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L'esperienza dell'abbandono: un approccio filosofico
di Claudio Aquino
L’abbandono, quale esperienza di privazione del senso, è un fenomeno che, più di tanti altri, ha profondamente segnato, e segna tuttora, la cosiddetta epoca contemporanea. Esso sembra oggi emergere con prepotenza nei più disparati ambiti del sapere e dell’esperienza umana e, come tale, può essere preso in considerazione secondo i più differenti approcci. L’intento del presente scritto è quello di promuovere un’intesa filosofica di tale fenomeno. Come prima cosa è dunque necessario chiarire, seppur brevemente, cosa propriamente renda attendibile una simile intesa.
Solitamente si crede che la peculiarità della filosofia sia quella di procedere per mezzo di concetti astratti e generali. Secondo tale credenza si tratterebbe dunque di analizzare un insieme di fenomeni che possano, in un modo o nell’altro, venire ricondotti all’esperienza dell’abbandono, per poi fornire, a partire da qui, un concetto generale entro cui essi possano venire inquadrati. Non è però difficile accorgersi che un tale modo di procedere, per quanto accurato ed erudito possa essere, difficilmente potrà promuovere un’intesa capace di generare, ed è qui che sta l’aspetto propriamente filosofico, una comune esperienza di pensiero. Quest’ultima non potrà infatti mai ridursi al mero fatto di intendersi intorno a dei concetti generali o a delle mere definizioni. Cosa rende allora un’intesa filosofica veramente genuina, ossia capace di generare senso all’interno di una comunità di uomini? Nient’altro che la consapevolezza che in siffatta intesa è posto in gioco l’essere umano come tale, nella sua singolarità e al contempo nella sua propria essenza. Interrogarsi filosoficamente intorno al fenomeno dell‘abbandono significa allora provare a cogliere quel tratto di fondo che tocca oggi, nell’attuale epoca del mondo, l’essere umano come tale, nella misura in cui egli si avverte, nei modi più diversi, abbandonato nel bel mezzo della comunità degli uomini, nel bel mezzo delle cose e del mondo, mondo entro il quale, in tale stato di abbandono, è la sua stessa essenza a venire minacciata. Lì dove qualcosa o qualcuno venga minacciato nella sua propria essenza, quel che domina è l’insensatezza. È per questo che il tratto di fondo di ogni esperienza di abbandono, di quella più radicale come di quella meno radicale, è l’esperienza della privazione del senso. È su questo punto che dobbiamo allora cercare di promuovere un’intesa, chiedendoci come prima cosa: qual è l’ambito che viene propriamente coinvolto in tale esperienza?
Di primo acchito può sembrare che esso sia unicamente il cosiddetto ambito della psiche umana. Quando però il sentimento d’abbandono tocca un essere umano, o una comunità di uomini, esso sembra investire, in modo del tutto singolare, l’interezza dei riferimenti in cui si trova presa la nostra esistenza, esso abbraccia cioè non solo noi, nella concretezza e singolarità del nostro essere, ma il mondo stesso che abitiamo. Quando ci sentiamo abbandonati sembra che siano le cose stesse ad abbandonarci, e con esse sembra abbandonarci, forse in modo ancora più radicale, l’intero mondo, entro il quale finiamo con il ritrovarci spaesati. C’è da suppore che il fenomeno dell’abbandono non riguardi più originariamente l’essere umano di quanto non riguardi le cose e il mondo, ma tocchi al contempo, in modo ugualmente originario, sia l’essere umano che il mondo e le cose che, a partire da esso, gli si fanno incontro. Ogni esperienza umana si genera infatti sempre a contatto con le cose, con il mondo e con gli altri esseri umani, senza mai poter separare nettamente queste sfere l’una dall’altra.
Se vogliamo dunque cogliere il fenomeno dell’abbandono nella sua universalità, dobbiamo provare a volgere via lo sguardo dall’uomo inteso come io psicologico affetto da questo o quell’altro stato emotivo, per rivolgerlo, al contrario, intorno a noi, il più lontano possibile, in modo tale da acquisire il respiro e il colpo d’occhio necessari per cogliere il fenomeno in tutta la sua ampiezza. Rivolgiamoci allora innanzitutto alle cose e chiediamoci: quando l’uomo si avverte abbandonato dalle cose, al punto che queste non sembrano più neppure riguardarlo? In che modo egli fa esperienza di questo abbandono? Quale è il tratto fondamentale secondo cui esso appare riconoscibile ai nostri occhi? In prima approssimazione potremmo rispondere in questo modo: l’uomo si sente abbandonato dalle cose quando queste non forniscono più alcun fondamento a partire dal quale egli possa avvertire la sua familiarità con il mondo. Il primo passo da compiere, al fine di costruire la nostra intesa, sarà dunque diretto a scorgere, innanzitutto, i tratti secondo cui diviene riconoscibile lo stato di abbandono delle cose e dell’uomo nel bel mezzo di esse, e ciò non in riferimento a dei casi particolari, ma prendendo in considerazione l’attuale condizione del mondo, che, in un modo o nell’altro, finisce con il riguardare ognuno di noi e in cui trova origine una forma particolarmente radicale di privazione del senso.
E il mondo? Quando esso può dirsi versare in uno stato di abbandono? Anche qui, in via approssimativa, possiamo provare a rispondere in questo modo: quando risulta sconvolto l’insieme dei riferimenti entro i quali esso può apparire come un tutto, come un che di integro. Nel corso della costruzione della nostra intesa dovremo dunque domandarci cosa questo propriamente significhi, in cosa in particolare consistano tali riferimenti e, soprattutto, in qual modo possa ancora venire pensata, al di là di ogni abbandono o privazione di senso, la sfera d’integrità del mondo entro cui può ancora radicarsi e divenire così nuovamente attendibile la familiarità dell’umano abitare con il proprio mondo.
E per concludere: l’essere umano? Come viene egli chiamato a corrispondere a tale esperienza, quella della privazione del senso e del dolore che vi si accompagna? Può tale esperienza permettergli di scoprire un nuovo senso di comunanza, quello in grazia del quale egli possa, insieme ai suoi simili, far fronte allo stato di abbandono in cui sembra versare il nostro tempo? Se sì, in che modo? A quale appello egli deve qui imparare a prestare nuovamente ascolto? A tali questioni, che disegnano un ambito altamente problematico a cui potremo qui solo far cenno, sarà dedicata la terza e ultima parte di questo lavoro.



I.
In ogni esperienza di abbandono ciò che appare minacciata è la nostra familiarità o intimità con il mondo che abitiamo, minaccia che appunto si manifesta nel sentimento della privazione del senso. Tuttavia, con il mondo noi diveniamo familiari mai direttamente e in modo immediato, ma sempre e soltanto facendo affidamento alle cose che ci circondano e presso cui noi abitiamo. Rivolgiamoci dunque innanzitutto a queste ultime e al modo in cui esse ci vengono incontro nel nostro attuale mondo della tecnica, per vedere se e in che modo da qui si possa far luce sull’attuale senso di abbandono che, in un modo o nell’altro, tocca noi tutti. Per orientarci in tale problematica, ci affideremo a un testo di Martin Heidegger, su cui dovremo provare a meditare1. Si tratta di un testo posto a prefazione di un ciclo di conferenze tenuto a Brema nel 1949 dal titolo Einblick in das was ist, locuzione che potremmo tradurre, in maniera esplicitante, in questo modo: «colpo d’occhio gettato nel cuore di ciò che è», potremmo anche dire: «nel cuore del nostro odierno rapporto con le cose». Il testo sembra parlare di fenomeni apparentemente lontani dal nostro tema, incentrato ora, ricordiamolo, sul sentimento della privazione del senso che accade nel momento in cui, abbandonati dalle cose, esse non sembrano più costituire e fondare la nostra familiarità con il mondo. Tale apparenza può essere agevolmente superata se si pensa che ogni familiarità e intimità con le cose si costituisce nel gioco tra vicinanza e lontananza che s’instaura in esse e con esse, gioco di cui parla appunto questo testo, con particolare riferimento al modo in cui le cose, appunto, giungono a manifestarsi nell’attuale epoca della tecnica. Il passaggio inizia con l’osservare qualcosa che oggi è sotto gli occhi di tutti:

Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano. Dove si poteva giungere, una volta, solo dopo settimane e mesi di viaggio, l’uomo arriva ora in una notte di volo. Notizie che una volta si ricevevano solo dopo anni, o che semplicemente restavano ignote, giungono oggi all’uomo in un attimo, di ora in ora, attraverso la radio. Il germinare e il crescere delle piante, che un tempo rimaneva nascosto, al riparo dello scorrere delle stagioni, ci è ora presentato nel film nell’arco di un minuto. […] Il culmine dell’eliminazione di ogni distanza è raggiunto dalla televisione, che ben presto pervaderà e dominerà tutta la complessa rete delle comunicazioni e dei traffici tra gli uomini»2.


L’uomo dell’attuale epoca della tecnica si sta in tutti i modi prodigando, mediante strumentazioni e apparecchiature sempre più potenti e raffinate, per eliminare ogni distanza tra sé e le cose o tra sé e gli altri esseri umani, nel tentativo di costituire così un mondo in cui tutto possa presentarsi alla distanza più ravvicinata e rendersi disponibile nel più breve tempo possibile. Tale uomo, però, si sta al contempo scontrando con un fenomeno tanto ineludibile quanto estraniante, che viene messo in luce da Heidegger grazie a quest’altra semplice osservazione:

Ma questa fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una vicinanza; la vicinanza non consiste infatti nella ridotta misura della distanza. Ciò che, in termini di misure, è il meno distante da noi grazie all’immagine del film o alla voce della radio, può rimanerci lontano. Ciò che in termini di distanza è per noi immensamente remoto, può esserci vicino. Una piccola distanza non è ancora vicinanza. Una grande distanza non è ancora lontananza»3.


Questa semplice osservazione mostra come vicinanza e lontananza, quando vengano intese in modo genuino, non possano ridursi al semplice calcolo delle distanze, così come accade all’interno dello spazio-tempo parametrico proprio della fisica matematica. Questo conduce necessariamente a interrogarsi sulla vera natura di vicinanza e lontananza e sul loro enigmatico rapporto. Heidegger infatti continua:

Che cos’è la vicinanza, se rimane assente anche quando le distanze più grandi sono ridotte ai minimi termini? Che cos’è la vicinanza, se attraverso l’inarrestabile eliminazione delle distanze essa viene addirittura messa fuori gioco? Che cos’è la vicinanza, se con la sua assenza anche la lontananza viene a mancare4?


Ciò che appare inquietante nella maniera in cui l’attuale mondo della tecnica ci pone in rapporto con le cose è il fatto che, mediante l’eliminazione di ogni distanza, tutto tende a divenire ugualmente vicino e ugualmente lontano e sembra perciò semplicemente fluire e confondersi nella piatta uniformità della totale assenza di distanze. Ciò sembra sconvolgere da cima a fondo quello che un tempo poteva apparire il modo naturale di rapportarsi alla cose e quindi il modo in cui l’essere umano si stanziava nel suo proprio mondo. Per questo Heidegger conclude:

L’estraniante è Quello che pone tutto ciò che è fuori dal suo costitutivo stanziarsi (Wesen) di un tempo. In che consiste questo elemento estraniante? Esso si mostra e si nasconde nella maniera in cui ogni cosa si stanzia a noi incontro, ovvero nel fatto che, nonostante il superamento di ogni distanza, la vicinanza di ciò che è continua a mancare5.


Tali brevi considerazioni devono aiutarci a chiarire il modo in cui, nell’attuale epoca della tecnica, hanno luogo e si stanziano le cose entro cui si costituisce il nostro rapporto con il mondo. Il primo passo compiuto da Heidegger in direzione di tale chiarimento è costituito da alcune semplici osservazioni riguardanti proprio il modo in cui viene a configurarsi il nostro essere presso le cose nell’odierno mondo della tecnica.
Heidegger sottolinea qui due aspetti per noi importanti. Il primo è costituito dal fatto che oggi, mediante le strumentazioni forniteci dalla tecnica, ogni distanza, sia spaziale che temporale, sembra poter essere rimossa, o ridotta comunque ai minimi termini, mediante un semplice comando. Eppure – e tocchiamo qui il secondo aspetto – malgrado ogni distanza sembri, per così dire, implodere sotto il frenetico impulso della rimozione tecnica di ogni distanza, o anzi forse proprio a causa di questa implosione, sembra al contempo venire meno ogni genuina vicinanza alle cose. Ciò che appare a una distanza ridotta ai minimi termini, non per questo ci risulta necessariamente prossimo, nel senso qui di quella prossimità che costituisce la familiarità in cui si fonda il nostro abitare nel mezzo delle cose. Il semplice annullamento di ogni distanza non garantisce affatto il costituirsi di una genuina prossimità agli uomini e alle cose. La vera vicinanza non è infatti mai il semplice annullamento di ogni distanza, così come, d’altra parte, la lontananza (a partire dalla quale le cose o le persone possono farsi a noi incontro) non esclude necessariamente da sé una vicinanza essenziale.
A tale riguardo Heidegger, nel corso delle suddette conferenze, fa un esempio molto semplice e allo stesso tempo assai istruttivo, quello di un uomo che esce da una casa e si muove verso l’albero in giardino per trovare riparo presso la sua ombra. Le distanze che in questo caso costituiscono la prossimità, ossia l’ambito entro cui si dispiega il cammino di quest’essere umano, non si riducono a semplici distanze di carattere geometrico, ma sono determinate dal modo in cui casa, albero e ombra, nei loro reciproci rimandi, appaiono a lui più o meno significativi. È tale loro significatività – il loro essere un che di significativo per l’essere umano – a intonare da cima a fondo la distanza tra la casa e l’albero, nonché lo stesso percorso dell’uomo dall’uno all’altro di questi luoghi. La distanza e lo stesso dispiegarsi del cammino appaiono come tali a partire da una prossimità profondamente intessuta di rimandi dai quali l’essere umano si sente direttamente riguardato nel suo stesso abitare, a partire cioè, tanto per fare un esempio, dall’intensità con la quale l’ombra dell’albero può in quel momento chiamare a sé l’uomo come un che di desiderabile.
Da questo semplice esempio si ricava un aspetto essenziale secondo cui viene inteso da Heidegger, in senso genuino, il manifestarsi stesso delle cose. Lì dove si dispieghi a partire dall’orizzonte di un genuino abitare, «tutto ciò che entra in presenza [si stanzia cioè nella prossimità del nostro abitare] e tutto ciò che ne esce [si distanzia nella lontananza] ha il carattere dell’Angang»6 ossia del concernere e del riguardare, del toccare, ma anche del colpire e dell’assalire o del sorprendere. La presa di misura di ogni distanza che caratterizza ogni cammino schiettamente umano riposa proprio su questo tratto caratteristico della maniera in cui ciò che è si fa a noi incontro o si sottrae. Ma il fatto che l’essere umano, nel suo multiforme rapportarsi al mondo, possa di fatto essere riguardato o colpito dalla presenza o dall’assenza di ciò che è, presuppone la costituzione di una genuina prossimità alle cose e agli uomini, entro cui vicinanza e distanza possano, per così dire, liberamente giocare. Che ne è allora di tale genuina prossimità, così essenziale nella costituzione del nostro rapporto con le cose, quando «a causa dell’eliminazione delle grandi distanze, tutto appare ugualmente lontano e vicino»7?
Lì dove tutto appare ugualmente lontano e vicino, ogni prossimità alle cose viene a mancare, scompare cioè ogni libero gioco tra vicinanza e lontananza, entro il quale soltanto le cose possono giungere a toccarci e a riguardarci veramente (nella loro presenza come nella loro assenza). Nella mancanza di questo libero gioco, le cose tendono a succedersi in modo indifferente seguendo il ritmo dettato dal grado con cui esse risultano sostituibili tra loro. È l’indifferente, ovvero ciò che vale in modo uguale, che ora assale l’uomo a partire dalla cerchia della presenza in cui egli si trova abbandonato. La maniera secondo cui l’indifferente si fa incontro all’essere umano, colpisce ancora quest’ultimo, ma al modo di uno «strappo in avanti (Fortriß)»8 che scinde l’uomo dal suo essere e lo trascina in quella indistinta unità dell’accadere in cui nulla appare più né vicino né lontano, né mai sorgere né mai veramente tramontare, ma tutto appare procedere in un progresso sempre più uniforme e al tempo stesso incalzante. La prossimità concerne ancora l’uomo, ma solo più nel senso della piatta uniformità, entro cui ogni cosa deve essere inquadrata all’interno di una logica di costante e frenetica messa a disposizione, entro cui non si viene più veramente toccati e riguardati da ciò che è, se non al modo di una fruizione pronta a interessarsi di questo o di quello solamente per lasciarlo cadere, poco dopo, di nuovo nell’oblio e nell’indifferenza. La costanza secondo cui si dispiega, sempre di nuovo, tale ricaduta nell’indifferente (tipica di ogni stato di abbandono), costituisce lo statuto di ciò che viene a dispiegarsi sotto il segno della tecnica planetaria, e che noi conosciamo, ad esempio, sotto il nome di routine.. È evidente che lì dove le cose vengano preventivamente inquadrate entro questo processo di totale messa a disposizione (di immagini, ma anche di risorse, di uomini, di informazioni, di “emozioni”, ecc.), esse non sono più in grado di fornire un reale sostegno per ciò che abbiamo chiamato la familiarità con il mondo. È da questo che sembra derivare lo stato di abbandono in cui versa il soggiornare presso le cose caratteristico dell’attuale mondo della tecnica.
Al fine di indicare l’unità di tale movimento di totale messa a disposizione del reale Heidegger ricorre al termine tedesco Gestell, che può essere tradotto con «dispositivo» o, più estesamente, con «dispositivo unitario della consumazione»9. Entro il quadro del dispositivo della tecnica planetaria, il reale si presenta unitariamente come semplice «fondo di consistenza (Bestand)» (o «mera risorsa»). Ogni reale viene per così dire ammesso nel cerchio della presenza solo e unicamente nella misura in cui risulta ordinabile entro il quadro della consumazione. Tale parola non indica solo il processo di logoramento dei cosiddetti «beni di consumo» o quello di accumulazione di un consumo sull’altro («consumismo»). Essa deriva dal latino summare che significa riportare, tramite un calcolo, un molteplice a un punto o a una cifra in cui tutto si riassume e si concentra: l’unità di computazione. L’espressione «dispositivo unitario di consumazione» sta quindi a indicare – come scrive François Fédier – «l’insieme di misure preliminari grazie alle quali tutto è in anticipo reso disponibile nel quadro d’una messa in ordine»10. La cosa affatto estraniante dell’attuale epoca della tecnica è la tendenza ad ammettere nella presenza come reale solo ciò che può rientrare entro il quadro di una tale messa a disposizione. Tale ammettere alla presenza non accade tuttavia mai in vista dell’apparizione del reale colto nella sua specificità, ma sempre in vista di una sempre nuova messa a disposizione. Il reale viene progettato solo e unicamente al fine di costituire un fondo di consistenza (o risorsa) su cui fare affidamento in vista dell’ottenimento di una qualche prestazione, la quale però non giunge mai ad arrestarsi trovando compimento in un’opera, ma viene di fatto a sua volta inquadrata in modo tale da apparire solo in vista di un’ulteriore prestazione. Tale processo fa sì che nulla possa propriamente aver luogo nella prossimità, in modo da costituire un’autentica vicinanza, ma tutto debba invece essere messo in circolazione. Ma la cosa forse più inquietante è un’altra.
In tale suo stanziarsi il dispositivo della tecnica apre lo spazio di un nuovo genere di “prossimità” in cui l’uomo dell’epoca attuale del mondo è chiamato ad abitare. Nel suo attuale soggiornare l’uomo viene chiamato, in misura sempre maggiore, a corrispondere al dispositivo della tecnica nel senso che, nel suo rapportarsi a ciò che si presenta, è già da subito intimato a progettare ovunque e in anticipo, e perciò costantemente, il reale come disponibile a essere approntato all’interno del processo della sua totale messa a disposizione. Nella misura in cui il progettare umano si configura come posto al servizio del calcolo e della messa in circolo del tutto in vista della sua consumazione, l’umanità, nel suo proprio stanziarsi planetario, viene essa stessa messa a disposizione nel quadro del dispositivo unitario di consumazione, ossia diviene, a suo modo, la principale e più preziosa risorsa da impiegare all’interno del circuito in cui consiste tale dispositivo. In tale pretesa totalizzante propria del dispositivo della tecnica planetaria l’uomo è lasciato in balia del circuito della consumazione, entro il cui movimento la sua essenza rischia di dissolversi. La cosa preoccupante è che tale radicale stato di abbandono tende oggi a divenire, sempre più, la principale modalità del suo stesso esistere, quella modalità entro cui diviene predominante il sentimento della privazione del senso. Tale sentimento di privazione del senso costituisce l’elemento propriamente estraniante che «pone tutto ciò che è [uomo compreso] fuori dal suo costitutivo stanziarsi di un tempo»11.
Questa appare essere la forma più radicale dello stato di abbandono in cui versa il nostro attuale abitare presso le cose e gli uomini: il nostro avvertirci abbandonati all’interno di un mondo sempre più improntato al dispositivo della tecnica planetaria e alla messa in circolazione del tutto, un mondo che, malgrado la globalizzazione di cui oggi si parla, appare niente affatto come un tutto, come un che di integro, ma come un insieme di consistenze tenute per così dire insieme grazie alla rapidità e alla funzionalità con cui esse vengono messe in circolazione. Posti dinanzi a questo stato di cose, che oggi sembra minacciare noi tutti nella nostra più propria essenza, ci si può chiedere se tale dislocazione costituisca qualcosa di meramente negativo, a cui abbandonarci passivamente, o se invece possa per noi costituire l’occasione per ripensare ciò in cui consiste la vera prossimità alle cose e al mondo. Apparirebbe certo insensato pretendere di ricusare il mondo della tecnica in cui tutti viviamo. Questo implicherebbe infatti una fondamentale cecità proprio dinanzi all’urgenza del compito che questo stesso mondo pone dinanzi al nostro sguardo. Ma come prestare ascolto a tale urgenza se non accorgendoci innanzitutto di ciò che tende sempre più a venir meno all’interno del dispositivo della tecnica planetaria, e questo al di là della presenza più o meno abbondante dei beni che, grazie a esso, vengono pur messi a disposizione? È forse l’attuale modalità di abitare dell’uomo l’unica veramente possibile? Quali vie è ancora attendibile percorrere per provare, se non altro, a guadare oltre il dispositivo unitario di consumazione che oggi impronta di sé il nostro mondo? Seguendo il filo di queste domande diviene forse possibile fare esperienza di un altro senso dell’abbandono, il quale può incamminarci verso il ritrovamento di una nuova e inaudita prossimità alle cose e quindi alla scoperta di ciò che può lasciar presagire una nuova integrità del mondo.



II.
In quanto semplici fondi di consistenza le cose sembrano oggi rifiutare ogni sostegno alla costituzione di una vera familiarità con il mondo, mentre quest’ultimo rischia di apparire sempre più come un non-mondo, come un che di semplicemente “immondo”. Lì dove appaia necessario porsi in cammino verso una nuova prossimità dell’abitare, l’interrogare umano potrebbe imparare a prendere innanzitutto congedo dalle cose ridotte a semplici fondi di consistenza, non certo per ricusarle, ma piuttosto per abbandonarle al loro destino. Posto che si riesca veramente a divenire capaci di un tale abbandono, dove possiamo rivolgerci per trovare quel nuovo genere di prossimità in cui le cose possano nuovamente trovare riparo e albergare in sé un mondo? Nella misura in cui sono preventivamente inquadrate nel dispositivo della tecnica, le cose, costrette nel circuito della consumazione, non sono lasciate più riposare in se stesse. Se l’uomo intende dunque incamminarsi verso un nuovo radicamento del proprio abitare, deve in primo luogo imparare un nuovo rispetto nei riguardi delle cose, deve cioè nuovamente imparare ad abbandonarsi, o meglio, a rilasciarsi a esse e a quella quiete che le cose stesse in sé albergano e possono ancora offrire a ciascun essere umano. In che modo?
Una possibile via, indicata da Heidegger come particolarmente eminente, è quella di affidarci all’opera d’arte. Quest’ultima viene fatta tradizionalmente rientrare, quale oggetto di studio, nell’ambito dell’estetica, la quale, in quanto disciplina filosofica, tratta dei canoni a partire dai quali può essere giudicata la bellezza in cui appare consistere l’essenza dell’opera d’arte. Nei momento in cui, all’interno del dispositivo della tecnica planetaria, le cose vengono ridotte alla loro semplice funzionalità e il mondo tende così a farsi sempre più immondo, appare in effetti del tutto naturale, al fine di resistere a tale tendenza, affidarsi alla dimensione della bellezza, in cui le cose sembrano offrirsi da sé gratuitamente, sfuggendo cioè al mero calcolo dell’utile. La difficoltà sta nel fatto che noi siamo oggi abituati a un’idea per l’appunto estetica della bellezza, per la quale essa viene a dipendere dal semplice stimolo che essa in qualche modo produce d’impatto sul nostro animo. Seguendo questa china fino alle estreme conseguenze, la bellezza, nelle sue forme più o meno alte, rischia oggi di finire anch’essa costretta entro il dispositivo unitario della consumazione (nel senso ad esempio del consumo o dello scambio di semplici stimolazioni estetiche o di emozioni). La bellezza a cui bisogna imparare ad abbandonarsi ora, nell’istante in cui diviene necessaria una conversione verso una nuova prossimità alle cose, va quindi intesa in maniera diversa. Essa deve per noi costituire un invito ad abbandonarci, al di là di ogni semplice stimolazione, a quella intensità di apparizione delle cose in cui queste ultime riposano in se stesse. In tale loro semplice riposare in se stesse le cose giungono a configurare quella prossimità entro cui l’uomo può nuovamente imparare a sentirsi di casa. A prescindere dall’intensità del nostro vissuto, la bellezza va qui intesa come ciò che concede essere e integrità alle cose. In tal senso la bellezza è un che di sacro. Il termine “sacro” non va però qui inteso, come siamo soliti fare, in opposizione a ciò che è semplicemente profano. Nessuna cosa può essere intesa come profana lì dove riposi raccolta nella bellezza. Per intendere meglio questo termine, si può far riferimento al corrispondente termine tedesco das Helige. «Helig» viene dal sostantivo «Heil» che significa «salvezza», «salute». L’aggettivo «heil» significa «sano e salvo», «indenne», «guarito», «integro». Das Heilige è quindi ciò che dona salvezza nel senso dell’integrità che rende salvi, che guarisce. Potremmo tradurre in italiano questo termine tedesco con «il Salubre»: esso indica quel che è in grado di accogliere e custodire nella sua integrità l’esistenza delle cose e degli uomini che abitano presso di esse, donando così compiutezza e integrità al mondo12. Non è difficile vedere che è in fondo tale dimensione di sacralità o salubrità del mondo a venire innanzitutto devastata all’interno del dispositivo della tecnica planetaria.
Nell’epoca del dominio del dispositivo unitario di consumazione tutto ciò che entra in presenza tende ad apparire già da subito come privato di ogni possibile riparo. Ciò implica in sé il sottrarsi di ogni prossimità alle cose e agli uomini, ovvero di ciò che altrimenti Heidegger chiama semplicemente mondo. Per cominciare a intravedere la dimensione entro cui dobbiamo per così dire saltare, perché le cose e gli esseri umani possano nuovamente trovare riparo in seno a un mondo, possiamo allora domandarci: in che modo, al contrario di quanto accade all’interno del dispositivo della tecnica planetaria, si fa mondo all’interno dell’opera d’arte? Quale genere di prossimità alle cose viene in essa istituita? In che modo la dimensione del Salubre fa breccia e si costituisce all’interno dell’opera d’arte? Nel tentare di rispondere a tale domande ci affideremo all’ascolto di un componimento poetico di Georg Trakl, lasciandoci in questo guidare, anche qui, dalle indicazioni forniteci dal pensiero di Heidegger. Tale poema ci invita a rivolgere lo sguardo verso quella dimensione, non appariscente e invisibile, a partire dalla quale le cose giungono a rifulgere nel loro essere, quella dimensione muovendo dalla quale il nostro sguardo può a sua volta imparare l’amore per ciò che è vicino e che, proprio nella semplicità di tale sua vicinanza, per lo più si sottrae allo sguardo e rimane quindi nascosto e lontano. Il poema s’intitola:

UNA SERA D’INVERNO

Quando alla finestra cade la neve,
Per molti la mensa è apparecchiata,
E la casa è così bene ordinata
Nel lungo scampanio delle sere.

Durante il pellegrinaggio, oscure
Strade portano alcuni fino all’uscio.
L’albero della grazia aureo fiorisce
Sulla terra di umori e di frescure.

Entra fermo – silente – un pellegrino.
Soglia pietrificata dal dolore.
Stagliati nell’unisono chiarore,
Splendono sulla mensa Pane e Vino13.


Come si configura la prossimità dell’abitare umano in questo dettato poetico? In che modo, grazie allo stesso nominare poetico, le cose giungono qui a costituire un mondo? Di che genere è il nominare poetico perché esso possa istituire una genuina prossimità alle cose?
La prima strofa nomina le cose in una stretta vicinaza con l’abitare umano. Neve, finestra, casa, mensa, il risuonare delle campane, tutto questo viene fatto apparire, portato cioè alla presenza, dalla parola poetica. In che modo? Non certo eliminando ogni distanza tra di noi e le cose, come se queste dovessero in qualche modo essere riprodotte qui in mezzo a noi. Le cose nominate vengono “soltanto” evocate nella poesia. L’evocare è qualcosa di diverso dalla chiamata a comparire nella cerchia di ciò che è già presente e disponibile, per metterlo ivi al sicuro, fino a ridurlo a un che di semplicemente abituale (dominabile, controllabile, ecc.). L’evocare chiama sì nella prossimità, ma in una prossimità colma di lontananza. Nell’evocare propriamente poetico le cose appaiono vicine e al contempo lontane, come custodite nella loro lontananza di cose, per così dire, ancora promesse. Ciò che viene promesso (presentato cioè nella sua pura attendibilità) nell’evocare poetico è quella essenziale prossimità entro cui le cose possono giungere a riguardare e a toccare l’uomo nel proprio costitutivo stanziarsi, nel suo abitare sulla terra e sotto il cielo. Nell’evocare che è proprio alla poesia il gioco tra prossimità e lontananza non si annulla fino a ridurre tutto alla piatta uniformità di ciò che appare semplicemente disponibile, ma viene per così dire liberato, fatto pienamente giocare, fino ad abbracciare tutta la vastità dei riferimenti dell’abitare umano. In cosa consiste tale vastità? E quali sono qui i riferimenti dell’abitare dell’uomo, quei riferimenti cioè che costituiscono il luogo del suo soggiornare presso le cose?
A tal proposito ci viene in soccorso un breve passaggio di Heidegger, nel quale si svela un tratto per noi assolutamente inabituale della prossimità, che va qui colto però nella sua estrema semplicità. Nel tentativo di delucidare questo dettato di Trakl, il pensatore scrive:

La neve che cade porta gli uomini sotto il cielo che s’increpuscola entro l’oscurità della notte. Il suono della campana della sera li porta come mortali al cospetto dei divini. La casa e la mensa legano i mortali alla terra. Le cose nominate, in tal modo evocate, raccolgono presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I Quattro sono, entro un’originaria unità, mutuamente affidati gli uni agli altri. Le cose lasciano soggiornare presso di loro la quadrifuga spaziosità (Geviert) dei Quattro. Questo raccogliente lasciar soggiornare è il costitutivo stanziarsi delle cose [nella misura in cui queste costituiscono la nostra intimità al mondo]. Questa unitaria, quadrifuga spaziosità di cielo e terra, mortali e divini, questa spaziosità che trova il suo soggiorno nel costitutivo stanziarsi delle cose, noi la chiamiamo: il mondo. Entro il nominare poetico le cose nominate vengono chiamate e convocate nel loro proprio stanziarsi. Nel loro stanziarsi le cose lasciano flagrare e dispiegare un mondo, in seno al quale ognuna trova soggiorno e tutte sono in tal modo le cose di ogni giorno14.

La spaziosità propria del genuino abitare umano è una spaziosità a quattro voci (questo, tra le altre cose, può voler dire qui «quadrifuga»). Solo nel reciproco richiamarsi, nella mutua risonanza, di queste quattro voci, che sono cielo e terra, mortali e divini, viene a dispiegarsi il mondo quale genuina prossimità che concede alle cose il favore di mostrarsi nel proprio essere. Il termine «quadrifuga spaziosità» non fa altro che nominare in altro modo ciò che abbiamo precedentemente cercato di delineare come sfera del Salubre, quale appunto dimensione che conferisce integrità ad ogni soggiornare (umano e divino). In tale dimensione cielo e terra, mortali e divini si concedono reciprocamente il favore d’essere, sono «mutuamente affidati gli uni agli altri», nella misura in cui l’una, la terra, è tale solo nel suo fiorire verso il cielo, mentre l’altro, il cielo, è tale solo nel suo donarsi alla terra irrorandola «di umori e di frescure», e gli uni, i mortali, appaiono all’altezza del proprio essere, dimostrandosi capaci di sopportare la morte fino a vincerla, solo in quanto rivolti ai divini e al loro vivere immortale, mentre questi ultimi sono glorificati, giungono cioè a rifulgere nel loro proprio essere, quando trovano nei mortali il loro compiacimento, quando cioè questi si mostrano capaci di morire in loro. Le cose si stanziano allora, nel loro proprio essere, solo quando sono in grado di accogliere e lasciar soggiornare in loro il Salubre, lasciando così flagrare – apparire cioè nel suo proprio ardore – la quadrifuga spaziosità del mondo. Solo in seno a tale spaziosità le cose appaiono nel loro vero fulgore come le cose che ci vengono incontro nel nostro vivere di ogni giorno, quando questo sia segnato dall’intimità. Ma tale spaziosità non flagra come tale lì dove gli uomini si limitino, dimentichi della prossimità, a vivere giorno dopo giorno immersi nei loro affari quotidiani. Per questo vi è bisogno di coloro che vigilino affinché la flagranza del mondo, il suo ardente e gratuito donarsi come spaziosità per l’abitare umano, non cada nell’oblio. Questi mortali sono coloro che, nella seconda strofa, vengono nominati semplicemente come «alcuni»:

Durante il pellegrinaggio, oscure
Strade portano alcuni fino all’uscio.
L’albero della grazia aureo fiorisce
Sulla terra di umori e di frescure.


Heidegger scrive a riguardo:

Coloro che sono «in pellegrinaggio» devono guadagnarsi, proprio in quanto pellegrini, una casa e una tavola passando attraverso l’oscuro del loro sentiero; non solo e neppure innanzitutto per se stessi, ma per i molti; poiché questi credono che, per il semplice fatto di essersi installati in case e di sedersi a delle tavole, essi siano riguardati dallo stanziarsi delle cose e pervenuti così all’abitare15.


Ciò che gli uomini tendono a far cadere nell’oblio è proprio la grazia dell’abitare umano, in cui consiste ogni vera prossimità (di terra e cielo, mortali e divini), tendono cioè a dimenticare il gratuito donarsi dell’abitare entro la spaziosità del Salubre. Tale gratuità dell’esistenza è la dimensione a cui pervengono i pellegrini lungo oscuri sentieri, oscuri perché lontani da ogni appariscenza e spesso anche dal conforto degli altri uomini. Tale gratuità, che viene incontro ai pellegrini sull’uscio, viene nominata improvvisamente nei due versi finali della strofa:

L’albero della grazia aureo fiorisce
Sulla terra di umori e di frescure.


Cosa indichi qui il fiorire dell’albero della grazia, che è poi il fiorire di ogni albero che venga lasciato riposare in seno alla dimensione del Salubre, ci viene indicato da un altro brano di Heidegger:


L’albero si radica, vigoroso, nella terra. Esso cresce così fino a schiudersi in fiori che si aprono al favore del cielo. L’ergersi dell’albero viene evocato. Esso attraversa e misura ad un tempo l’ebbrezza della fioritura e la sobrietà della linfa che nutre. La crescita ritenuta della terra e la prodigalità del cielo si rispondono l’una all’altra coappartenendosi [proprio nell’albero, che in sé li alberga e proprio per questo è albero della grazia]. Il dettato poetico nomina l’albero della grazia. Il suo vigoroso fiorire custodisce [e promette] il frutto che si offre immeritato: il Salubre e il suo vigore liberante, che è grazia per i mortali. Nella fioritura d’oro dell’albero regnano [in modo unico ed esemplare] in tutto il loro vigore terra e cielo, i divini e i mortali. La loro unitaria, quadrifuga spaziosità è il mondo16.


Quando il sentimento della gratuità dell’esistenza fa breccia nell’abitare umano, esso illumina di sé ogni cosa, la quale viene, per così dire, strappata via al suo apparire abituale, in cui essa si mostra più soltanto nella dimensione di ciò che è utile all’uomo, per essere trasposta entro una dimensione interamente altra, in seno alla quale la cosa dimora entro quella salubre spaziosità che essa stessa contribuisce, per così dire, a configurare. Le cose e il mondo (inteso come la quadrifuga spaziosità del Salubre, potremmo anche dire: come la salubre prossimità), appaiono allor non più portate a confliggere entro la messa in circolazione del tutto, come accade nel dispositivo della tecnica, ma raccolte nella loro più intensa e reciproca intimità. Allora tutto è grazia. In tale intensa intimità, alla luce della grazia, mondo e cose giungono ad apparire nel loro più fulgido candore. È nella terza strofa che – come ancora fa notare Heidegger – fa irruzione tale intimità, tale esplicita trasfigurazione delle cose alla luce del Salubre. Tale irruzione del Salubre è segnata dall’entrata, quieta nella sua silente fermezza, del pellegrino e dal dolore che pietrifica la soglia:

Entra fermo – silente – un pellegrino.
Soglia pietrificata dal dolore.
Stagliati nell’unisono chiarore,
Splendono sulla mensa Pane e Vino.


Pane e vino, pur rimanendo ciò che di giorno in giorno accompagna l’abitare umano, non sono più qui dei semplici mezzi di sostentamento, non vengono disposti sulla tavola per essere al più presto consumati entro la frenesia di un vivere improntato al dispositivo della tecnica, ma «splendono» (al pari delle offerte portate sull’altare), «stagliati nell’unisono chiarore». L’unisono chiarore è ciò che si genera nel reciproco richiamo di terra e cielo, mortali e divini, entro la salubre e quadrifuga spaziosità del mondo. Il mondo, l’essenziale prossimità alle cose che alberga e custodisce in sé i Quattro, è questo stesso chiarore: è sfera chiara. Inteso in tal modo, esso appare esplicitamente rasserenato, liberato cioè dalla pena del vivere quotidiano. In grazia del rasserenamento del mondo, nel suo dorato splendore (quello stesso splendore dell’albero della grazia che raffigura la pura gratuità dell’esistenza), pane e vino si mettono a loro volta a risplendere. Le due cose, nominate a grandi lettere, rilucono nel loro candore, il quale consiste nella loro intensa intimità con il mondo. Pane e Vino sono infatti, osserva Heidegger, «i frutti del cielo e della terra, offerti dai divini ai mortali»17, essi raccolgono presso di sé i Quattro movendo dalla pura semplicità del loro essere. È questa semplicità a determinare la loro intrinseca poeticità. Le cose evocate dal nominare poetico, Pane e Vino, proprio nella loro somma semplicità e povertà, mostrano, nel loro puro rifulgere, in modo diretto e immediato, il favore del mondo. Per questo esse appaiono qui così intime a esso. La povertà e la semplicità del loro essere consiste proprio nel trovare piena realizzazione solo e unicamente nel fatto di lasciar soggiornare presso di loro la quadrifuga spaziosità del mondo. Di questo, e solo di questo, esse sono, per così dire, contente. Si può qui intuire in che senso, proprio in tale contentezza, esse concedano all’uomo la possibilità di gioire della sua propria intimità con il mondo. Si può forse dire che proprio in questo si fonda ogni vera gioia dell’uomo: nel lasciare le cose riposare in questa loro contentezza, rimanendone a propria volta contenti. In questo consiste la vera gioia (parola in cui risuona il latino iocus, gioco): nel far appunto liberamente giocare tra loro, nel cuore della nostra prossimità alle cose, cielo e terra, mortali e divini, nel gioire cioè della gratuità del mondo.
Ma perché questi due ultimi versi, in cui si annuncia il risplendere delle cose entro l’unisono chiarore del mondo, sono preceduti, anzi quasi introdotti, dai passi del pellegrino che, giunto all’uscio per oscuri sentieri ed entrato, fermo e silente, attraverso la soglia, fa che quest’ultima venga pietrificata dal dolore? Di che genere è questo dolore? A partire da quale esperienza e in che misura il dolore è qui evocato? Perché esso si concreta proprio sulla soglia attraverso la quale la chiarità della quadrifuga spaziosità del mondo fa irruzione nel bel mezzo delle cose?
Con tali domande veniamo ricondotti a quanto esposto nella prima parte dello scritto. Qui abbiamo mostrato come il dominio del dispositivo della tecnica planetaria stia provocando, in modo sempre più inesorabile, una crisi di senso che appare consistere nel venir meno della familiarità con il mondo, ovvero, stando a quanto appena detto, nell’oscuramento della sua chiara sfera, entro cui soltanto alle cose è donata la possibilità di stanziarsi come tali e di fornire in questo modo un fondamento al nostro stesso abitare. L’attuale epoca della tecnica appare segnata da un dissidio tra il dispositivo unitario della consumazione e la grazia del mondo: quanto più l’uno tende ad affermarsi tanto più l’altra tende a sottrarsi. In tale dissidio giunge a costituirsi uno spazio di contesa. Nel ponderare tale dissidio il pensiero non può certo ricusare la tecnica planetaria, né tantomeno rifugiarsi in un qualche ambito sacrale da noi stessi approntato al fine di soddisfare le nostre cosiddette aspirazioni religiose, come se il mostrarsi o il sottrarsi del divino e della sfera di salubrità del mondo potessero dipendere da un nostro semplice atto di volontà. Il pensiero deve piuttosto imparare a insistere in tale dissidio e a sopportare tale spazio di contesa, al fine di rinvenire proprio qui la forza per porre nuovamente in questione la sfera del Salubre e ciò che questa può ancora promettere. Solo in questo modo diviene possibile quella conversione che possa permettere all’uomo, per così dire, di disinvolgersi dal dispositivo in cui la tecnica consiste e dal nulla che lo pervade, per assumerlo nel pensiero, al fine di liberarsi dalla sua essenza puramente negativa e volgere l’istanza di fondo in esso contenuta in direzione di un radicale ripensamento del Salubre e della sua prossimità.
Ma quale essenziale istanza può ancora esservi nello stanziarsi del dispositivo della tecnica planetaria? Può forse da tale stanziarsi provenire un appello che possa ancora volgere l’uomo all’essenziale? Certo, a patto di riuscire a fare esperienza del fenomeno che abbiamo visto caratterizzare lo stato di abbandono in cui versa la nostra epoca, a patto cioè d’imparare a far fronte al fenomeno della privazione del senso, e del conseguente dolore che tale stato di abbandono porta necessariamente con sé. Il dolore a cui stiamo qui facendo riferimento non ha però nulla di semplicemente negativo, sebbene in esso si faccia esperienza, in tutta la sua asprezza, di una decisa sottrazione del senso. Ma il sottrarsi della prossimità del Salubre non costituisce un mero niente. Tale sottrarsi apre un cammino, disegna cioè una “via di fuga” entro la quale vengono per così dire attratti coloro che si avvertono chiamati a entrare nel pellegrinaggio. Il ritrovarsi privi di riparo non implica necessariamente l’abbandonarsi passivamente al dispositivo della tecnica, ma può al contrario significare: mettersi alla ricerca, finalmente in modo esplicito, di quella prossimità che, se un tempo costituiva la dimensione entro cui gli uomini abitavano senza esserne esplicitamente consapevoli, oggi, proprio nell’epoca del suo estremo sottrarsi, può essere guadagnata in un esplicito progetto.
Malgrado nella nostra epoca ogni prossimità alle cose venga devastata o messa fuori gioco, non per questo all’uomo è preclusa la possibilità di avvertire ancora il suo richiamo. Anzi, proprio il fatto, di per sé assolutamente estraniante, che, a fronte della sempre più crescente messa a disposizione del reale, la quale pone sempre più tutto a contatto con tutti, l’uomo stenti a trovare per se stesso e per le cose un autentico riparo, impedendo così a quest’ultime di albergare in sé la spaziosità del Salubre, proprio questo è indice a sua volta del fatto che l’uomo è chiamato a corrispondere a una responsabilità prima d’ora inaudita, la quale ingiunge a quest’ultimo di ripensare in cosa propriamente consista la stessa manifestazione della salubrità del mondo.
Il fatto che l’uomo, esso stesso divenuto semplice risorsa umana, appaia oggi, malgrado tutte le forme di assicurazione messe a disposizione dal dispositivo della tecnica planetaria, abbandonato e senza riparo nel mezzo dell’ente, lungi dal costituire un semplice segno di decadenza, potrebbe un giorno apparire all’uomo di quest’epoca, in maniera sempre più chiara ed evidente, come il puro e semplice segno del suo essere nuovamente esposto, malgrado ogni apparente dominio sull’ente, alle potenze del Salubre: alla vastità del cielo e alla profondità della terra, alla chiamata inesorabile della morte e all’appello silenzioso del dio. Pur nella devastazione, è ancora da queste potenze che, proprio in quanto scardinate dal proprio costitutivo e fugato stanziamento, e quindi abbandonate al semplice disordine, può provenire quel genere di scuotimento che, dislocando a sua volta l’uomo fuori dalla sua tradizionale essenza, lo incammina alla ricerca di un nuovo costitutivo stanziarsi del proprio essere e del proprio abitare.
Da dove può dunque provenire all’uomo la forza per far fronte, nel modo appena delucidato, al dissidio tra lo stanziarsi del dispositivo della tecnica planetaria e la grazia? Il poema di Trakl su questo punto è chiaro: unicamente muovendo dall’esperienza del dolore18. Gli oscuri sentieri di cui parla il poeta sono i sentieri di quei pellegrini che hanno avvertito con dolore il venire meno della prossimità alle cose e della quadrifuga spaziosità di cielo e terra, mortali e divini, e che quindi, dolorosamente, hanno dato inizio al loro pellegrinaggio verso una nuova prossimità. Questo pellegrinaggio è doloroso perché lacerante: esso costringe i pellegrini all’esilio, ad abbandonare e a prendere congedo dall’abituale e consueta prossimità alle cose, in cui pure ha ancora luogo il loro vivere con gli altri uomini, e li costringe a inoltrarsi nell’ignoto, nell’attesa di una nuova prossimità al Salubre. Il dolore lacera, perché fa esperienza dello stato di abbandono in cui versano le cose e il mondo nell’epoca della tecnica planetaria, ma non si lascia per questo andare alla semplice sofferenza e al suo dilaniare. Il dolore, piuttosto, compatta e raccoglie, pur nella lacerazione, gli elementi in dissidio tra loro. Il dolore sopporta il dissidio, la scissione che caratterizza l’attuale epoca del mondo, per disporsi nuovamente a cantare le cose incontro alla quadrifuga spaziosità del Salubre, per lasciarle in essa nuovamente acquietare. Il dolore rende in tal modo mite lo stesso esilio, perché ad esso è promessa una nuova intimità con il mondo. Per questo il pellegrino entra fermo e silente, rappacificato in quella quiete che, proprio nel dolore, trova al contempo il vigore del compiuto raccoglimento. L’uomo si disinvolge allora dalla semplice sofferenza generata dallo stato di abbandono quando impara a rivolgersi al genuino dolore, al dolore capace ancora di generare senso, al dolore che si tiene saldo nel bel mezzo della devastazione e che impara a sopportare l’attesa di una nuova prossimità cominciando innanzitutto ad attendere a essa, avendone cura. L’uomo impara ad attendere a questa nuova prossimità quando gli riesce di abbandonarsi, come qui abbiamo tentato di fare, alla parola del canto o a quella del pensiero essenziale. Nel vigoroso dolore di questo abbandono gli esseri umani potrebbero un giorno trovarsi fratelli e sorelle. È tale affratellamento che potrebbe nuovamente permettere di trasfigurare l’insalubre sentirsi abbandonati nel mezzo del dispositivo della tecnica planetaria nel salubre abbandonarsi alla quadrifuga spaziosità del mondo, in cui il nostro abitare possa trovare una rinnovata quiete. Ma in cosa propriamente consiste tale fratellanza? Qual è il terreno sul quale essa può radicarsi e dare frutti? Ma, prima di tutto, sentiamo noi veramente l’urgenza di ritrovarci fratelli su questo nuovo e, per molti versi, inaudito piano?
Con tali domande veniamo repentinamente chiamati a noi stessi, al nostro costitutivo stanziarci come esseri umani, e al modo in cui il dolore della privazione del senso chiama oggi l’uomo ad abbandonare la sua vecchia essenza per far ritorno alla sua più propria indole. È a tale problema che ora, per concludere, vogliamo rivolgere la nostra attenzione.



III.
All’inizio del presente scritto accennavamo alla necessità di orientare la discussione sul tema dell’abbandono in modo da promuoverne un’intesa di carattere filosofico, la quale doveva a sua volta avviarci verso una comune esperienza di pensiero. Ogni genuina comunanza, prima ancora di essere una comunanza nell’agire, è tale solo se capace di radicarsi innanzitutto in un comune ascolto, ovvero nell’ascolto di un appello che, riguardando ciascuno di noi nel suo proprio essere, sia capace di orientare rettamente l’agire stesso (e anche il pensare è qui inteso come un agire). Abbiamo cercato di mostrare che se oggi, nello stato di abbandono in cui ci costringe il dispositivo della tecnica planetaria, può ancora provenire un appello che, nella sua urgenza, possa veramente accomunare tutti gli esseri umani, esso non può che provenire dalla dimensione del Salubre, nella misura in cui, nel suo estremo sottrarsi, quest’ultimo sembra far cenno, attraendoci a sé, verso una nuova possibile sua intesa. Ma come giunge a noi l’appello insito in tale sottrarsi? Di che genere è questo appello? In che modo esso parla?
La dimensione del Salubre ha sempre parlato all’uomo. Essa ha parlato e parla, però, in modo affatto differente da come all’uomo parlano le cose. Come parlano quest’ultime? Che cosa ci dicono propriamente? A partire dall’ambito del nostro vivere quotidiano, le cose sembrano invitare l’uomo innanzitutto ad abitare presso di esse, a radicarsi nella loro vicinanza, affinché ci si prenda cura di loro e le si faccia così essere quello che sono, le cose di ogni giorno: la campana sembra che ci dica: “fammi risuonare”, la tavola: “apparecchiami”, la casa: “forniscimi di tutto il necessario”. Lì dove, però, il nostro abitare venga determinato unicamente a partire da tale appello, che, come ognuno di noi sa fin troppo bene, tende facilmente a divenire pressante e opprimente, la familiarità che caratterizza il nostro abitare presso le cose tende a divenire mera quotidianità, finisce con lo scadere in routine, entro cui non riusciamo più a trovarci di casa. Venendo in tal modo obliata la dimensione della semplice gratuità dell’essere a favore della funzionalità che le cose assumono entro il nostro vivere d’ogni giorno, la vicinanza di quest’ultime tende inavvertitamente a trasformarsi in mera contingenza, fino a ridursi alla semplice disponibilità di oggetti già pronti a essere immessi entro il circuito della consumazione.
Il Salubre parla invece all’uomo in modo affatto differente. Esso sembra parlare a partire da una lontananza del tutto peculiare, la quale non è però assoluta trascendenza, come se il Salubre appartenesse a una dimensione che nulla ha a che vedere con la nostra vita di ogni giorno. Esso è a suo modo presente nel nostro abitare quotidiano, ma rimane, per così dire, sullo sfondo, in tacito ritraimento, al modo di un orizzonte che domina in maniera non appariscente. Esso parla all’uomo non come le cose, che ingiungono a quest’ultimo, innanzitutto, di aver cura di loro nel corso della vita di ogni giorno, ma al modo di un appello silenzioso, che parla all’uomo in modo estraniante, dal momento che non volge quest’ultimo ad una qualche consueta attività, ma lo richiama unicamente a se stesso e al dovere di dar voce, nel canto o nel pensiero – per limitarci qui agli ambiti toccati nel corso del nostro cammino – a quella dimensione di pura gratuità in cui appunto il Salubre consiste. Il richiamo del Salubre parla al modo del silenzio. Esso appare, per così dire, di verso contrario all’appello proveniente dalle cose, così spesso prodigo di comandi, dal momento che, senza proferir parola, quasi solo tramite un semplice far cenno, trae l’uomo via dal suo commercio quotidiano con il mondo. D’altro canto, sembra che siano le cose stesse, nel loro premere sulla nostra esistenza volgendola così alla premura costitutiva del nostro vivere quotidiano, a costringere, per così dire, il Salubre sullo sfondo, fino al punto di farlo cadere completamente nell’oblio. Ciò non esclude che esse, a loro modo, custodiscano in sé un segreto contratto con il Salubre, che rimane per loro, come abbiamo visto, affatto costitutivo, sempre che non vogliano finire presto consunte entro il circuito della mera consumazione.
Il fatto che le cose, proprio nel loro segreto albergare presso di sé la quadrifuga spaziosità del Salubre, lascino innanzitutto e per lo più quest’ultimo sullo sfondo, come in ritraimento, è ciò che caratterizza lo stato di indigenza in cui costitutivamente versa l’esistenza dell’uomo. L’indigenza del suo abitare consiste nel fatto di non sentirsi mai una volta per tutte di casa tra le cose. In tal senso la sua esistenza è segnata dal dolore, il quale essenzialmente non è altro che il dolore che incammina ogni essere umano, sempre di nuovo, sulla via del ritorno a casa, del ritorno alla quiete di quell’abitare capace di albergare in sé in modo esplicito, ogni volta di nuovo, la quadrifuga spaziosità di terra e cielo, mortali e divini. Tale non sentirsi di casa, questa nostalgia che spinge verso il ritorno a un abitare nuovamente acquietato, è ciò che contraddistingue in particolare l’esistenza di quegli esseri umani che avvertono in tutta la sua asprezza il dissidio che domina tra le cose e la spaziosità del Salubre. Tale dissidio è però al contempo suprema grazia, dal momento che è solo imparando a insistere in esso che vengono concessi agli esseri umani quei cammini che, dispiegandosi tra cielo e terra, aprono, o meglio, lasciano flagrare lo spazio del concreto abitare umano, nel senso qui di quella concretezza che nulla ha a che vedere con la semplice contingenza, ma che è piuttosto il frutto del con-crescere di terra e cielo, mortali e divini, ovvero di quella reciproca concessione d’essere in grazia della quale ciascuno dei Quattro è ciò che è solo nel suo protendersi l’uno verso l’altro, per entro una vera e genuina coalescenza.
Il dissidio tra il dispositivo della tecnica – entro cui le cose, ridotte a meri oggetti di consumo, appaiono ormai definitivamente ridotte al loro solo aspetto funzionale – e la grazia del mondo – che richiama oggi l’uomo, con una voce che sembra a volta quasi ammutolirsi per quanto si è fatta silenziosa, ad una sua nuova futura intesa – appare dunque solo una figura peculiare, potremmo dire particolarmente aspra e acuta, di quel genere di contrastevole scissura che da sempre segna il rapporto tra le cose e la spaziosità del Salubre. È connaturato al Salubre il rimanere in ritraimento e l’essere perciò di primo acchito trascurato dagli esseri umani. Questo avviene appunto non per una mancanza del nostro pensiero, e neppure per un’imposizione violenta, se non addirittura per una presunta malvagità, che potrebbe attribuirsi alle macchinazioni della tecnica planetaria, ma perché il recondersi è un carattere proprio alla salubre spaziosità di terra e cielo, mortali e divini. In fondo, l’avvento del dispositivo della tecnica planetaria ha in sé questo di decisivo: l’aver permesso di accorgersi in modo esplicitamente estraniante del carattere di ritraimento del Salubre. Accorgersi di questo significa imparare a seguire il Salubre nel suo moto di ritraimento, essere per così dire attratti nel silenzio del suo recondersi, nel suo apparente ammutolire all’interno del dispositivo della tecnica planetaria. Ma cosa implica tale seguire? Come corrispondere a tale tacito sottrarsi che spinge l’essere umano nell’estraniamento generato dal costitutivo dissidio tra le cose e la spaziosità del Salubre? Secondo quanto è emerso fino ad ora, potremmo ancora una volta dire così: solo sostenendo questo dissidio, il che ora può essere detto in quest’altro modo: unicamente dando voce al suo richiamo, quello che risuona silenziosamente nell’esperienza del dolore.
L’esperienza del dolore è ciò che può ancora concedere agli esseri umani la possibilità di scoprirsi fratelli e sorelle. Questi possono ritrovarsi uniti proprio nel testimoniare e nel dar quindi voce al dissidio che emerge con particolare forza ed evidenza nel nostro tempo. Il terreno su cui può radicarsi e crescere tale fratellanza è dunque quello della parola. L’essere umano parla veramente al suo fratello o alla sua sorella quando insieme si scoprono a dar voce al dolore, non innanzitutto al proprio, ma a quello che abita nel cuore del dissidio che caratterizza oggi il nostro abitare sulla terra e sotto il cielo. Ma come deve essere qui intesa la parola? Quale è il suo compito, ovvero, cosa significa qui dar voce al dissidio?
Dar voce al dissidio significa far avvertire la sua ingiunzione. Quest’ultima parla nel silenzio e a partire dal silenzio, avvertendo l’uomo del pericolo che consiste nel trascurare il dissidio stesso che sempre incombe sul suo abitare. Tale dissidio ingiunge all’uomo di sostare sulla soglia che, per così dire, separa le cose dalla salubre spaziosità del mondo, non semplicemente per prendere atto o per contemplare il dissidio stesso, al fine di rassegnarvisi o di gioirne nell’attesa di una ricompensa futura in un mondo dell’«al di là», quanto piuttosto per prestare attenzione a ciò che accade e si genera sulla soglia, affinché su di essa l’uomo possa imparare ad attendere al Salubre, restando in attesa della sua irruzione nel quotidiano soggiorno dell’uomo e preparandone al contempo lo stanziarsi. L’in-giunzione propria del dissidio, lungi dal confinare l’uomo nella semplice lacerazione dei due elementi in contrasto tra loro, lo invita piuttosto a con-giungere mondo e cose, mettendo di volta in volta in luce quei tratti che, senza eliminarne il dissidio, anzi sostenendone e evidenziandone il contrasto, fanno apparire lo stagliarsi di quell’«unisono chiarore» entro cui le cose si stagliano a loro volta in quanto salubri. Questi potrebbero essere i tratti secondo cui si compone l’opera della parola, sia essa poetica o del pensiero, o l’opera del disegno, della pittura e di qualsiasi altra arte. Coloro che lavorano a tali opere – e tutti possiamo esservi chiamati, se non altro nella misura in cui, nel semplice parlare l’uno con l’altro, siamo in un modo o nell’altro obbligati, a patto di non voler perdere la nostra umanità, a intonarci all’intima poeticità dell’abitare – tutti coloro, quindi, che si sentono in questo ancora fratelli e sorelle, possono unire le loro voci per ingiungere, nel canto, nel pensiero o nell’arte, a mondo e cose di riunirsi nel fulcro della loro estraniante intimità. La parola umana, dunque, quella in grazia della quale gli esseri umani si riconoscono come fratelli e sorelle (e non solamente come appartenenti ad un’unica specie umana “dotata” di linguaggio), si stanzia propriamente nel dar voce al dissidio, nel corrispondere ad esso; essa è innanzitutto parola in cui s’incardina il senso dell’abitare umano, nella misura in cui esso è chiamato ad appartenere al dissidio tra cose e quadrifuga spaziosità del Salubre. Ma siamo noi capaci di corrispondere a tale parola?
Apparteniamo al dissidio? Avvertiamo la sua ingiunzione? Abitiamo noi quella quiete in cui soltanto può divenire udibile la voce del Salubre? O non siamo piuttosto assordati dal frastuono di parole sempre più impoetiche? All’interno del dispositivo della tecnica planetaria la quadrifuga spaziosità del Salubre sembra oggi tacere di un silenzio del tutto peculiare. Sebbene all’interno di tale dispositivo, in quanto luogo dell’odierno abitare dell’uomo sulla terra e sotto il cielo, deve pur poter risuonare il silenzioso richiamo del Salubre, quest’ultimo sembra farsi sempre meno udibile. Nel silenzio in cui è ancora oggi custodito il Salubre quel che sembra essersi quasi ammutolito è il richiamo stesso del dissidio. Tutto infatti, nel dispositivo, sembra in apparenza funzionare per il meglio, ogni cosa appare disponibile a quel genere di uso in cui viene assorbito, in misura sempre crescente, il nostro abitare sempre più improntato alla tecnica planetaria. Il mondo stesso, nell’insieme dei suoi riferimenti, sembra essersi ridotto a un che di dominabile e controllabile all’interno di una rete di scambi, relazioni, informazioni, e via dicendo, all’interno della quale mondo e cose, lungi dall’apparire nella loro estraniante intimità, nel loro costituitivo contrasto da cui solo può sorgere un’autentica armonia, appaiono solo più confondersi e appiattirsi all’interno del circuito della consumazione. Appare sempre più indistinguibile il tratto che scinde tra loro mondo e cose e che impedisce al primo di lasciarsi assorbire dal quotidiano affaccendarsi con quanto ci capita d’intorno. Diviene così difficile avvertire quella nostalgia di mondo capace di incamminarci verso una modalità del soggiorno umano più consona alla poeticità dell’abitare, una modalità che non può evidentemente essere una semplice riedizione nostalgica di qualche antico modo di abitare, ma che deve poter scaturire da un nuovo, libero progetto. Ma come può scaturire un nuovo progetto di mondo lì dove l’uomo, malgrado la devastazione a cui sembra andare incontro la quadrifuga spaziosità di terra e cielo, mortali e divini, sembra farsi sempre più sordo al richiamo del dolore? La genuina prossimità in cui consiste il nostro abitare sembra venire meno nella generale indifferenza. Restiamo semplicemente ammutoliti dinanzi a tale sottrarsi. Versiamo in uno stato di trascuratezza tale, nei riguardi del Salubre, da finire addirittura con il trascurare e quindi dimenticare questa stessa trascuratezza. Il tutto accade come se nulla veramente accadesse. E anche lì dove un nuovo bisogno dovesse sorgere a riguardo, dove sono i luoghi in cui poter accogliere e rendere possibile una comune esperienza di pensiero entro cui dar voce a quel bisogno? Dove sono i luoghi di asilo entro cui coltivare e far crescere il germe per un futuro progetto di mondo improntato alla gratuità del Salubre? Il dispositivo della tecnica planetaria non sembra concedere tali spazi. Riusciremo mai un giorno a stupirci di tutto questo e a provarne spavento? Il silenzio in cui versa la nostra epoca non si fa tanto più assordante quanto più l’uomo sembra volgere le spalle a esso e al dolore che vi risuona? Nel venir meno del dolore non viene meno anche la parola quale capacità di dar voce al dissidio? Come potrà allora l’uomo parlare ancora al suo fratello?
Siamo noi ancora capaci di avvertire la povertà essenziale che segna in modo costitutivo il nostro abitare sulla terra? Avvertiamo l’urgenza, la stretta, a partire dalla quale diviene udibile il richiamo della quadrifuga spaziosità del Salubre? Oggi immense sofferenze tormentano milioni di uomini sul pianeta. Vi è forse, però, un dolore più radicale di quello inflitto dalla sofferenza, ovvero quello che consiste nel non riuscire più a dar voce a quel dolore che, lasciato a se stesso, nascostamente soffoca le nostre esistenze. Ciò che ci stringe, quasi fino al punto di soffocarci, è forse proprio il fatto di non riuscire più a dar voce al nostro bisogno di acquietamento entro la sfera del Salubre. È forse proprio questo che, nel modo più radicale, caratterizza lo stato di abbandono in cui oggi viviamo. Questa nostra condizione è portata magnificamente alla parola in tre versi di Friedrich Hölderlin, i quali appunto danno voce, in modo particolarmente incisivo, al dissidio che caratterizza il nostro tempo. Se ascoltati non soltanto in ciò che essi dicono, ma soprattutto a partire da ciò che lasciano taciuto, essi possono far sorgere in noi la forza di sostenere il cammino che, passando per la desolazione di luoghi divenuti a noi stranieri, può ancora promettere un rapporto con la parola tale da renderci capaci di nominare in modo nuovo il Salubre.

Essi suonano in questo modo:
Ein Zeichen sind wir, deutungslos
Schmerzlos sind wir und haben fast
Die Sprache in der Fremde verloren.


(Un segno noi siamo, slegato dal senso,
Slegati dal dolore restiamo e quasi abbiamo
La parola in luogo straniero a sé lasciata.)


La nostra umanità sembra oggi arretrare dinanzi alla chiamata del Salubre e tende quindi a slegarsi dal senso a cui esso incessantemente richiama. In tale arretramento, che è di primo acchito un vero e proprio volgere le spalle alla sfera del Salubre, continuiamo però a far segno verso ciò che, dietro a noi, ancora esercita un appello. Come potremmo infatti annullare in noi completamente il bisogno del senso? Per questo restiamo in ogni caso un segno. Pur rimanendo per molti versi senza parole, il nostro stesso esistere costituisce un’indicazione, la quale, non facendo cenno in direzione di alcun senso dato, invita ad arretrare verso quella dimensione entro cui la parola stessa, lungi dall’ammutolirsi semplicemente, si fa vigile attesa, silenzioso presentimento. È forse proprio rispetto a tale presentimento, capace di pensare in anticipo ciò che viene, che gli esseri umani potranno nuovamente imparare a sentirsi fratelli e sorelle e a raggiungere così la loro indole più propria.








NOTE
1 Il senso di tale nostro affidarci al pensiero fenomenologico di Martin Heidegger diverrà sempre più chiaro nel corso dello scritto. Per quanto riguarda l’ambito della filosofia, tale pensiero costituisce forse, nella nostra epoca, il tentativo più riuscito di far fronte al fenomeno che qui stiamo provando a chiamare “privazione di senso” e che trova la sua origine in quel fenomeno più ampio che il pensatore tedesco chiama Seinsverlassenheit, termine normalmente tradotto con «abbanddono dell’essere». Il qui presente scritto si muove interamente nell’orizzonte delineato dall’opera di questo pensatore. Che tale opera venga oggi per lo più ancora trascurata, malgrado i pubblici riconoscimenti dell’importanza che essa ricopre nel cosiddetto “panorama del pensiero contemporaneo”, è uno dei segni, forse non così evidente, ma non per questo meno preoccupante, dello stato di abbandono in cui versa il nostro tempo. Ad aggravare tale stato di “trascuratezza” è di recente intervenuta una polemica, apparsa sui quotidiani e sulle riviste culturali di molti paesi, volta a denigrare l’opera e la persona di Heidegger con l’accusa di antisemitismo. Tentativi volti a mostrare l’infondatezza di tale accusa sono già stati compiuti, in modalità differenti, da due esperti del pensiero heideggeriano, François Fédier e F.W. von Hermann, di cui in Italia sono in procinto di pubblicazione due volumi, editi entrambi da Morcelliana. Riguardo alle accuse di nazismo che sono state ripetutamente rivolte a questo pensatore nel corso degli ultimi decenni, essenziale è la consultazione del “Libro bianco. Heidegger e il nazismo sulla stampa italiana”, a cura della redazione del sito www.eudia.org.^
2 M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge, Klostermann, 1994, p. 3; traduzione italiana in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1991, p. 109.^
3 Ibidem.^
4 Ibidem.^
5 Ibidem. In tale passo decisivo la traduzione italiana è stata modificata. Per quanto riguarda la traduzione di Wesen con «costitutivo stanziarsi» si veda l’importante lavoro di G. Zaccaria: L’inizio greco del pensiero, Milano, Marinotti, 1999, in particolare p. 185 e ss.. Anche in seguito, lì dove nel testo verranno proposte le traduzioni di alcune fondamentali dizioni guida del pensiero di Heidegger, si prenderà a riferimento il lavoro traduttivo compiuto da questo interprete nel corso dell’ultimo decennio (si veda in particolare: Dasein: Da-sein. Tradurre la parola del pensiero, Marinotti, 2007).^
6 Bremer und Freiburger Vorträge, op. cit., p. 24. Gli inserti tra parentesi quadre sono qui, come in seguito, delle nostre aggiunte esplicative volte a chiarificare il testo.^
7 Ivi, p. 3.^
8 Ivi, p. 25.^
9 Questa è la traduzione proposta da F. Fédier in Regarder voir, Les belles lettres / Archimbaud, 1995, p. 207.^
10 Ibidem.^
11 Bremer und Freiburger Vorträge, op. cit., p. 4.^
12 La traduzione di das Heilge con «il Salubre» è stata per la prima volta proposta e motivata da G. Zaccaria in Hölderlin e il tempo di povertà, Ibis, 2000.^
13 Traduzione di G. Zaccaria in: G. Trakl – M. Heidegger, Il canto dell’esule – La parola nella poesia, Milano, Marinotti, 2003, p. 63.^
14 Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Günther Neske, 1997, p. 22.^
15 Ivi, p. 23.^
16 Ibidem.^
17 Ivi, p. 28.^
18 Come appare chiaramente a partire dalla recente pubblicazione dei manoscritti lasciati intenzionalmente inediti da Heidegger – e in particolare dal volume redatto negli anni 1941-1942 e apparso con il titolo Das Ereignis solo nel 2009 – l’intonazione di fondo (Grundstimmung) del dolore è divenuta, nel corso degli anni ’40, il cuore irradiante della sua interrogazione filosofica, nella misura in cui è innanzitutto in tale intonazione, più ancora che in quella dell’angoscia, che egli vede radicarsi ogni genuina intesa d’essere. Le analisi che seguono, partendo da quelle svolte da Heidegger, tentano a loro modo di intonarsi a tale cuore irradiante. Riguardo al peso che l’esperienza del dolore assume col tempo all’interno del Denkweg, si può consultare con profitto la voce Douleur redatta da Philippe Arjakovsky nell’importante Dictionnnaire Martin Hedegger edito nel 2013 da Les Éditions du Cerf, Parigi.^
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