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L'eugenetica
di Vincenzo Pinto
Il volumetto di Francesco Cassata, confezionato dalla collana “Vele” di Einaudi, è un’analisi molto approfondita e criticamente fondata sull’uso pubblico dell’eugenetica. Cassata è un giovane storico, attualmente ricercatore all’Università di Genova, che si è cimentato nel corso degli anni sul rapporto fra scienza e politica nel corso del Novecento. Dopo gli esordi dedicati alla figura di Evola, Cassata ha progressivamente abbandonato gli studi politici più tradizionali (nella tematica e nell’approccio) per occuparsi di storia dell’eugenetica e delle sue figure più o meno note: da Nicola Pende a Corrado Gini sino ad Adriano Buzzati-Traverso. L’originalità del tema (quantomeno in Italia), unita a una visione storicizzante dell’eugenetica (ancorché – va detto – politicamente un po’ troppo schierata a sinistra), ha permesso all’A. di urbanizzare uno dei capisaldi della cultura di destra nel corso del Novecento (il problema della natalità) all’interno di una visione progressista e umanistica.
Come l’A. stesso esplicita nell’introduzione del suo volumetto, si tratta di ragionare sull’uso pubblico del concetto (tropi, contraddizioni, funzioni) per epurarlo dagli abusi politici strumentali e per collocarlo in una prospettiva storica. L’eugenetica, che possiamo definire come una disciplina scientifica volta al miglioramento della specie umana, è andata incontro a tre momenti “pubblici”: la sua nazificazione e la banalizzazione del nazismo; il “processo ai medici” di Norimberga nel secondo dopoguerra e lo spartiacque tra eugenetica cattiva e genetica nuova (fine anni Sessanta); l’inadeguatezza del concetto di “ritorno all’eugenetica” o di “nuova eugenetica” nelle analisi dello sviluppo della genetica molecolare.
L’A. esplicita chiaramente le sue convinzioni di fondo: l’eugenetica non è un’aberrazione storica, ma un impulso costante della medicina contemporanea; l’uso del concetto di eugenetica proietta nel dibattito pubblico i nostri orientamenti, i nostri obiettivi, le nostre paure.
Il primo capitolo intende “depurare” l’eugenetica dalla sua assolutizzazione e banalizzazione legate al progetto nazista. L’eugenetica non è né una pseudoscienza, né uno strumento degli antisemiti, ma è una disciplina scientifica sorta in un particolare contesto storico, che va intesa solo in base alle aspettative dei suoi padri e va declinata in base agli usi che se ne possono fare. Un caso emblematico è rappresentato dall’Istituto imperiale tedesco per l’antropologia, l’eugenetica e la genetica umana, sorto durante la Repubblica di Weimar con intenzioni umanistiche e poi nazificato in seguito per la sterilizzazione coercitiva dei “diversi”. L’A. si sofferma poi sul caso italiano e sull’uso dell’eugenetica per elaborare il mito del “bravo italiano” o per creare una sorta di via “latina” all’eugenetica tramite la figura controversa di Nicola Pende.
Il secondo capitolo tenta di superare il ricorso all’analogia nazificante per dimostrare la ridefinizione semantica del concetto avvenuta nel secondo dopoguerra. Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta si assiste alla progressiva medicalizzazione della genetica e all’insorgenza dei movimenti dei diritti civili. L’A. cita il caso paradossale del PKU (fenilchetonuria) o la prevenzione della talassemia, che assumono la funzione simbolica di declinare l’eugenetica secondo il modello della medicina preventiva. Non diverso è il caso della consulenza genetica, sorta alla fine degli anni Cinquanta in un’ottica conservatrice in seno al Dight Institute di Sheldon Reed e poi divenuta, con l’introduzione dell’amniocentesi e la diagnostica prenatale, uno strumento di lotta femminista in mano al seminario di Melissa Richter di New York.
Il terzo capitolo si sposta dagli usi alla “eliminazione” lessicale. L’eugenetica è diventata tabù negli anni Settanta a seguito dei dibattiti sull’introduzione delle tecniche del DNA, del progetto genoma umano, nonché degli sviluppi della medicina riproduttiva, della diagnostica genetica e dell’insorgenza di giovani studiosi sensibili all’uso pubblico e sociale della scienza. L’uso pubblico del concetto di eugenetica è andato incontro a tre fasi: assolutizzazione e banalizzazione, criminalizzazione del presente, inintelligibilità del futuro. L’A. cita due importanti sentenze della Corte Suprema americana: la prima avalla (Bell vs. Buck, 1927) costituzionalmente la sterilizzazione forzata, la seconda (Myriad, 2013) pone un freno al processo di privatizzazione del genoma umano e salvaguarda la ricerca scientifica pura e la libertà di pensiero. Tutto questo conduce al cosiddetto “principio di non direttività”, volto a non criminalizzare tout court l’eugenetica ma i suoi usi distorti, e al suo superamento in direzione di una corrente psicosociale, che non si limiti a collaborare con le associazioni per i disabili, ma inauguri nuove prospettive di studi dei differenti atteggiamenti socioculturali.
L’auspicio finale dell’A. è che vi sia una maggiore integrazione tra riflessione bioetica e storia della biologia e della medicina, da una parte, e che la storiografia possa far luce sull’ambiguità semantica attuale del termine eugenetica, dall’altra. In altri termini, sono in ballo una visione “forte” del termine (eugenetica come progetto di miglioramento dei caratteri genetici di una popolazione) e una “debole” (pratiche selettive della medicina genetica contemporanea, basate sul rispetto dell’etica medica e dell’autonomia riproduttiva dell’individuo).
Il tema dell’eugenetica è tuttora attuale e, considerando i problemi legati all’ambiente e alla sovrappopolazione, sarà probabilmente in cima all’agenda politica dei prossimi decenni. La visione “debole” offerta da Cassata (forse ripresa dal pensiero altrettanto debole di Vattimo) ci sembra tuttavia essere intrinsecamente “debole” (se ci è permesso l’abuso di questo aggettivo). È pensabile, a livello globale, un’eugenetica umanistica capace di ragionare puramente a livello di etica individuale? Se anche nel c.d. mondo civile occidentale, gli individui in quanto tali faticano a veder riconosciuta una visione laica della scienza che non degeneri nell’indifferenza o nell’abuso della “libertà”, è pensabile che culture comunitarie saldamente più tradizionali come quelle orientali o quelle islamiche sappiano e possano accettare questa visione “debole”?
L’eugenetica è una cartina al tornasole del rapporto fra l’uomo e la propria natura. In altre parole, l’eugenetica tenta di modificare il patrimonio genetico ereditario di ogni individuo, con l’obiettivo (passato) di eliminare i “tarati” oppure (oggigiorno) di eliminare alcune anomalie. L’auspicio etico-politico di Cassata non sembra considerare a fondo quali sono le forze realmente in gioco nel tema dell’identità individuale e collettiva, che non sono solo di natura biofisica ma anche – e diremmo – soprattutto culturale e spirituale. A meno che non si voglia ridurre lo spirito a qualcosa di puramente meccanico e fisiologico, tradendo le migliori tradizioni religiose e filosofiche del passato. In tal caso, e solo in tal caso, è cosa buona e giusta che la natura umana non abbia un’esistenza ancora prolungata sul pianeta terra.
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