terra, la Russia ha vinto qualcosa di più tremendo ancora dell’esercito della croce uncinata. Essa ha vinto la necessità da cui era dominata ed ha conquistato ben altro che vasti territori. Ha vinto la necessità ed ha conquistato la libertà di essere veramente se stessa: guida di popoli liberi sulla strada del socialismo e della libertà».^
28 Fattosi biografo di Blum (dopo Malraux, de Gaulle, Mendès France, Ho Chi Minh, Nasser), Jean Lacouture lo considera in Europa il principale assertore, anzi anticipatore, dell’idea dell’Alleanza Atlantica. (Cfr. J. Lacouture, Léon Blum, Editions du Seuil, 1977, pp. 330-592).^
29 Esplicita in tal senso una lettera di Saragat a Faravelli da Parigi del 29 maggio 1945 (Cfr. Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Il socialismo al bivio. L’archivio di Giuseppe Faravelli. 1945-1950, “Annali”, 1988/1989, a cura di P.C. Masini e S. Merli, Milano, 1999, p. 45).^
30 «Juriste ou moraliste? – si domanda J. Lacouture, cit., p. 584, – Le socialisme qu’il a reçu en héritage de Benoît Malon et de Jean Jaurès, interprètes eux mêmes de Proudhon et de Marx, c’est d’abord une morale. C’est par là qu’il rejoint ou reflète Jaurès, aux yeux de qui le socialisme n’était pas seulement l’inevitable produit des contradictions du capitalisme comme Marx, estimait-il, l’avait démontré, mais aussi le souhaitable, le délectable aboutissement des aspirations humaines».^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft