Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVII - n. 2 > Editoriale > Pag. 5
 
 
L'Europa in bilico
di G. G.
Sono stati molti gli avvenimenti di rilievo negli ultimi due o tre mesi, sia sul piano interno (basti pensare alla vicenda della legge sulle “unioni civili”), sia sul piano internazionale (basti pensare all’accordo fra Russia e USA per la guerra in Siria). Se, tuttavia, vi fosse da indicare un caso una data preminente in questa serie di avvenimenti, non avremmo esitazioni. Indicheremmo senz’altro, e non solo dall’angolo visuale italiano, la questione europea così come è venuta configurandosi attraverso le ripetute prese di posizione del presidente Renzi e, soprattutto, per la questione del referendum britannico sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea; ed è appunto di questo referendum che vorremmo qui dire qualcosa..
Che l’Unione non goda da tempo (secondo alcuni fin dalla nascita) di buona salute è diventato sempre meno discutibile. Oggi siamo sull’orlo di una crisi che sarebbe difficile sottovalutare nella negatività degli scenari che i suoi sviluppi possono far prevedere, e che vanno (sia detto subito) ben oltre le tensioni e i contrasti che le accennate prese di posizione del presidente Renzi possono aver comportato o che possano far temere per una loro eventuale sedimentazione nei rapporti fra Italia e Unione.
È naturale pensare che tra i due temi che abbiamo proposto quello relativo alla Gran Bretagna sia il più importante e gravido di conseguenze. Noi ne vogliamo parlare qui mentre è ancora lontano il responso delle urne circa la permanenza britannica nell’Unione credendo di dare così alle considerazioni che seguono un tono più indipendente dalle circostanze che l’esito del referendum determinerà: un valore – diciamo così – intrinseco, quasi strutturale. E questo perché il problema della Gran Bretagna nell’Unione non è affatto, come correntemente si ritiene, un problema nuovo, o, anche, semplicemente recente.
Si tratta, infatti, di un problema che nacque fin dal momento in cui si cominciò a discutere dell’ingresso di quel paese nell’Unione, che – non bisogna dimenticarlo – fu promosso più per iniziativa d’Oltremanica che per una spinta proveniente dall’interno dell’Unione, anche se una tendenza a promuovere e a ottenere l’adesione inglese era certamente presente anche in quest’ultima. Strenuamente avverso a includere la Gran Bretagna nell’Europa Unita fu, ad esempio, De Gaulle, per la più che probabile ragione che la Gran Bretagna gli doveva apparire come un partner ben più difficilmente maneggevole di quanto ai suoi occhi potevano sembrare gli altri paesi continentali, Germania compresa, rispetto a una Francia della quale De Gaulle conservava appieno, come dato ancora attuale, una visione da potenza mondiale, che alla testa dell’Europa unita poteva ancora giocare un grande, autonomo ruolo nella “guerra fredda” allora in pieno corso. Di questa visione varie mosse della sua politica (anche militare) negli anni in cui governò la Francia diedero una più che evidente dimostrazione. Altri uomini politici europei pensavano, invece, che un’Europa unita non fosse nemmeno immaginabile senza la partecipazione della Gran Bretagna, nella quale vedevano, fra l’altro, una garanzia dei paesi meno grandi e influenti dell’Unione rispetto alle prevedibili mire egemoniche di maggiori potenze, quali, proprio, la Francia e, ormai, negli anni ’70, la Germania (così, ad esempio, un leader italiano dallo sguardo lungo quale fu Ugo La Malfa).
In effetti, non si trattava tanto di una pregiudiziale riluttanza britannica ad associarsi all’Europa (che non è soltanto un banale luogo comune, frutto di un inverso pregiudizio) o (e in misura ancora maggiore qualcosa di questo certamente c’era pure) ad associarsi ai paesi europei singolarmente considerati, verso alcuni dei quali la sensibilità britannica poteva essere considerata come distante per uno spazio pressoché insuperabile. Si trattava piuttosto della radicata convinzione di una gran parte sia dell’opinione pubblica, sia delle classi dirigenti, e specificamente della classe politica, che la Gran Bretagna è al centro di una rete di rapporti e di interessi che nello spazio europeo non può essere in nessun modo compresa materialmente e soddisfatta nelle sue esigenze e nelle sue spontanee e congeniali proiezioni.
Residuo di una mentalità radicata nel grande passato imperiale del paese? Si, certamente, ma non è tutto. Si tratta anche di una mentalità educata da una storia plurisecolare a considerare l’insularità come un tratto distintivo, prezioso a ogni effetto (da quello sicurezza e inviolabilità dagli stranieri), irrinunciabile se la Gran Bretagna dev’essere davvero se stessa, e per giunta rafforzata dalla sempre maggiore certezza di aver costruito nel proprio spazio insulare un mondo di alta qualità politica, un modello di regime di libertà, non a caso esaltato e invidiato in ogni parte del mondo, o, almeno, dell’Occidente; un
modus vivendi sociale di alto stile, che contempla un perfino eccessivo rispetto della privacy personale di tutti; e simili altri elementi. Quanto poi di questo mito di tutto ciò che è british sia più propriamente un frutto di ciò che intendiamo, e vuole essere inteso, come english è un’altra questione.
La dimostrazione pratica che questa premessa non è solo una ipotesi di scuola o una deduzione soltanto ipotetica da alcuni dati storici non è mancata, e si è avuta in numerose occasioni: ma bastano due esempi. Allorché venne istituito il MEC, il Mercato Comune Europeo, Londra non solo non volle aderirvi, ma prese l’iniziativa della formazione di uno spazio commerciale sostanzialmente antagonistico, checché se ne dicesse, ossia la EFTA (European Free Trade Area), l’Area Europea di Libero Scambio. Quando fu istituita la moneta unica europea, l’euro, Londra non ebbe alcuna esitazione a rifiutarne l’idea, e si tenne gelosamente la sua moneta nazionale, la sterlina, che continua, invero, a costituire una moneta di affidamento globale. Se mai fosse necessario, sarebbe, tuttavia, facile incrementare la rubrica degli esempi di analogo significato. Quanto poi al comportamento della Gran Bretagna nell’Unione, l’impressione generale è che Londra sia sempre molto attenta a tutte le questioni che tocchino suoi interessi o preferenze, e meno attenta, invece, a tutto il resto. Di qui anche l’impressione generale che il binomio Germania-Francia, notoriamente e indubbiamente prevalente nell’Unione, stia molto attento a ciò che riguarda Londra e si trasforma subito, in tal caso, in un trinomio, essendosi sicuri che in ogni altro caso non si abbiano da Londra particolari fastidi.
Londra, insomma, configura un caso certamente molto diverso, ma in una certa parallela analogia con il caso della Russia: paese dai molteplici, imprescindibili intrecci con la vita dei paesi europei e dell’Unione Europea, ma in questa Unione difficilmente integrabile. Il caso di Londra – lo ripetiamo – è diverso, ma quanto a difficoltà di piena integrazione nell’Unione Europea non pone problemi abissalmente differenti. La Russia per le sue dimensioni e per la sua forza militare e politica, la Gran Bretagna per le ragion che abbiamo qui molto sommariamente esposto sono entrambe, alle resa dei conti, di estrema difficoltà a integrarsi appieno nell’Unione. La differenza principale è che per Londra si è potuto pensare a una sua partecipazione a un’Unione che, come finora è accaduto, non assumesse gli stretti vincoli di uno Stato davvero unitario, anche se federale e non centralistico; e così è, infatti, andata la cosa, e tanto più facilmente in quanto, anche come Stato federale, l’Unione non ha realizzato che una coesione parziale e debole. Per la Russia è difficile pensare anche a questo. E si aggiunga che dopo tutto la Gran Bretagna ha avuto un tale intreccio storico e di epoca tanto antica da giustificare che siano tanti gli europei per i quali, come per Ugo La Malfa, un’Europa senza di essa non è nemmeno pensabile, e da rendere comprensibile che altri, più realisti, pensino al rapporto fra Gran Bretagna e Unione come Catullo pensava al suo amore con Lesbia:
nec tecum, nec sine te, né con te né senza di te.
Il succo del discorso che qui stiamo tentando è, dunque, in sostanza, che fino a quando la Gran Bretagna farà parte dell’Unione, quest’ultima non potrà mai raggiungere una grado maggiore di integrazione istituzionale e politica. Alla Gran Bretagna si adatta l’Unione “debole” auspicata da Ralph Dahrendorf, che era, peraltro, un caso notevole di quello che si chiama “euroscetticismo”: debole appunto nel senso istituzionale e politico, nel senso dei vincoli che l’Unione impone, ma anche dal punto di vista del protagonismo della stessa Unione nell’agone mondiale, della sua possibilità di figurare con una sua personalità propria, se non sostitutiva, come esigerebbe una logica istituzionale stringente, di quelle dei singoli paesi suoi membri, certamente sopraordinata rispetto ad esse e dotata di un superiore potere decisionale. Il contrario, cioè, di quanto accade attualmente col commissario dell’Unione alla politica estera, che una tale figura internazionale e siffatti poteri non ha.
Ma per questo è nata l’Europa? Questo è il “miracolo storico”, la nuova “primavera storica” della vecchia Europa nell’epoca della globalizzazione e delle superpotenze intercontinentali? L’enorme e riuscito sforzo per instaurare in Europa una pace, almeno in ipotesi, di illimitata durata, ponendo fine a un millennio di accesissimi e sanguinosissimi conflitti tra popoli e Stati irreconciliabilmente nemici fra loro per le più varie ragioni, non andrà oltre l’unione doganale e monetaria, oltre quel tanto (alquanto poco, invero) di sovranità effettiva che i paesi membri hanno ceduto ai poteri esecutivi e normativi dell’Unione? La comunità europea finirà una buona volta con l’essere qualcosa che assomigli alla Svizzera (che è almeno altrettanto europea dei paesi dell’Unione e che è nel cuore del continente) o agli Stati Uniti d’America (che anche nel nome portano il ricordo incancellabile della loro origine europea: si ricordino le Province Unite, come si chiamavano all’inizio i Paesi Bassi)? Oppure questa Unione sarà poco di più di una riedizione riveduta e corretta, magari in meglio, del vecchio
Reich germanico, di quel Sacrum Romanum Imperium, che per mille anni è stato nel centro geografico del continente, ma non acquisì mai una effettiva consistenza politico istituzionale, tanto che la sua soppressione nel 1806 fu davvero la più sorprendente “caduta senza rumore” di tutta la storia europea (per limitarci all’Europa), al punto che quasi nessuno se ne accorse o se ne dolse?
L’esito del referendum britannico ci dirà presumibilmente qualcosa di più a questo riguardo. C’è anche, tuttavia, da chiedersi se, da un certo punto di vista, di un esito negativo di quel referendum – sia detto senza scandalo di alcuno – non ci sia poi tanto da dolersi. Potrebbe anche essere, questa, una circostanza negativa da poter volgere in positivo, se, mancando le pregiudiziali britanniche a qualsiasi serio rafforzamento dei vincoli associativi dell’Unione, questa possa trovare finalmente la via per giungere a una più autentica e sostanziale consistenza federale; possa finalmente passare da una condizione adolescenziale alla maturità che risponderebbe ben altrimenti a tutto ciò per cui l’Europa fu sognata, ideata e, infine, concretata nell’attuale Unione. Di questa Unione nessuno potrebbe sottovalutare il rilievo storico e neppure i tanti e tanti successi e lati positivi. È, però, ormai fin troppo evidente come essa, dinanzi a problemi veri e sostanziali, qual è quello dei migranti, e ancor più su problemi di fondo come quelli dell’alternativa solitamente definita quale scelta fra crescita e rigore, o di fronte a crisi internazionali che richiederebbero ben altra presenza e azione e iniziativa politica, mostri immancabilmente tutti i suoi limiti di fondo e renda molto scettici sul suo futuro.
E se l’uscita della Gran Bretagna si traducesse davvero nell’apertura di una crisi mortale dell’Unione, come molti temono? Profezie non se ne possono fare, e oracoli da consultare non ve ne sono. Anche questa potrebbe essere, domani, con un esito antieuropeistico del referendum britannico, una realtà. Ci appare, però, nonostante tutte le debolezze dell’Unione, molto poco probabile. Il rischio vero dell’Unione è in quella che finora è stata ed è tuttora la sua stessa struttura, è nella sua carenza di un supporto etico-politico (e tocchiamo qui un dato di fondo assolutamente essenziale) in mancanza del quale anche ogni più piccolo passo sulla via di un suo definitivo rafforzamento istituzionale rappresenta un’impresa ciclopica, insuscettibile, a stare a come sono finora andate le cose, di reali successi. Ma ne abbiamo altre volte parlato e, anche, vi ritorneremo. Magari a esito noto del referendum britannico.
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft