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Nazione culturale, lingua e identità italiana
di Giuseppe Galasso
I.
Che l’Italia abbia costituito una “nazione culturale”, non legata alla formazione antecedente o simultanea di strutture politiche equivalenti sia a questa sua natura culturale che alle contemporanee esperienze di altri grandi popoli e paesi europei, è tesi non solo ben nota, ma anche non recente.
Al momento dell’unificazione politica nel 1859-1861 risale l’ancor più noto detto, attribuito per tradizione a Massimo d’Azeglio, che, fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Un detto del quale abbiamo più volte posto in luce la manifesta infondatezza. Gli italiani – abbiamo notato – esistevano da secoli, e, parlandone, più o meno tutti intendevano, a un bell’incirca, di che cosa si parlasse; era l’Italia che, invece, bisognava fare: l’Italia come moderno paese politicamente unito, sulla falsariga dei grandi popoli e paesi europei che si assumevano, per questo verso, come esemplari o canonici. Mettere in dubbio un tale punto e ritenere che fossero ancora da fare gli italiani non significava, peraltro, negare che gli italiani fossero una “nazione culturale”. Significava, piuttosto, come appare più logico, credere che essi si dovessero trasformare da “nazione culturale” in “nazione politica”, calandosi, così, nello stesso stampo storico in cui apparivano formati e definiti gli altri popoli europei di maggiore prestigio: una nazionalizzazione politica, un political national building (per dirlo in termini di grande moda alla fine del secolo XX), che non annullasse, ma promovesse a un più alto livello e protagonismo quella “nazione culturale”.
Altrettanto evidente è che nel detto di cui parliamo sia stato implicito l’affermazione, o, comunque, un riconoscimento, che l’unificazione politica del paese non fosse stata dovuta a una maturazione, a un moto spontaneo e a una effettiva volontà degli italiani nella loro generalità. Si sa che per Rousseau la “volontà generale” non è necessariamente la volontà della maggioranza, perché ben la poteva rappresentare una minoranza, sul piano numerico, che, però, era la verace interprete e propugnatrice di quel che la volontà generale dovesse essere dal punto di vista degli interessi generali e, in specie, della logica, per così dire, che della stessa volontà generale dev’essere propria. Altrettanto si poteva ben dire del processo storico e politico che aveva portato all’unificazione italiana, opera di minoranze che avevano realizzato, esse, la spinta nazionale che soprattutto a un paese come l’Italia di allora i tempi imponevano, determinando così il compimento di quella maturazione nazionale che fra gli italiani non si era compiuta, forzandone i modi e accelerandone i tempi.
Il Risorgimento e l’unità opera, dunque, e prevaricazione di minoranze che ne avevano imposto la realizzazione a un popolo ignaro, ancor più che riluttante, dei valori in nome dei quali Risorgimento e unità erano stati promossi e attuati. Questa visione delle cose italiane per quanto riguarda il compimento dell’unità nazionale era stata, in origine, la rivendicazione di un grande merito che quelle minoranze si erano acquisito rispetto al loro popolo e rispetto alla storia dei loro tempi. Basti ricordare l’Omodeo, certamente uno dei maggiori più convinti e autorevoli storici in questa materia, il cui parere al riguardo è di particolare interesse perché, conforme alla felicità e profondità del suo geschichtliche Ansicht, del suo sguardo storico, enunciava e scioglieva un problema non solo storiografico (coinvolge, infatti, svariate questioni attinenti, se si vuole, a sociologia, antropologia culturale, politologia).
Nella “grande guerra” del 1915-1918, egli scriveva, molti in Italia «si dolevano che il contadino fatto soldato non sentisse la guerra nazionale!»; e «disperavano per questa interpretazione!»; e «Dio sa quante eresie di pedagogia popolare si mormoravano!», senza scorgerne il «rimedio semplicissimo». E, cioè, che «chi sentiva la nazione operasse, presupponendo presente questo spirito e questa educazione nazionale», e «che questo spirito fosse in lui stesso». Il che aveva per effetto che nel soldato, come per una interna illuminazione derivante dalla percezione di un tale operare, «si rivelava la nazione». Orbene, per l’appunto «questa via seguirono con grande fede gli uomini del nostro Risorgimento. Operarono essi pel popolo». Si adattarono ad esser loro «la nazione, come i settemila Israeliti, che ai tempi d’Elia non avevano piegato il ginocchio a Baal, costituivano il vero Israele. Ma, e qui è il loro grande merito, credettero nel popolo e nella nazione. Non si chiusero nell’albagia oligarchica dei fabbricatori di storia ex professo: dell’educazione del popolo ebbero l’ossessione e il peso di responsabilità» (cfr. A. Omodeo. Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi 1951, pag. 464).
L’elevatezza del discorso è evidente, anche se può sembrare ispirata a una retorica letterariamente atteggiata (e forse proprio a pagine dell’Omodeo come questa pensava Gramsci quando nei Quaderni dal carcere scriveva che «il gruppo Croce-Omodeo e C. sta santificando untuosamente – l’untuosità è specialmente dell’Omodeo – il periodo liberale»: cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, 4 voll., qui vol. III, p. 1983). Non meno importante è che Omodeo abbia scritto queste cose a proposito del Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti, apparso nel 1926 (Edizioni del “Baretti”, Torino), ossia di un libro nel quale la tesi per cui «il Risorgimento è stato azione di pochi» è espressa con maggiore slancio e passione ideale. e morale. Un libro sul quale, in quanto opera storiografica, il giudizio di Omodeo era particolarmente severo, così come per tutta quella che egli definiva come la «storiografia da giornalisti». Ma ciò non comportava affatto, da parte sua, sul Risorgimento, un giudizio positivo senza alcuna riserva. «Se l’opera – scriveva – non riuscì completa, si fu perché un popolo non s’improvvisa in cinquant’anni, si devon formare le tradizioni secolari. La nazione italiana era completamente nuova». Gli uomini del Risorgimento «si limitarono in quadri entro cui potesse innestarsi il popolo e la nazione. Si limitarono con un’abnegazione che ha del religioso», e «sopra tutti colui che passa per il più spregiudicato, il Cavour». D’onde la deduzione che, «in questo, alla loro tradizione e al loro spirito bisogna tenere ben fermo». Alla fine, faceva osservare Omodeo, il Risorgimento era stato così positivo che l’Italia nata con esso aveva «superato la prova d’una guerra mondiale». Egli vedeva bene «lo strozzamento di circolazione politica e la difettosa formazione della classe dirigente, di cui abbiamo sofferto e soffriamo», a conferma di quanto poco il suo discorso fosse una semplice e trionfalistica apologia o agiografia come gli si è fin troppo spesso imputato, e tanto meno quella «untuosa» esaltazione del Risorgimento, di cui parlava Gramsci. Ma riteneva che ciò non deve far dimenticare la sostanziale positiva dell’opera del Risorgimento.
Alle valutazioni di Omodeo non si è tenuto affatto fermo, e col tempo la dimenticanza di quella positività è andata gradualmente prevalendo. Molto accadde in tal senso già ai tempi del fascismo, sia per la critica che alla “Italietta” prefascista veniva mossa da parte nazional-fascista, dalla quale si rivendicava una finalmente piena partecipazione popolare alla vita dello Stato, sia per la critica che da parte antifascista veniva mossa a quella stessa Italia in quanto mancata espressione e rappresentatività dell’intera nazione e ristretta agli uomini e alle classi, alle quali si dovevano, si, il Risorgimento e l’unità, ma come impresa realizzata nel loro esclusivo interesse di classe e in maniere sostanzialmente oligarchiche. Fu, però, solo dopo la seconda guerra mondiale che la critica al Risorgimento e all’unità dilagò. Nel migliore dei casi si parlò di un’artificiosa e coatta imposizione di minoranze colte, ma lontane dalla realtà e dal concreto sentire e volere delle popolazioni italiane. Nei casi peggiori si parlò di “conquista regia”, “conquista piemontese”, che aveva il centro di gravitazione logico-politica non già nei valori nazionali italiani, bensì nella secolare, sedimentata volontà di espansione territoriale della dinastia sabauda, alla quale si erano legati gli interessi delle classi dominanti nell’Italia del Risorgimento e dell’unità.
Appartiene ai tanti paradossi della complessa vicenda italiana che la tesi della “conquista regia” nascesse già all’interno di varie tradizioni che, come nel caso di quelle mazziniane e repubblicane o di quelle variamente democratiche e liberali, del Risorgimento e dell’unità erano state spesso le antesignane. Naturalmente, la prosecuzione o lo sviluppo di tali tesi nel senso negativo che si è fatto sempre più netto e drastico nel corso del secolo XX, prescinde totalmente dai valori sui quali si erano fondate le critiche di matrice risorgimentale, o li stravolge in tutt’altra direzione, nazionalistica o illiberale o di altro tipo. Ancora più forti sono gli stravolgimenti nel caso delle forze e tradizioni che del Risorgimento non erano state protagoniste ed erano maturate solo a unità avviata e consolidata, come nel caso di socialisti e comunisti, di una gran parte del cattolicesimo politico. Infine, nei localismi e regionalismi largamente fioriti alla fine del secolo XX anche la tesi della “nazione culturale” è stata posta in questione, e ha trovato uno dei suoi principali cavalli di battaglia nell’asserita ignoranza dell’italiano come lingua non solo dei ceti popolari ma anche della vita quotidiana e familiare, come lingua corrente della comunicazione sociale a tutti i livelli, nei più piccoli e nei più grandi centri abitati. In ultimo si è giunti per questa via ad attenuare fortemente anche il senso assai forte che per tradizione si dava all’idea della “nazione culturale”. L’unificazione non appariva come una forzatura e una violenza soltanto sul piano politico, economico, sociale, bensì anche sul piano culturale. L’italianizzazione politica era diventata anche una rottura o emarginazione delle culture regionali proprie delle varie parti d’Italia, spente nella loro vitalità o ridotte a semplice elemento folcloristico.


II.
Proprio su quest’ultimo punto è stata fatta valere da tempo l’osservazione che storia, tradizioni, prassi linguistiche e culturali regionali ebbero proprio all’indomani dell’unificazione una periodo di grande fioritura. L’esaltazione dei valori nazionali e del rilievo eccezionale dell’unificazione nella storia d’Italia si accompagnava a questa fioritura regionale con l’espressa o inespressa convinzione che nessuna contraddizione potesse esservi fra il piano regionale e quello nazionale, e che, anzi, per la particolarità e specificità della storia italiana, il quadro nazionale fornisse anche storicamente il contesto non solo più pertinente, ma anche indispensabile delle vicende regionali. E ciò non solo nel campo linguistico e culturale, bensì in tutto il più vasto ambito della vita politica e sociale. Si sentiva che, per quante limitazioni o eccezioni si volessero o si potessero fare, restava pur sempre vero che le singole vicende regionali si legavano sempre incomparabilmente meglio e di più alle vicende delle altre regioni e a quelle generali della penisola che non alle vicende di qualsiasi altro paese esterno alla stessa penisola. Le eccezioni, in quanto vi si potevano effettivamente notare, riguardavano in realtà frange marginali delle regioni di confine, nelle quali intersezioni e interferenze di popoli e di culture possono aver particolare rilievo.
