Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XVII - n. 1 > Interventi > Pag. 39
 
 
Combattere volenti o nolenti*
di Giuseppe Galasso
Il problema di coloro che nell’Europa del XX secolo hanno manifestato con atti di rifiuto, obiezione di coscienza, opposizione, elusione o evasione il loro atteggiamento contrario alla guerra nei paesi in guerra è un problema molto più complesso di quanto può apparire di primo acchito.
Già la molteplicità dei termini che abbiamo usato lo deve far sospettare. E, infatti, diverso è il caso di chi si sottrae all’obbligo del servizio militare – che nei paesi in cui vigeva tale obbligo dava luogo al reato di renitenza alla leva, e ciò poteva accadere nei periodi di pace come in quelli di guerra – dal caso di chi regolarmente arruolato, si allontana poi senza autorizzazione e si trasforma in reo, latitante, del vero e proprio reato di diserzione, che è in guerra molto più grave che in pace, e in guerra è più grave al fronte o nelle zone di operazione che in altre zone. Allo stesso modo diverso è il caso dell’obiettore di coscienza o del comprovato pacifista già noto come tale, o tale credibilmente manifestatosi in occasione della guerra, dal caso di chi si oppone alla guerra per ragioni politiche o di partito. E ancora diverso è il caso di chi, per non combattere in guerra, al fronte, pratica volontarie mutilazioni o simula infermità gravi e impedienti, spesso provocandosi lesioni personali anche gravi, dal caso di chi, per non combattere, rifiuta semplicemente di eseguire gli ordini ricevuti; e diverso è ancora il caso di chi manifesta il suo desiderio o volontà di non combattere o le sue convinzioni o tendenze politiche o di partito avverse alla guerra con discorsi e con atti che propagano o possono insinuare in altri soldati comportamenti conformi ai suoi.
Pensiamo, inoltre, alla pratica di molti o quasi tutti gli eserciti, in particolare nella guerra del 1914-18, di tenere “ufficiali di coda” o squadre di polizia militare alle spalle dei reparti che marciavano, per evitare fughe e diserzioni specialmente dalle ultime file, che peraltro marciavano anche alle spalle dei reparti che andavano all’assalto, per sparare a coloro che fuggivano dalle prime linee o si attardavano nel seguire i compagni che avanzavano.
Ricordo che Ernst con Salomon – che partecipò all’assassinio di Rathenau e fu perciò molto apprezzato dal regime nazista, ma fu poi processato, per ciò, dopo la guerra del 1939-45 – scrisse un famoso memoriale difensivo, tradotto anche in italiano col titolo Io resto prussiano (Milano, Longanesi, 1954). In questo memoriale egli raccontava di essere fuggito, nelle ultime settimane della guerra, in un paesino della Baviera, per cercare di non essere catturato dai vincitori. Qui una notte, dormendo, era stata svegliato dal pesante e inconfondibile frastuono di una colonna militare in marcia. Si era affacciato, per capire chi fossero, a una finestra, e aveva visto che si trattava di una colonna della Wermacht, che, nonostante il disastro di una sconfitta ormai totale e in atto, marciava in perfetto ordine; e si era molto meravigliato che alla fine della colonna non vi fossero “ufficiali di coda”, riflettendo, molto compiaciuto, che con soldati come quelli non vi era alcun bisogno di ufficiali di coda. Ma il compiacimento di von Salomon non può nascondere la tristezza del compito degli “ufficiali di coda” e, naturalmente, della polizia militare, in quello come in ogni altro analogo esercito.
Pure da considerare è, infine, il caso di coloro che persero la vita per quei davvero draconiani procedimenti militari dall’infausto e lugubre nome di “decimazioni”, la cui aberrante fisionomia è ulteriormente aggravata dal fatto che in questo caso erano gli stessi compagni di reparto a dover mettere in pratica quelle decisioni. Decisioni motivate – si fa per dire – non solo e non tanto dall’intenzione di reprimere qualche mancanza o abuso o vero e proprio reato quanto dall’intenzione di “dare un esempio”, “dare una lezione” ai presunti rei soprattutto di “viltà”: massimo e più disonorevole mancanza del comportamento militare. E già questa idea di dare esempi che servissero a obbligare a una disciplina non voluta dà un’idea sufficiente della scarsa considerazione morale in cui veniva tenuto il “materiale umano” (espressione non di rado usata) e la sua capacità di resistere a una violenta imposizione.