Nella spontaneità di questo sentire emergeva, in effetti, una intuizione di profondo valore storico, della quale il posteriore e sopra accennato declino dei valori nazionali non può valere a disperdere la grande e irrinunciabile fondatezza. È sulla base di una tale fondatezza che sono maturate le idee storiografiche – della storia nazionale italiana come storia multinazionale, - della nazionalità italiana, così come di ogni altra, quale work in progress attraverso i secoli, - del sostanziale parallelismo della storia nazionale italiana con quella di tutti gli altri paesi europei, - della necessità di non confondere la storia delle nazioni con quella del rispettivo Stato nazionale, - dello Stato nazionale come forma e fase soltanto recente (poco più di due secoli) della storia delle nazioni, - della profonda trasformazione e innovazione nell’idea stessa di nazione in parallelo (cronologico e sostanziale) con lo sviluppo dello Stato nazionale - e di varii altri elementi di ordine generale e comune nelle vicende dei popoli europei.
Si tratta di elementi di grande rilievo, che assumono ancora maggiore importanza, se si considera la lunga fase di revisionismo critico e negativo dell’idea di nazione che, sotto l’impulso delle drammatiche vicende dei movimenti e delle lotte e conflitti nazionali nel secolo XIX e XX, si è registrato in Europa, e in particolare dopo la seconda guerra mondiale. Un revisionismo – si può ben dire – volto a mettere nella luce dovuta le tante emergenze problematiche e critiche di quelle vicende e i loro infausti e sofferti esiti, ma che fin troppo spesso ha portato a gettare via, con l’acqua sporca di questo lavacro, anche la parte viva e vitale di una idea e di un movimento storico, come quello delle nazionalità, che resta fra le maggiori creazioni della civiltà politica europea, e che ha dimostrato una straordinaria capacità di diffusione e di sviluppo anche al di fuori dell’ambito europeo.
Se dagli elementi che abbiamo indicato si prescinde, le storie nazionali non solo vengono a mancare dell’indispensabile contesto in cui in Europa si sono sviluppate, ma sono alterate e fraintese nel loro senso e nel loro effettivo svolgimento. Ancor più importante è, però, che da quanto si è detto derivi intrinsecamente la assoluta inopportunità, per non dire impossibilità, di pensare a “modelli” di storia nazionale, alla cui stregua rappresentare e valutare le singole storie nazionali. Criterio che va riportato non soltanto al piano degli svolgimenti politici o istituzionali, sociali, bensì a tutto l’insieme degli aspetti e delle forme del quadro nazionale.
La questione del “modello” implicava, in pratica, che la storia d’Italia, per non parlare di quella degli altri paesi europei, veniva riportata nella comparazione e nella valutazione, per quanto in particolare riguardava la struttura politica e l’organizzazione del potere, al caso della Francia. Per di più, il modello francese veniva, a sua volta, contrapposto al caso dell’Inghilterra, considerato altrettanto classico e canonico. Si delineavano, così, per questo verso, nel firmamento della storia d’Europa, due stelle fisse, intorno alle quali venivano fatti ruotare, in varie orbite, gli altri paesi, soprattutto dell’Europa occidentale.
Sempre più sottolineato come esemplare, nel corso specialmente del secolo XIX, il modello inglese appariva superiore a quello francese, che pure era fatto valere sia nella sua configurazione monarchico-assolutistica pre-rivoluzionaria, sia nel suo posteriore atteggiarsi di Stato fortemente centralizzato, sviluppatosi dopo la “grande Rivoluzione” del 1789 nella forma di una “democrazia latina”, rimasta a lungo di forte radicamento. E sarebbe una ironia eccessiva, ma non senza fondamento affermare che si venne quasi determinando nei paesi europei come un rincrescimento o un vero e proprio complesso perché la loro rispettiva storia non si era svolta né sul binario francese, né su quello inglese, ed era stata, invece, puramente e semplicemente, per l’appunto, soltanto la loro storia. In Francia, però, non era esigua la voce di coloro che lamentavano i tratti ritenuti deteriori della democrazia latina nel confronto con quella anglo-sassone, e tanto più in quanto era stato proprio al modello inglese che avevano guardato i fautori dell’instaurazione di un regime di libertà nella Francia (così come nell’Europa) pre-rivoluzionaria (e nel pensiero liberale europeo dell’epoca post-rivoluzionaria questo atteggiamento rimase in seguito del tutto immutato).
Per la questione dello “Stato nazionale”, a prevalere è, invece, sempre rimasto il modello francese, la cui genesi appariva già matura e completa alla fine del Medioevo. Si trattava, in qualche parte, e in qualche modo, di una certa incongruenza. Nel modello nazionale francese erano i tratti istituzionali a prevalere. Nello Stato nazionale, quale a suo tempo – ossia in relazione con la Rivoluzione francese e col moto di cultura che la preparò e la sostenne – è davvero e pienamente maturato in Europa, di gran lunga maggiore è, invece, il peso degli elementi ideologici specificamente nazionali sia nel pensiero che nella prassi politica. la nazione francese non cessa mai di essere, innanzitutto e soprattutto, il “popolo sovrano” della Rivoluzione. Negli altri paesi la nazione è ugualmente il popolo sovrano o, comunque, fondamento della comunità politica, ma in questo modulo l’interferenza di tratti culturali che giungono fino a profili di ordine mistico o a caratterizzazione di ordine puramente etnico, se non razziale, è stata ovunque alquanto più frequente che in Francia (dove essi non sono mai affatto mancati).
Proprio per il peso di tale interferenza la storia europea dei secoli XIX e XX è finita con l’apparire spesso come una marcia fatale e rovinosa verso gli abissi che l’hanno connotata con le due guerre mondiali e con l’oppressione e la violenza dei regimi totalitari della prima metà del secolo XX. E proprio anche da ciò ha tratto impulso, dopo la seconda guerra mondiale, la profonda revisione, anche storiografica, delle storie nazionali, che è stata condotta fin troppo spesso a una negazione in radice dell’idea nazionale e a un largo disconoscimento dei suoi stessi fondamenti ideali, e perfino delle sue storiche realizzazioni. Revisionismo, del quale l’Italia è stata uno dei maggiori teatri, e i cui motivi genetici e le motivazioni umane e culturali non è difficile comprendere, e non si può fare a meno di tenere in conto. Allo stesso tempo, però, neppure è possibile accettarne o convalidarne il senso e gli approdi, essendo chiaro che per questa via si finisce fatalmente col gettare via, come suol dirsi, insieme con l’acqua sporca del bagno (le incongruenze parossistiche e rovinose del nazionalismo) anche il bambino: ossia, i valori e le grandezze di una delle maggiori espressioni del pensiero e della civiltà politica europea, che ha finito col far sentire la sua efficacia ovunque nel mondo.
Nel profilo totalizzante dell’idea nazionale l’articolazione che ne viene rappresentata tracciando i lineamenti della “nazione culturale” ha tradizionalmente costituito per l’Italia il riferimento di gran lunga prevalente, se non proprio dominante. Un riferimento comune sia alla considerazione italiana che non italiana dell’Italia come grande paese europeo, che in gran parte non è venuto meno neppure con l’unificazione politica del paese. Non per nulla nella celebrazione ufficiale del centocinquantesimo anniversario di tale unificazione è stato questo un tema esplicito: senza il Risorgimento l’Italia sarebbe rimasta soltanto una nazione culturale, e nient’altro, si diceva o si aveva l’aria di dire in alcuni momenti e commenti di tale celebrazione. La nazione culturale è definita in modo essenziale, ma che si presume esauriente, da tratti identitari quali la lingua, la religione, l’arte o la letteratura o la musica, determinate memorie storiche o convenzioni culturali, fino ad elementi genericamente antropologico-culturali o più ristrettamente socio-culturali. La coscienza dell’italianità in questo senso e sotto questi aspetti è stata antica e permanente in Italia; ed su questo punto che ci si deve fermare per chiarirne almeno alcuni tratti generali, ma, si spera, significativi.


III.
Da quando possiamo parlare di una “cultura italiana” con tratti culturali evidenti nel contesto europeo? Da quando – si può rispondere con ragionevole sicurezza – è possibile farlo anche per gli altri paesi, popoli e nazioni dell’Europa occidentale. Il che rinvia a quando nella generale koiné medievale di quella Europa si andarono meglio distinguendo le culture nazionali del’Europa moderna, ossia, più o meno a partire dall’anno Mille.
È da allora che si moltiplicano i documenti scritti della lingua italiana; viene coniato – dato della massima importanza – l’aggettivo italiano come nuovo nome degli abitanti della penisola; inizia la tradizione letteraria, e più precisamente poetica, con la scuola siciliana e lo stil novo, si costituiscono i nuclei delle scuole regionali che contraddistingueranno tutto il successivo svolgimento dell’arte in Italia; nasce la cultura politica del Comune, che è anche la matrice delle culture cittadine nel loro posteriore, plurisecolare sviluppo; si assimila ben presto un concetto di Italia politica in cui giocano Chiesa e Impero, da un lato, e i Comuni e il Regno (ossia la monarchia meridionale), dall’altro lato; prende forma il corpo delle tradizioni popolari nella varietà delle sue forme regionali, che, tuttavia, configurano una generica italianità anche in questo campo; altrettanto si può dire per la storia religiosa del paese, che tra i movimenti ereticali e il sorgere di nuovi ordini religiosi fra il secolo XI e il secolo XIII sono un’altra peculiare nota culturale nel contemporaneo e generale profilarsi dell’italianità.
Gli elementi di fatto a cui si è accennato sono, come si vede, dati di comune dominio, e anche piuttosto semplici nel loro rispettivo profilo. Proprio per ciò, però, possono riuscire ancor più significativi di quanto già di per se stessi non appaiano. E, comunque, se anche non vi fossero, come, invece, vi sono, altri elementi da considerare al riguardo, quelli qui accennati sarebbero già più che sufficienti a una definizione dell’Italia come “nazione culturale”, al punto da poter parlare di sue particolari “vocazioni” in questo o quel campo, a cominciare da quello delle arti figurative.
Anche in questa sua dimensione culturale – come, si può ben dire, in ogni altra – una connotazione fondamentale e dominante dell’italianità è data dal suo spinto policentrismo, più accentuato, certamente, che in qualsiasi altro paese europeo. Altrove si può, infatti, osservare che da un policentrismo iniziale, che è condizione comune a tutta l’area dell’Europa occidentale, si passa, in un lasso di tempo più o meno lungo, alla formazione di grandi centri “nazionali” di cultura – in generale, le corti dei sovrani – che esercitano una influenza decisiva sul successivo corso della storia culturale del paese interessato. Ciò non danneggia la circolazione periferica delle idee e della cultura nei loro varii aspetti, ma certamente ne accentra la promozione e l’ispirazione. In Italia si ebbe l’impressione che un tale centro potesse essere ravvisato nella corte di Federico II, e anche in seguito rimase come una sorta di rimpianto di questa svanita possibilità.
Lo notava, ad esempio, Francesco De Sanctis nella sua classica Storia della letteratura italiana. «Con lo svegliarsi della coltura» dopo il Mille – egli scriveva – «la coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare»; e il volgare è «un linguaggio comune», elaborato in particolare dalle «le classi più civili», che «si forma più facilmente dove sia un gran centro di coltura, che avvicini le classi colte e sia come il convegno degli uomini più illustri». Un tale centro, per l’appunto, «fu a Palermo nella corte di Federico secondo, dove convenivano siciliani, pugliesi, toscani, romagnoli o, per dirla col Novellino, «dove la gente che avea bontade venia da tutte le parti» (cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870, pp. 5-6).. Tuttavia, il grande centro siciliano aveva poi subito il contraccolpo della caduta degli Svevi a opera del Papato e degli Angioini, e la «vivace e fiorita coltura siciliana stagnò, prima che acquistasse una coscienza più chiara di sé e venisse a maturità». Essa era «nata feudale e cortigiana», ma «diffondevasi già nelle classi inferiori ed acquistava una impronta tutta meridionale», quando, cessando, «quasi ogni memoria se ne spense», mentre dopo di allora fu «ne’ comuni dell’Italia centrale [che] oscuramente ma con assiduo lavoro si formava e puliva il volgare» (De Sanctis, op. cit., pagg. 18-19)
Lo schema così fissato dal De Sanctis echeggiava in un’acuta rielaborazione cognizioni e idee del suo tempo, ma si avrebbe torto a considerarlo del tutto da archiviare senza conservarne alcunché. È vero il contrario. Da ciò che siamo andati via via dicendo già emerge che l’essenziale di quello schema resta sostanzialmente valido, e ancor più lo resta nel prosieguo della Storia, per cui si conclude che nel corso del secolo XV e con l’Umanesimo «la coltura acquista una fisionomia nazionale, diviene italiana» (De Sanctis, op. cit., pag. 358).
L’esposizione desanctisiana coglie qui certamente il punto fondamentale da noi già sottolineato. Le corti signorili del Rinascimento, quella papale a Roma e quella napoletana stabilizzano, così, la fisionomia “nazionale” della cultura italiana delineatasi nei due o tre secoli precedenti. Con esse e con la duratura sistemazione politica della penisola che si registra nei secoli XV e XVI, il policentrismo culturale italiano rimane tanto vitale da affermarsi come un tratto fra i principali della italianità rimasto vivo e forte anche dopo il conseguimento dell’unità politica nel secolo XIX.
Ne nasce, per i discorsi sulla cultura italiana, una duplicità del piano di analisi e di rappresentazione che occorre sottolineare e tenere sempre ferma. Da un lato, i riferimenti diretti ai varii centri di cultura volta per volta, dal punto di vista cronologico o da quello settoriale, operanti si impongono come un’assoluta necessità e occupano, per lo più, il proscenio del teatro italiano. Dall’altro lato, però, è simultaneo e ineludibile il riferimento alla scala nazionale della italianità che in quei vari centri si riflette e nel cui generale contesto essi operano. L’impressione che sia talora più forte il legame di questo o quel centro italiano con centri stranieri che con gli altri centri italiani può essere più o meno fondata, ma non rompe la sostanziale unitarietà del quadro nazionale.
Anche per questi aspetti il modello francese è stato spesso evocato come misura di eccellenza e, insieme, di normalità, e il caso italiano viene addotto come esemplare del contrario. È ricorrente al punto da essere diventato quasi banale il riferimento alle misure di Francesco I (ordonnance di Villers-Cotterêts, 15 agosto 1539, per l’obbligo di redigere nel francese di Parigi le leggi e le sentenze dei tribunali, sostituendo non solo il latino, ma anche i dialetti locali; analoghe disposizioni perché il francese fosse insegnato allo stesso livello del latino e del greco) che indubbiamente erano indirizzi e misure di governo di forte amalgamazione della facies culturale del paese e segnavano una ancor più forte accelerazione di processi che certamente erano già in corso o si sarebbero ugualmente realizzati. Nel suo genere non meno efficace fu, dallo stesso punto di vista, l’imposizione del Prayer Book (o Book of Common Prayers), il libro liturgico della Chiesa anglicana, redatto nella sua prima versione nel 1549, del quale apparve nel 1562 la quarta o Authorized version, della quale ancora nel 1928 la Camera dei Comuni bocciò una versione rimaneggiata. E gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare.
Senonché, anche a questo proposito si può ripetere quanto già abbiamo osservato circa il modello, in generale, da un punto di vista storiografico. Il modello, sia pure fatto valere nella maniera più circospetta e prudente, esaurisce, infatti, in un breve raggio applicativo la sua effettiva utilità interpretativa; e, se non si percepisce questo esaurirsi, è fatale che esso si trasformi in una sorta di camicia di forza preconfezionata, entro la quale la specificità e la reale dialettica dell’oggetto di storia si ritrovano molto a mal partito.
Nella specificità italiana può, ad esempio, riuscire più importante e originale che una amalgamazione e circolazione culturale nazionale, non dovuta alla preminenza e all’azione di «un grande centro» si sia prodotta in maniera autonoma e spontanea, per effetto del lavoro e della iniziativa culturale di generazioni di italiani fra l’XI e il XV secolo.
Di questa unificazione culturale del paese, per la quale ha indubbiamente senso parlare dell’Italia come una “nazione culturale”, si tiene solitamente presente soltanto, o quasi, la facies linguistica. E, in effetti, si tratta di un elemento di assoluto rilievo. È fin troppo chiaro quanto e come fosse difficile l’affermazione dell’italiano quale lingua della cultura e della letteratura del paese. Considerando ciò, non ha alcun senso il tono deteriore con il quale molto spesso l’italiano viene qualificato come lingua puramente letteraria o della circolazione culturale, della quale si deplora la scarsa conoscenza e pratica al più generale livello della società al momento dell’unificazione politica del secolo XIX. Le valutazioni al riguardo oscillano: si va dal 3% di conoscitori della lingua nazionale sul totale della popolazione ipotizzato da alcuni studiosi al 10% ipotizzato da altri. Si tratta di cifre delle quali non è del tutto chiaro e persuasivo il criterio, quale che sia, di valutazione. Tutto indurrebbe a credere che esse siano in qualche misura sottostimate, se si considera l’intensità plurisecolare dei rapporti commerciali (terrestri e marittimi), politici, sociali fra le varie parti del paese; le abitudini di viaggio della classi colte o più agiate e gli spostamenti interregionali per lavori stagionali o ambulanti, la parte del clero e della cultura e pratica ecclesiastica, e varii altri elementi di facile riferimento. Fossero, tuttavia, anche così basse quanto si dice le percentuali dei parlanti dell’italiano al tempo dell’unificazione, nulla ciò attenuerebbe della realtà e della consistenza, italiana ed europea di una cultura nazionale circolante come tale in Italia più o meno a partire dal XIII secolo. Fra il XIV e il XV secolo si determina anche la definitiva adozione dell’italiano di Toscana quale lingua di questa cultura. Scelta linguistica che fra XV e XVI secolo subisce la sfida di un “ritorno al latino”, che, però, è solo in parte un problema specifico dell’Italia, poiché in altra e non minore parte è legato alla dilagante diffusione europea dell’Umanesimo. Già dai primi del secolo XVI la sfida è, peraltro, vinta irreversibilmente dall’italiano, e sorge, piuttosto, il problema di quale italiano si debba trattare.
Agli inizi del XXI secolo la “questione della lingua” sarà ancora assai viva nel paese come, nella sostanza, non lo è in alcun altro dei maggiori paesi europei. Indizio, questo, della scarsa consistenza unitaria del paese? O, piuttosto, ennesima conferma del policentrismo italiano e della sua feconda e attiva presenza nella vita nazionale? La risposta non dovrebbe essere dubbia. La singolarità italiana nel quadro europeo, se per questo verso sussiste, non è, però, una anomalia, bensì un tratto originale e specifico.


IV.
La prevalenza del toscano nel determinare la fisionomia dell’italiano è ancor oggi quasi sempre spiegata con la storica circostanza che nel primo sbocciare della letteratura italiana i tre grandi scrittori del Trecento che più di altri ne segnarono a lungo, per così dire, la traccia furono tutti di quella regione. La loro eccellenza letteraria avrebbe portato all’adozione del loro strumento linguistico come veicolo dello scrivere per tutti gli scrittori della penisola, e questo avvio sarebbe stato ulteriormente rafforzato dal petrarchismo imperante per almeno tre secoli nella prassi poetica e dalla suggestione del Decamerone per grandi scritture in prosa nella lingua che ora si andava affermando. E, grazie a ciò, ancora nel XXI secolo quasi il 90% del vocabolario di base dell’italiano risale al Trecento e a quei tre grandi.
Senza minimamente mettere in dubbio l’influenza determinante e il ruolo storico dei tre grandi scrittori nella storia culturale del paese, non si può, tuttavia, convenire su una tale genesi puramente letteraria delle fortune del toscano quale lingua nazionale. Sembra convinzione ormai comune degli studiosi della materia che la preminenza del toscano non ha avuto luogo solo per ragioni letterarie, bensì per un complesso di influenze che la Toscana ha esercitato nei più varii campi della vita civile in Italia fra il XIII e il XVII secolo (e non è un caso che si ricordi l’obbligo fatto a Firenze nel 1414 dell’uso del volgare nei contratti commerciali: cfr. G. Devoto, Il linguaggio d’Italia: storia e strutture linguistiche italiane dalla preistoria ai nostri giorni, Milano, Rizzoli 1974, pag. 264). D’altra parte, lo sbocciare della cultura umanistica e dell’arte rinascimentale, che nel secolo XV ebbero in Toscana il loro maggiore centro di fioritura e di diffusione, sembra di peso non inferiore a quello degli scrittori toscani del secolo precedente. E, ancora, è stato anche notato a ragione che nel caso del toscano «il prestigio culturale non è costituito solo dalla eccellenza poetica, ma anche dal peso dottrinale» (Devoto, op. cit., pag. 245): elemento meritevole, già esso da solo, di una particolare considerazione, se si ricorda la fioritura toscana del pensiero filosofico, politico, storico, scientifico da Dante a Galileo.
Ciò conferma, comunque, che la prevalenza del toscano fu acquisita per le vie spontanee dell’esperienza e delle vicende sociali, e non solo culturali, del paese, senza alcuna imposizione di poteri politici, come si ha implicitamente l’aria di adombrare per le vicende linguistiche dell’Italia unita. Il dato storicamente rilevante è dato qui dal fatto che, a parte il latino, nessuna alternativa al toscano si affacciò nelle altre regioni italiane. L’ipotesi di una possibilità veneziana di tale alternativa rimane un’ipotesi, anche se corroborata dalla diffusione dello stampo veneziano in tutta l’area veneta fino alle Alpi, destinata a protrarsi nel tempo. Certo, nella prima metà del secolo XVI il napoletano Benedetto di Falco si aspettava che Venezia riformasse «l’idioma italiano componendo una sola lingua comune a tutti [...] come n’era una latina per tutto il mondo» (Devoto, op. cit., pag. 272). Ma erano aspettative connesse alle grandi fortune politiche della città, declinanti, come si sa, dopo la rotta di Agnadello nel 1509. E se Agnadello non avesse interrotto le fortune di Venezia come grande potenza? Il problema è chiaramente improponibile, ma anche in una simile ipotesi permarrebbe il dato essenziale: le fortune del veneziano sarebbero state connesse a ragioni politiche; si sarebbero svolte sulla falsariga del modello francese; e non sarebbe stata assimilabile neppure alla ipotesi di quel «gran centro di cultura», di cui parlava il De Sanctis per la corte di Federico II. E molto opinabile è anche che nella prima grande fase di omologazione degli usi linguistici della penisola al toscano fra ’400 e ’500 si sia trattato e detto di una “lingua cortigiana”, solo dopo un po’ definita come italiana. In realtà, quella che vigeva era la distinzione tra il latino e il “volgare”, e nell’uso di questo termine non si può mancare di cogliere un riflesso sociologico, che dopo mille anni faceva ancora distinguere la lingua del volgo da quella in uso o da usare da gentiluomini, dotti etc. le corti sono fondamentali nell’avvento della prassi linguistica generalizzata dell’italiano, ma sono solo il veicolo di questo avvento, e i cortigiani e i teorici della vita cortigiana sapevano benissimo che il loro volgare, anche atteggiato in lingua cortigiana, altro non era che l’italiano reso illustre dal loro alto rango sociale.
La complessa, molteplice fenomenologia dell’affermazione del toscano configura, evidentemente, un’assai diversa vicenda, nella quale hanno una grande parte anche mercanti, giudici, artefici, maestri, professionisti di vario tipo, soldati di ventura e altri elementi della società, che nell’impressionante dinamismo della vita italiana nei secoli del primato economico e civile del paese in Europa trovano amplissimo spazio per tale loro funzione. Dalla fine, almeno, del secolo XV il toscano si afferma, comunque, come si è detto, sempre più largamente non solo nell’uso letterario, ma in un ben più vasto ambito sociale attraverso una scelta che procede parallelamente dalle diverse parti d’Italia e che già nel secolo XVI appare giunta a una piena maturità. È da allora, ossia tra XV e XVI secolo che la distinzione tra i dialetti, ossia i volgari, parlati in Italia e la lingua italiana, ossia il volgare ormai maturato e qualificato come tale, assume il suo senso più autentico. Che non è il senso di una minore dignità o valore del dialetto, o il senso di una superiorità innata della lingua sul dialetto. Tutti, in realtà, dialetti e lingue, sono ugualmente lingue. Si distingue fra loro soltanto per ragioni di ordine storico, per cui a un certo punto le funzioni dell’uno o dell’altro dialetto o lingua assumono una vastità di applicazione ai campi più diversi e al servizio di ambiti sociali via via più ampi, e sono, generalmente, sancite da riconoscimenti e prassi istituzionali. Ma con ciò, per definizione, i dialetti non muoiono. Le differenziazioni dell’uso e delle pratiche sociali non solo mantiene in vita e sviluppa le peculiarità proprie di ciascun ambito storico, ma condiziona con maggiore o minore intensità a seconda dei casi lo stesso uso e l’evoluzione della lingua di cui essi sono finiti col diventare i dialetti. Nascono così letterature, teatri etc. dialettali di varia consistenza e, talora, di grande pregio. In Italia, specialmente in alcuni casi (Venezia, Napoli, Roma, Milano, Sicilia) ciò appare particolarmente evidente. Sarebbe, però, se non altro, semplicistico leggere in queste permanenze il segno di un interno limite della capacità di espansione della cultura italiana, o un contrassegno di artificiosa sovrapposizione della lingua rispetto ai dialetti. Il caso italiano appare da leggere in chiave del tutto diversa. Appare, cioè, da leggere come una ulteriore dimostrazione di quel carattere policentrico che è fra i “caratteri originali”, per usare i termini di Marc Bloch, della cultura e di tutta l’esperienza storica italiana.
Il che è tanto più da notare in quanto anche altri elementi appaiono importanti come distintivi del caso italiano rispetto al contesto europeo. Si sa, infatti, che il nostro italiano di oggi è ancora fondamentalmente quello della scrittura di Dante; e che alla lettura dei nostri testi dal XIII al XV secolo si frappongono solo in misura minore ostacoli linguistici che non siano legati alla necessità di una particolare informazione e commento storico. Lo stesso non è per le altre lingue europee per le quali fra l’uso linguistico anteriore e quello posteriore al secolo XV si è determinato un solco profondo che rende il francese o tedesco o inglese o spagnolo antico incomprensibile al comune lettore attuale. Segno di immobilismo dell’italiano come “lingua di cultura” invece che dell’uso vivo?
Così, ad esempio, la pensava un maestro indiscutibile dell’argomento, ossia Graziadio Ascoli, che ben conosceva e rappresentava la grande varietà degli usi linguistici della penisola, ma aveva ancora più chiaro che l’italiano è «la limpida continuazione del latino volgare», non immesso come altrove, perché nativo,, in cui, però, «la maggior purezza della tempera del linguaggio si combina con una persistenza che rasenta l’invariabilità», per cui non c’è «un antico italiano da contrapporre al moderno, come al moderno francese si contrappone un antico» (cfr. G. Ascoli, Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, Torino, Einaudi, 1975, p. 59). È stato, però, notato che, «nonostante le condizioni che esercitavano un’azione frenante sull’evoluzione delle sue strutture, l’italiano è cambiato in ogni periodo della sua storia» (ivi, 174); e che, venendo adibito nel corso del tempo a funzioni nuove, esso, di fatto, non è più lo stesso di quando tali funzioni o non vi erano o erano diverse. Una simile rilevante trasformazione si ebbe, ad esempio, a parere di molti, fra Cinquecento e Seicento (cfr. M. Durante, Dal latino all’italiano moderno, Bologna, Zanichelli, 1981, pag. 177), ma analoghi sviluppi sono stati in seguito anche più frequenti, e nel secolo XX, e con il trionfo del mass media, sono diventati anche molto più rilevanti.
Di qui l’infondatezza del giudizio così approssimativo sull’italiano come lingua solo letteraria e scritta, appresa, fuori della Toscana, sulle grammatiche e sui libri, se non addirittura come “lingua morta”. La vitalità di questa “lingua morta” si è dimostrata, invece, notevole. Anche soltanto per diventare, per così dire, la “colta lingua morta” di un intero paese, occorreva che essa fosse oggetto di attenzioni e scelte di grande rilievo; e occorreva pure che si generalizzasse la convinzione che scrivere in italiano avesse un sicuro significato non solo sul piano della cultura e dell’opinione colta, ma anche di qualità e di prestigio in un ambito sociale e in un contesto europeo di ben più alto livello. Si spiega così la scelta che gli scrittori italiani dal Sannazzaro all’Ariosto e al Manzoni fanno così decisamente di bagnare i loro panni in Arno. E il fatto stesso che da Dante a oggi la questione della lingua abbia costituito la materia di un ininterrotta e inesausta discussione prova quanta consapevolezza e partecipazione vi sia stata nella fortuna, che si presume soltanto letteraria e socialmente limitatissima, dell’italiano.


V.
La lingua rimane così un campo elettivo e fra i più esemplari di una visione dell’italianità, sia pure estremamente critica in tutti gli aspetti che si vogliano, ma attendibile sia sul piano storico, sia su altri piano ugualmente rilevanti. E, in ogni caso, anche per la lingua bisogna riconoscere che la storia della cultura non basta a spiegarne tutta la complessa e molteplice vicenda che affonda le sue radici in vario modo e con vario ritmo e varia intensità, nella vita di tutt’intera la società italiana nel corso dei secoli, e non solo nelle accademie, nelle tipografie, nei salotti altolocati, nelle corti e negli uffici dei governi o in simili altri ambienti sociali.
Non meno della lingua, la cultura italiana rivela anch’essa una molteplicità e varietà di espressioni che sembrano rafforzare l’opinione così diffusa di un assai debole consistenza del collante nazionale in Italia; e anch’essa ha ricevuto e riceve nelle valutazioni correnti le medesime critiche.
Tipico il caso della letteratura, per la quale non si ripete più, ma un tempo si faceva gran caso di un suo supposto ritardo rispetto alle letterature degli altri paesi dell’Europa occidentale e della sua carenza, nelle origini, di un ciclo e di una poesia epica “nazionale”. Era un rilievo privo affatto di consistenza storica, oltre che di nerbo teoretico. Già ai suoi tempi Giosuè Carducci ne aveva fatto duramente giustizia. Ma le notazioni affini non si contano. Una filosofia di scarsa consistenza rispetto alle forti connotazioni del razionalismo francese o dell’empirismo inglese o dell’idealismo germanico. La musica del melodramma inconfrontabile per la sua melodica levità con la profondità della musica germanica e con la sua grande elaborazione dell’armonia (Wagner contro Verdi, e non parliamo di Bach o Mozart o Beethoven). Una letteratura senza romanzo fino a I promessi sposi, e anche questo così lontano dalla modernità dei grandi romanzi europei del tempo. Una poesia ancora alla fine dell’Ottocento largamente infarcita di retorica e di un classicismo di maniera, e anch’essa così lontana dalla realistica e avvincente modernità della contemporanea poesia europea, come in un libro famoso denunciava Enrico Thovez. Una storiografia che col secolo XIX scompariva dalle storie della storiografia europea, come accadeva in quella così autorevole di Eduard Fueter, per cui il Croce si sentì mosso a scrivere la sua storia della storiografia italiana nel secolo XIX. Arti figurative anch’esse votate a una progressiva provincializzazione dai primi dell’Ottocento fino almeno al Futurismo. E si potrebbe ancora, e di molto, ampliare questa casistica critica e negativa.
Una cultura vista e giudicata in tale modo non poteva che essere il corrispettivo di una nazionalità con molti più problemi che certezze, e come tale il problema è stato sentito, visto e valutato non solo presso molti stranieri, ma con impressionante frequenza nello stesso ambito italiano. La cultura italiana è venuta, anzi, facendosi già dai tempi del Risorgimento la maggiore testimone autocritica di una negativa autobiografia nazionale. Contributo essenziale, prezioso e irrinunciabile.







NOTA BIBLIOGRAFICA – Il testo qui pubblicato è la versione integrale della relazione tenuta, in una versione ridotta, al convegno, organizzato per il 400° anniversario del Vocabolario della Crusca, dalla stessa Accademia della Crusca il 6-7 novembre 2012. La versione ridotta fu poi edita nel volume L’italiano dei vocabolari, che riuniva, come pubblicazione dell’Accademia, gli atti di quel convegno a cura di N. Maraschio, D. De Martino e G. Stanchina, Firenze 2013, pp. 55-63. Ripetiamo qui, perciò, l’avvertenza che davamo ivi, pp. 62-63, e cioè che «i riferimenti bibliografici, assolutamente minimi, che ricorrono nel testo sono, ovviamente, funzionali o esemplificativi per i punti trattati là dove sono citati». L’amplissima bibliografia in materia si può ritrovare nelle opere ben note di Francesco Bruni, di Luca Serianni e di altri, che hanno formato l’ovvio presupposto della nostra ricerca e riflessione. Anche per quanto riguarda il nostro lavoro in materia di storia nazionale italiana ci limitiamo a segnalare, fra le altre nostre cose, i volumi L’Italia come problema storiografico, Torino, Utet, 1979; e L’Italia nuova. Per la storia del Risorgimento e dell’Italia unita, 7 voll., Roma Edizioni di Storia e Letteratura, 2011-2015
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