Non siamo, comunque, affatto sicuri di avere esaurito, con le specificazioni che abbiamo richiamato, tutto il ventaglio della casistica in questa materia, ma ce n’è d’avanzo, come si vede, per confermare l’asserita molteplicità dei casi stabiliti come passibili di repressione o di punizione per mano della giustizia militare. Ci riferiamo, ovviamente, ai casi stabiliti specificamente per la prima guerra mondiale; ma si tratta, in effetti, di casi ricorrenti in ogni conflitto combattuto da organizzazioni militari, regolari o irregolari che siano. E, come è naturale, la complessità della relativa fenomenologia non può non spingere a porsi, inevitabilmente, la domanda: tutti questi casi (disertori, renitenti, disobbedienti, auto mutilati, simulatori etc.) esigono una distinta considerazione o sono passibili di un’unica, identica considerazione? Possiamo parlare di “disertori”, e basta, e rendere indifferente o inutile, per ciò, la ricca serie di esemplificazioni che abbiamo cercato di suggerire e che è possibile sviluppare ulteriormente?
Il libro di Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione (Bari, Laterza, 1968), resta a tutt’oggi il migliore sforzo di comprensione della tragedia particolare dei processati, condannati e fucilati dalla giustizia militare durante la prima guerra mondiale. Vi si mette in rilievo che i reati e le punizioni allora oggetto della giustizia militare appaiono riguardare quasi esclusivamente la cosiddetta “bassa forza”. Oltre alle motivazioni politiche di socialisti, anarchici, cattolici, neutralisti e pacifisti (sia laici che fedeli di varia confessione cristiana, e anche democratici), nelle sentenze dei tribunali giudicanti emerge che la motivazione dei reati contestati di gran lunga prevalente anche rispetto alle motivazioni politiche o ideali più diffuse, e anche eventualmente molto generiche, fu quella della paura. Su folle di poveri contadini e popolani o sottoproletari, in schiacciante maggioranza analfabeti o semianalfabeti, era inevitabile e doveva avere immancabili effetti paurosi l’orrore di quella guerra: l’orrore, cioè, di una guerra in cui si esplicò per la prima volta in tutta la sua mortifera portata la micidiale e spaventosa potenza distruttiva di armi prodotte in gran numero dalla più avanzata tecnologia moderna, che giungevano non solo a lacerare e straziare nei modi più orribili i corpi degli uomini, ma perfino a cancellarne ogni traccia o a renderne impossibile ogni identificazione postuma, e già terrorizzava con boati insopportabili e con esplosioni e incendi accecanti anche chi restasse fermo e dovesse soltanto continuare soltanto a presenziare a quello spettacolo infernale.
Si può deplorare questa paura, orrore, terrore? Che cosa avremmo fatto noi in eguali circostanze? Possiamo essere sicuri che avremmo impavidamente sostenuto il fuoco, l’orrore, la coltre di terrore e di morte che si stendeva su campi di battaglia disumani e sotto l’effetto di tattiche altrettanto disumane, oltre che comprovatamente, e a ripetizione, fallimentari?
Davvero bisognerebbe porsi in profondità queste domande prima di lanciare la prima pietra per il linciaggio dei pavidi, dei terrorizzati, di coloro sui quali le operazioni belliche ebbero tanto spesso effetti fisici mortificanti e degradanti in quel momento e, ancor più, durature e molto varie conseguenze, per lo più durature, di agitazione fisico-motoria e di gravissime infermità mentali, o anche di irrimediabili alterazioni del temperamento e del comportamento.
Nessuna riprovazione, insomma, è possibile, a cuor leggero, della paura che prese allora sicuramente un numero più che ragguardevole di coloro che furono portati in prima linea. Era una paura umana fin troppo umana, che non metteva in causa i riferimenti consueti a distinzioni come quelle fra onore e disonore tra coraggio e viltà, perché si muoveva sul piano della più elementare, immediata umanità fisica e sensoriale.
Forcella e Monticone rilevarono anche che per quelle masse, afflitte dalla miseria non meno che dall’analfabetismo, ben poco chiare erano le idee di patria e di nazione, e ancora meno le ragioni ideali del conflitto del 1914-18 (come la causa democratica contro il militarismo e l’autoritarismo germanico), e meno che mai ragioni di potenza e di equilibrio internazionale, che come si sa furono altrettanto forti di altre quali motivazioni ideologiche della guerra.
Proprio queste osservazioni, tanto realistiche quanto tristi, di Forcella e Monticone aprono, però, un problema delicato e difficile. Accanto a coloro che furono veri e propri disertori o presunti tali e a coloro che rifiutarono di eseguire determinati ordini vi fu, infatti l’amplissima maggioranza di coloro che continuarono a restare al loro posto e che pagarono perciò un tributo di sangue altissimo alla feroce logica della guerra. I calcoli in questa materia sono molto difficili, sia per una frequente carenza o incertezza delle fonti, sia per l’altrettanto frequente varietà dei criteri con cui gli studi sono condotti. In generale è, però, possibile affermare con una relativa certezza che i fenomeni di diserzione o di rifiuto di esecuzione di ordini riguardarono meno del 10% degli uomini schierati al fronte dal 1915 al 1918: 470’000 su 5’200’000. Di questi 470’000 circa 370’000 erano emigrati che non avevano obbedito all’ordine di mobilitazione rientrando in patria. Degli altri, in più di 4’000 casi vi fu la condanna a morte, che però fu effettivamente eseguita in poco più di mille casi. 15’000 furono, invece, le condanne all’ergastolo.
Sono cifre, ovviamente, tristissime. Negli altri eserciti avvennero cose analoghe. Nell’esercito inglese si calcolano, però, solo 350 fucilazioni per lo stesso motivo; in quello tedesco addirittura soltanto una cinquantina. Più controverso è il caso francese con 750 fucilati su effettivi più numerosi di quelli italiani; ma un’inchiesta giornalistica del 1924 parlava di 1’637 soldati fucilati.
Nel libro di Bruna Bianchi La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano. 1915-1918 (Roma, Bulzoni, 2001), dalla stessa autrice riassunto e rivisitato nell’articolo I disobbedienti nell’esercito italiano durante la grande (in «Parolechiave», 2001, fasc. 26, pp. 157-186) si nota inoltre, su un campione di 1300 processi di varii tribunali di guerra, che più del 64% si era allontanato dal servizio per ragioni familiari, e il 52% per assenze brevi (fino a 10 giorni), con spontanei rientri in servizio in circa il 60% dei casi. Invece, un 30% adduceva come motivo della imputata diserzione la durezza della disciplina e della vita di guerra. Inoltre, un motivo diffuso fu quello della irregolare fruizione delle licenze, sottoposte ad arbitrii poco giustificabili nelle sedi competenti.
Anche questi risultati dello studio della Bianchi inducono ad approfondire la riflessione su quei fatti, in particolare per le alte percentuali delle ragioni sia di carattere familiare, sia di malcontento per le mancate concessioni delle licenze, e, ancora di più, per l’altissima percentuale degli spontanei rientri in servizio dopo brevi assenze.
Da tutto quanto procede emerge chiaramente la difficoltà di considerare questa ingrata, ma pur sempre umana materia. Nel 1919 il governo Nitti chiuse la questione con l’amnistia ai disertori, che divenne uno degli argomenti più sbandierati da nazionalisti e fascisti contro lo stesso Nitti. Fu, però, un provvedimento saggio. Far continuare i processi e le pene sarebbe stata una insipiente sollecitazione a proseguire sentimenti e discriminazioni che dopo la guerra avevano una estremamente difficile giustificazione.
A distanza di un secolo da quegli eventi, altri atteggiamenti sono possibili? Certamente, ma dovrebbero essere possibili solo nella considerazione della complessa problematica che qui, sia pure in modo del tutto sommario, abbiamo cercato di fare presenti. Una tale considerazione è, infatti, indispensabile, affinché umana comprensione e una conforme pietas verso il dramma inaudito che si visse nelle trincee di tutta Europa guidino e ispirino il giudizio verso tutte le parti di quel dramma, senza perdere di vista le ragioni diverse che determinarono il diverso comportamento di quei protagonisti e il senso dei diversi valori che, nel quadro di questa diversità, emersero con sufficiente evidenza e sono, quindi, certamente riconoscibili anche a tanta distanza di tempo.






* Testo molto lievemente modificato dell’intervento al convegno Disertati. Perdono e riabilitazione per i militari fucilati, Forum della Cultura Cristiana, tenutosi a Roma il 21 ottobre 2015.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft