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Genovesi e il problema dell'arretratezza del Mezzogiorno
di Giuseppe Galasso
Sul posto occupato da Genovesi – come da Ferdinando Galiani e da altri esponenti di quella che qualcuno definisce «Neapolitan classical School»1 – nella storia del pensiero economico moderno non è più possibile dubitare neppure ai peggio disposti al riguardo. Basterebbero a dissolvere ogni dubbio le considerazioni di Joseph A. Schumpeter in quella che, malgrado le critiche ricevute, rimane una delle migliori opere sulle riflessioni e le elaborazioni degli economisti moderni. A Schumpeter dobbiamo, poi, fra l’altro, una delle migliori definizioni del carattere più autentico del pensiero economico del Genovesi. È sua, infatti, la definizione delle Lezioni di commercio come «il sistema non sistematico del suo intero pensiero economico»2: definizione che va estesa, a nostro parere, a tutto, appunto, il suo pensiero in materia economica.
La non sistematicità non nasceva, peraltro, da una congenita indisposizione o da una riluttanza di Genovesi alla compiutezza sistematica. Nei suoi lavori filosofici e teologici3 egli ha dato una prova così evidente di capacità sistematica da non poterne dubitare. Nasce, piuttosto, dalla reale natura dei suoi interessi in materia economica. Interessi che sono interamente di natura politico-operativa, anche quando fanno riferimento a questioni e punti di teoria economica generale, e che non nascono poi in lui neppure del tutto ex abrupto, se è vero, come a noi sembra, che la sua stessa attività filosofica finiva col mettere capo alla storia, e quindi alla realtà delle esperienze e delle traversie di ogni storia4.
Per questo motivo vale sempre la pena di ricordare l’ispirazione sostanzialmente pragmatica del pensiero economico sia di Genovesi che degli altririformatori napoletani. Il che non significa negare o attenuare l’interesse del loro pensiero dal più generale punto di vista della storia dell’Illuminismo. Serve solo a richiamare l’attenzione sulla cifra che fu specifica dei napoletani nell’ambito illuministico italiano ed europeo5.
Essi, come a ragione notò L. De Rosa, «piuttosto che essere classificati come mercantilisti o liberisti ecc., debbono essere intesi come gli autori che compresero […] che, al di là di certi principi fondamentali, non esiste una filosofia economica di valore universale». Può essere un dire troppo che, in ciò, questi autori anticiparono la Scuola storica tedesca, che riportava le dottrine economiche ai problemi e alle esigenze contingenti delle società e degli Stati che li dovevano affrontare, per cui i governi seguivano di volta in volta le politiche economiche più diverse: liberistiche o protezionistiche o altre. E può essere pure un dire troppo che quei riformatori napoletani anticiparono «di oltre due secoli la teoria delle aree arretrate», proponendo «di metterla in pratica, per allineare il paese agli Stati più progrediti», con idee valide non solo per il Mezzogiorno, ma «per tutti i paesi cui le vicende storiche avevano causato depressione economica o non avevano consentito sviluppo economico»6. È, o dovrebbe essere, comunque, del tutto evidente che per Genovesi e i suoi contemporanei napoletani non è sufficiente una qualificazione storica e teorica «sotto il profilo dell’analisi economica», e che – senza, però, a nostro avviso, trascurare o obliterare questo profilo – è necessario una loro caratterizzazione «sotto il profilo dei sistemi di politica economica, e soprattutto dal punto di vista del concetto di sviluppo»7: e, quindi, dando pieno risalto a quell’ispirazione pragmatica cui si è accennato. Il che vuol dire che la sua genesi è stata nella sensazione e nel travaglio dei problemi concreti del paese che essi avevano sotto gli occhi, molto prima e molto di più che in una suggestione culturale e teoretica derivante dalla sollecitazione della contemporanea cultura europea o risoltasi in essa.
Ne è una prova il suo scritto certamente più impegnativo e più generale in materia di filosofia civile, ossia il notissimo Discorso sopra il vero fine delle lettere delle scienze. Qui è subito dichiarato quale sia questo «vero fine»: il «vero fine delle lettere e delle scienze», vi si dice in apertura, «è di giovare alle bisogne della vita umana»8. E ancora più esplicitamente, se possibile, lo si dichiara addirittura nel motto posto in esergo per distinguere lo scritto genovesiano nella raccolta in cui appare nel 1753. Si tratta di un motto tratto dal Bellum Catilinarium di Sallustio, III, 1: «pulchrum est bene facere reipublicae; etiam bene dicere haud absurdum est»9. Il bene pubblico, dunque, come fine dell’azione; la chiarezza e la precisione del discorso come metodologia del discorso su quel fine.
Scritto nel 1753, alla vigilia dell’assunzione di una cattedra universitaria di nuova e storica natura, come anche di imprecisata delimitazione disciplinare, il Discorso sopra il vero fine avvertiva subito il lettore del suo tenore, quasi un manifesto − programma del magistero che il neo-cattedratico si proponeva svolgere. Su quel fine e su quella metodologia si ritornava più volte. La filosofia dei primi filosofi – vi si dice – «era tutta cose»10. Si deplorava che «per sette e più secoli le scuole filosofiche di Europa fecero a gara a chi potesse essere più ferace in inutili immaginazioni ed astrazioni». Solo con Bacone si «fece vedere che si poteva essere filosofo con assai gloria, senza essere peso inutile agli altri uomini». A partire da Galilei si era poi offerta «un’astronomia, senza essere mentitrice astrologia e una geometria non noiosa, ma perfettrice delle arti meccaniche, una fisica promotrice de’ nostri comodi, senza essere magia». E così, quasi inavvertitamente, si ebbe un totale rinnovamento della filosofia, che divenne pensiero comune, laddove aveva finito con l’essere considerata o un qualcosa di magico o «con indifferenza»11.
Di qui anche una drastica dichiarazione di principio: «la ragione non è utile se non quando è divenuta pratica e realtà»12. Empirismo e pragmatismo, dunque, per usare termini un po’ anacronistici qui. Se poi al Discorso sopra il vero fine si aggiungono le pagine del Ragionamento sul commercio in universale da lui premesso alla traduzione napoletana della Storia del commercio della Gran Bretagna di John Cary (il titolo originale è, per la verità, un po’ diverso), pubblicata nel 175713, si vede subito che in pochi anni Genovesi aveva in sostanza fissato compiutamente non solo lo schema, ma tutta l’articolazione del suo pensiero economico.
Noi sappiamo, peraltro, che fino, all’incirca, al 1750 i suoi interessi e i suoi studi erano stati tutt’altri che di economia. Metafisica, Logica, Etica, Teologia avevano costituito il campo della sua applicazione, e neppure «lo sbalzo degli studi che per ordine della Corte [aveva] dovuto fare colla nuova cattedra di economia» pose mai davvero fine a quegli interessi e a quegli studi, anche a distanza di molti anni da quando da «metafisico» si era trasformato in «mercante»14. Nel comunicarlo all’amico Romualdo Sterlich nel febbraio 1754 (avrebbe inaugurata la sua cattedra il successivo 5 novembre) aveva commentato: «O le risa!», quasi adombrando un qualche timore di apparire o essere giudicato ridicolo per un passaggio così radicale, e anche così rapido15. Poi le risa non vi furono, e vi fu, invece, fin dal primo momento un successo, che avrebbe lasciato un’indubbia traccia nella storia culturale e civile del suo paese. Il che non significa, peraltro, che la conversione di Genovesi agli studi di economia non continui a presentare problemi di genesi e di significato, sui quali il non esiguo sviluppo degli studi genovesiani non pare, a nostro avviso, aver fatto piena luce (se, occorre, però, aggiungere, piena luce è possibile fare).
Certo è, comunque, che, una volta effettuato quello «sbalzo degli studi», la linea del pensiero economico di Genovesi si dimostra fin dagli inizi, come abbiamo già notato, compiuta e matura. Vale perciò, la pena di prendere atto della svolta dei suoi interessi e studi, tralasciando anche gli importanti problemi riguardanti le fonti e le influenze che egli con la sua opera pone. Concentriamoci, invece, sui propositi che egli nutrì e sulle tematiche, le analisi, le prospettive, le proposte, l’insieme delle idee, insomma, che formulò e svolse.
Anche per questo il Discorso sopra il vero fine si rivela immediatamente una fonte primaria e decisiva, e ciò sia per la cronologia precoce dello scritto, che è addirittura quello inaugurale della nuova attività del Genovesi economista, sia per alcuni dei concetti fondamentali che in esso sono svolti.
Si noti, ad esempio, come dal discorso generale col quale esso si apre sul «vero fine delle lettere e delle scienze» si passi, quasi ex abrupto, a trattare del Regno di Napoli. Ovunque, si dice, in Europa si era stati illuminati dal «nuovo lume di ragione» operato dal rinnovamento filosofico e scientifico di cui erano stati addotti come eponimi Bacone e Galilei. Il Regno di Napoli, invece, non si sa «per qual nostra fatalità», era rimasto all’oscuro di quel lume e si era ridotto ad essere «l’ultima Esperia dell’orbe letterario»16.
Questo era, peraltro, in effetti, solo un segreto disegno divino per rendere «più glorioso ancora il governo» del regnante Carlo di Borbone17. Argomento, come si vede, invero, peregrino, e da addebitare al costume politico adulatorio dell’ancien régime, sul quale sarebbe utile avere uno studio ad hoc, e che, certo, era anche una sorta di polizza assicurativa contro i rischi di un libero parlare e scrivere nei tempi di una censura ancora vigorosa e di un dispotismo che, per quanto illuminato potesse essere, era pur sempre chiuso a un’effettiva libertà di parola. Non è qui però, il punto importante di questo passaggio così deciso e repentino da un discorso generale al caso particolare del Regno, che la formulazione del titolo del Discorso non lasciava necessariamente prevedere. Il punto importante sta nei due corollari che immediatamente ne sono tratti. Il primo è la constatazione della già notata arretratezza culturale in cui il Mezzogiorno si è venuto a trovare dall’età di Bacone e di Galilei in poi, ossia dal tardo ’500 fin quasi alla metà del ’700: quasi due secoli. Il secondo è un’analoga constatazione, sulla quale ci si deve fermare.
Come mai gli altri paesi d’Europa sono andati così avanti e hanno lasciato così indietro il Mezzogiorno d’Italia, che pure aveva avuto un suo passato di primario rilievo anche nel campo economico? La ragione ne sta nell’opera dei governi. Era stato il grande Luigi XIV a portare così avanti la Francia. Era stato Pietro il Grande a fare della Moscovia, barbara e arretratissima, un paese uniformato ai canoni dei governi europei più avanzati. E ovunque era stata una nuova e prioritaria importanza riconosciuta alla cultura e all’ingegno a fornire l’orientamento necessario a un’illuminata e moderna politica. Nel Regno di Napoli si era iniziato a muoversi in questa direzione, ma, per quanti progressi vi fossero stati, si era ancora molto indietro18.
Ecco, dunque, il doppio punto: arretratezza e governo. Senza affrontare questo nodo, era inutile aspettarsi che il lume della ragione si diffondesse qui come era necessario. Dei lumi non vi mancavano, ma «la ragione non è utile se non quando è divenuta pratica e realtà»: il criterio, cioè, che abbiamo già visto, di un razionalismo empirico e pragmatico, di cui non c’era ancora traccia nel Regno, dove si amava «più disputare che operare». E qui la critica storico- politica si faceva critica della cultura dominante nel Mezzogiorno, che era «un semenzaio di nobili e grandi ingegni», ma continuava a trascurare le «gentili ed utili scienze» e a coltivare «la gloria delle sottigliezze e della ciarleria», i «vani e puerili giochi di mente de’ nostri maggiori». In una parola, la riforma politica comportava, e addirittura presupponeva una riforma culturale. Né bastava. Una terza riforma occorreva: la riforma morale. Qui «il cuore è ancora debole»; continuavano «le non rette, né giuste, private nostre passioni», senza «contemplare il comun bene della nostra patria»19. E dal contesto si capisce bene che per Genovesi, quando questo elemento di moralità e di impegno civico è assente, non bastano né governo, né cultura a sortire l’effetto voluto di uno sviluppo del Mezzogiorno che lo porti al livello dei paesi europei più avanzati.
Tutto ciò premesso, è, però, il Mezzogiorno in grado di affrontare e superare una simile prova di progresso? La risposta è categoricamente affermativa. Non solo il paese è un «semenzaio di nobili e grandi ingegni»: ha, cioè, le forze intellettuali per operare la necessaria riforma della cultura. Il paese ha anche il suolo ricco e ferace, il clima beato, una posizione geografica favorevolissima al commercio e l’attitudine a coltivare il commercio, la consistenza demografica. Quattro grandi risorse, che con tutta evidenza si offrivano a chi osservava e conosceva il paese; ed erano, appunto, le risorse necessarie, i requisiti indispensabili per lo sviluppo.
C’era, però, una «quinta cagione della ricchezza e potenza d’un paese», cioè «l’industria degli abitanti», la capacità di applicazione e di tenacia, per cui «poveri ed oscuri popoli» in un paese «picciolo ed infecondo» erano diventati «ricchi ed illustri», mentre «popolatissime nazioni in fertili terreni» si trovavano ad essere «le più disprezzate e le più miserabili della terra»20.
Su questo punto il discorso di Genovesi si faceva particolarmente interessante; e vien fatto di pensare che fosse così perché egli ravvisava qui un nodo decisivo del problema. Essenziale gli appariva «l’industria », ossia l’industriosità di un popolo. Era un motivo diffuso già ai suoi tempi. «Ecco un campo nobile – scriveva, ad esempio, il Muratori – per farsi merito col suo principe in suggerir tutto ciò che può rendere più industrioso, più facoltoso e abbondante di beni lo Stato di lui»21. Il «campo nobile» ravvisato dal Genovesi era il diretto rapporto fra l’industriosità del popolo e la diffusione della cultura: «è manifesto esser difficilissima cosa, per non dire impossibile, ch’una nazione possa essere saviamente industriosa, e perciò ricca, grande e possente, senza sì bel lume delle menti umane»22. L’ignoranza di massa è una remora decisiva al progresso. Senza il progresso della cultura non si sarebbero avute «le più belle ed utili scoperte fatte ne’ tre trapassati secoli». È, quindi, «desiderabile che questo lume si diffonda ancora viepiù, o che […] dalle parti più alte discenda e si comunichi fino alla più infima del popolo»23.
L’importanza di questa affermazione non ha bisogno di troppi commenti. Anche perché – si aggiunga – quel che Genovesi chiede non è un programma di istruzione superiore per tutti. È molto preciso e concreto. È che «il leggere, lo scrivere ed un poco d’abbaco divenisse quasi comune»: cosa che, nota, «i Franzesi l’hanno presso a poco conseguita». E ancora: sarebbe tanto difficile – egli chiede – «che à ragazzi insieme col catechismo della religione e della morale si facesse anche apprendere una lieve istituzione di agricoltura, di commerzio e d’altre arti»? Dunque, non solo un’elementare alfabetizzazione, ma anche una specifica istruzione professionale, come egli pensa che a breve distanza di tempo si sarebbe vista in Toscana. Né basta. Questa istruzione professionale deve avere una sua qualità. Genovesi chiedeva pure, infatti, «che vi fossero delle accademie, sulle quali insieme cogli artisti e contadini intervenissero dei matematici e dei fisici, i quali dessero loro delle utili lezioni»; e anche qui adduceva degli esempi, citando Inghilterra e Toscana. E, finalmente, proponeva che «gli addottrinati giovani» del Regno si prendessero cura «di esaminare ciascuno le derrate e l’arti del suo paese e proporre in volgar lingua i modi d’accrescerle e di migliorarle», ancora una volontà seguendo un esempio, la Francia, e ricordando pure che «tra di noi» non si poteva affatto affermare che non vi fosse «niente da migliorare nelle biade, nella seta, negli oli, nel vino, nelle piante, nella meccanica, nel commerzio, nelle arti»24.
Il Discorso sopra il vero fine proseguiva con un ampio e vibrante elogio di Bartolommeo Intieri, di cui ben si comprende il movente nei riguardi del patrocinatore e sponsor della sua cattedra, e, tuttavia, saldamente fondato sugli effettivi grandi meriti dell’Intieri quale sperimentatore e inventore di macchine agricole e quale convinto fautore dell’importanza della tecnologia ai fini dello sviluppo economico25. Dall’elogio Genovesi ricavava, inoltre, la finale indicazione di sei «mezzi da rinvigorire gli impegni, il coraggio e l’industria degli abitanti di queste felici contrade, i quali sembrano inviliti ed impoltroniti»: l’impegno dei «grandi» nell’influire «nello spirito e nei moti della più bassa parte degli uomini» al fine di indirizzarli alla grande meta da lui proposta; un’uguale azione da parte del clero; un impegno della «studiosa gioventù» nel promuovere e curare l’«industria», di cui gli aveva parlato; un’Accademia nazionale che promettesse a giovani di tutte le province del Regno di comunicare le rispettive scoperte, invenzioni e tecniche innovative nel campo dell’economia produttiva del paese; «la volontà e l’industria» da mettere in moto per far progredire il paese e riscattarlo dalla sua arretratezza; e, «sesta causa della ricchezza, potenza e felicità d’un popolo, il buon costume»26, che non è soltanto un appello per «la purità de’ costumi e la virtù», ma indica anche un impegno primario degli «uomini di lettere», degli intellettuali, perché quando le lettere «tra gli altri loro fini non riguardino questo come principale, elle non sono né vere né utili»27.
La conclusione del Discorso ne ribadisce con rinnovata forza la più profonda finalità: riconoscere, innanzitutto, e quindi affrontare l’arretratezza del Regno. Qui vi erano «delle terre […] a paragone delle quali potrebbero parer culti e gentili i Samoiedi, il leggere e lo scrivere vi è stimata cosa miracolosa, l’urbanità e la pulitezza delle maniere non ha fra essi né idee né vocaboli, la loro nobiltà, come ne’ secoli della più rozza barbarie, è tutta posta nella forza, la morale vi è selvatica in modo che non paiono esser cristiani se non perché battezzati». E, nonostante tutto ciò, vi si facevano «delle stupende spese, la quarta parte delle quali, quando fossero state impiegate con giudizio, avrebbe potuto rendergli uguali à più civili ed a i più saggi d’Italia». Superbi ornamenti, fabbriche e monumenti potevano testimoniare «della forza [di chi li aveva voluti], ma non del loro sapere», laddove «una scuola delle prime lettere, un collegio d’arti, che avessero migliorata la loro ragione e i loro costumi, avrebbero costato meno alla patria», e sarebbero stati un ben altro e più autentico motivo di gloria28.
Il Discorso del 1753 è, dunque, davvero un grande manifesto-programma che illustra i requisiti fondamentali di un processo di moderno progresso e sviluppo, ne constata la carenza o l’assenza nel Mezzogiorno per la sua arretratezza culturale e civile, delinea i punti teorici principali sui quali bisogna impegnarsi per costituire un quadro di orientamenti che servano di guida in questa direzione; e tutto ciò nella triplice persuasione – che il Mezzogiorno si trovi in uno stato di prolungata decadenza dal quale riesce a uscire, – che l’avvento al trono di Carlo di Borbone abbia aperto una prospettiva di condizioni favorevoli all’ammodernamento e al progresso del paese con un governo già avviato su tale strada, – e che il Mezzogiorno abbia le risorse e i mezzi naturali e sociali e il capitale umano indispensabili al conseguimento del fine voluto.
Il Discorso è, perciò, un documento impressionante del grado di conoscenza dei problemi a cui avrebbe dedicato il suo incarico universitario acquisito dal Genovesi in un giro di anni alquanto ristretto, e su una base culturale fondata fino ad allora su tutt’altri elementi disciplinari. Si capisce pure che di una cattedra destinata a lui in materia di «commercio e meccanica» egli doveva aver sentito ben prima che il 30 dicembre 1753 licenziasse alle stampe il Discorso sopra il vero fine, e c’è da ribadire l’ammirazione per l’impegno che aveva profuso nell’impadronirsi di una tematica complessa, propria di una disciplina allora ancora nelle prime fasi di uno svolgimento che ne avrebbe rapidamente consolidato lo status tra quelle primeggianti sulla cultura moderna. Ancor più notevole è poi che fin da allora l’economia non gli si configurasse come una scienza teorica di utilità che dovessero essere perseguite nei diversi settori della produzione e del commercio, del credito e dei servizi. Gli si configurò subito, infatti, come una disciplina che aveva senso se si poneva e aiutava a capire e ad affrontare i problemi di quei settori in un determinato quadro sociale e istituzionale.
Naturalmente, e altrettanto fin dal primo momento, il quadro cui egli si riferì fu il Mezzogiorno. Così è nel Discorso sopra il vero fine, così sarà negli anni seguenti e in tutta la sua attività universitaria e nelle sue pubblicazioni. Chi scorra anche soltanto l’indice della sua opera di gran lunga più organica in materia, ossia le Lezioni di commercio, lo vede subito, e così era già negli Elementi di commercio, prima redazione, ultimata già nel 1757, delle Lezioni pubblicate dieci-dodici anni dopo29. Nelle Lezioni la trattazione dei problemi del Regno è, anzi, alquanto ampliata rispetto agli Elementi. Né è questione soltanto di ampiezza. Il riferimento alle problematiche del Mezzogiorno si avverte costante anche là dove di Mezzogiorno non si fa alcuna menzione. Si avverte che è la sollecitazione di una specifica e assillante realtà a muovere gli interessi e le considerazioni del Genovesi. Ed è per questa ragione che appare sempre da ricordare il giudizio che considera le Lezioni di commercio «un trattato di politica economica […] nel moderno senso della parola»30 assai più che un trattato di economia politica.
Per questo aspetto riesce spontaneo collocare Genovesi nella scia della tradizione napoletana di riflessione sui problemi economici del paese, che si era sempre più sviluppata dai tempi di Antonio Serra a quelli del Broggia, ossia dagli inizi del secolo XVII alla metà del secolo XVIII31. Rispetto a questa tradizione, a lui certamente ben presente, Genovesi introduce, tuttavia, un forte elemento di innovazione, in quanto il suo pensiero non si sviluppa come una critica generale del regime napoletano in fatto di economia o come singole, eventualmente anche acute, analisi di aspetti e problemi particolari delle condizioni economiche e sociali del Regno. Un elemento costituito dal fatto che con lui abbiamo, invece, un giudizio complessivo organicamente elaborato e un modello di sviluppo del Regno altrettanto specificamente articolato, alla luce di alcune idee fondamentali della nascente scienza economica del suo tempo, quale non si ritrova neppure nell’altro grande economista napoletano suo contemporaneo, ossia in Ferdinando Galiani, che pure condivide con lui il risalto che alla “classical neapolitan school” è da tempo riconosciuto nel quadro di quella scienza nascente, e con un solo precursore altrettanto rilevante, quale fu Antonio Serra, un secolo e mezzo prima.
Nella politica economica che, sulla base degli accennati sviluppi del suo pensiero, il Genovesi finisce col delineare, e che è sempre una politica di ammodernamento e di sviluppo, il luogo centrale è indubbiamente occupato dall’agricoltura. A suo avviso, le potenzialità naturali di questo settore nel Mezzogiorno sono enormi, e tali da consentire che vi si abbia una popolazione molto più folta di quanto non fosse a metà del secolo XVIII, e pari o superiore, piuttosto, a quella ben maggiore che si riteneva aver caratterizzato il paese nell’antichità. Ciò significa che la reale struttura geo-fisica delle regioni meridionali sfuggiva a lui, come accadeva alla generalità dei contemporanei, e come si comincerà a dubitare che fosse quale si immaginava soltanto più di un secolo dopo, sfatando il mito del Mezzogiorno come un felice Orto delle Esperidi, una terra beata in cui frutti erano di gran lunga minori del possibile solo per malgoverno e ignoranza.
Bisognava, dunque, modificare e potenziare la produttività dell’agricoltura meridionale, ostacolata da una forte sottoutilizzazione del suo capitale naturale, ossia la terra, e da un capitale umano non preparato e qualificato a valorizzarla, in un contesto umano le cui condizioni di miseria non consentono la formazione di una plusvalenza atta a formare i capitali necessari allo sviluppo agricolo e carenti. Perciò, Genovesi ritiene essenziale l’impegno sulla terra di un ceto di gentiluomini, che possa disporre di quei capitali, in collaborazione con tecnici esperti (scienziati, egli li chiama).
Dunque, risorse finanziarie e adeguamento teorico. Il pensiero di una “riforma agraria” è lontanissimo da lui nel senso della distribuzione e dotazione di terre ai contadini. Questo gli appariva uno di quei «rimedi o impossibili o pericolosi alla pubblica pace»32 perché nascenti da «entusiasmi o vapori» di plebi oppresse e disperate, come era accaduto a Napoli al tempo di Masaniello33. Al contrario, la sua preferenza per i “gentiluomini” quali protagonisti del rinnovamento agrario rispondeva non solo a un criterio sociale che lo teneva lontano da ogni forma di populismo, ma anche alla sua certezza che quella fosse l’unica classe in grado di muovere con capitali propri alla necessaria trasformazione di un mondo agricolo arretrato. Di qui anche una visione sociale che contempla un ruolo eminente per un’aristocrazia fatta di gentiluomini che fossero tali non perché membri della feudalità o del patriziato o di una qualsiasi nobiltà istituzionalmente riconosciuta, ma per la parte che consapevolmente svolgessero nella vita economica e sociale ai fini del progresso e della modernizzazione e per la disponibilità di risorse convenienti a un tale scopo. Una tale classe era, per definizione aperta e dinamica, e vi si poteva entrare sia dall’alto che dal basso della scala sociale, senza garanzie privilegiate di restarvi se non la propria funzione. Ugualmente egli rifiuta l’idea dei grandi affitti: la chiave del successo sul piano agrario è nella costituzione di un robusto ceto di proprietari, piccoli o grandi non conta, che siano coltivatori diretti; e ciò esclude, di conseguenza, la possibilità di contemplare un ruolo della feudalità e delle terre di status feudale nell’auspicata opera di trasformazione e di modernizzazione, stante che una tale opera esclude una concezione delle popolazioni rurali come una massa damnationis, una condizione sociale destinata a essere tenuta quanto più possibile in soggezione e in miseria per usufruire del suo lavoro al costo della pura e semplice sopravvivenza.
Il suo implicito rifiuto di una prospettiva feudale della trasformazione agraria alla quale puntava come cardine politico ed economico del suo pensiero lo avrebbe, del resto, portato nel 1768, l’anno prima della morte, ad auspicare l’unità nell’esercizio della giurisdizione del Regno nel solco dell’amministrazione regia, il che comportava la soppressione de facto dell’esercizio feudale di quella giurisdizione, che era il vero cuore e il massimo strumento del potere baronale34. È, però, da notare la stretta associazione che Genovesi fa di “gentiluomini e baroni”: un punto poco tenuto presente del suo pensiero politico e sociale. «Il bene del nostro paese si vuole aspettare da una [certa] sorta di sapere de’ nostri gentiluomini e baroni», scriveva a Francesco Loffredo di Migliano, al quale Genovesi aveva dedicata la sua edizione del trattato del Trinci, il 22 settembre 1764; «la maggior parte delle terre di questo Regno sono sotto la loro giurisdizione», e dal governo che essi ne facevano. Un trattamento ragionevole e umano dei loro vassalli o coloni e massari era «un vantaggio non solo de’ popoli lavoranti, ma di essi gentiluomini e signori», come chiaramente dimostrava l’esempio della «buona coltura de’ Toscani e degl’Inglesi»35.
Ciò significa che per Genovesi la proprietà borghese non poneva problemi minori di quella feudale, e non poteva obbedire a logiche economiche e sociali diverse da quelle alla cui osservanza egli richiamava i baroni. Significativo è il quadro internazionale delle condizioni contadine che egli tracciava puntando sull’elemento per lui essenziale dell’autonomia del contadino e della necessità che «i contadini si persuadano di lavorare per sé e per li loro figli». Riteneva, infatti, che «il contadino inglese è più savio e più diligente del francese, perché è più padrone. Il francese è più del napoletano per la medesima ragione, ed il napoletano è più del polacco». Una proprietà borghese che praticasse una gestione delle sue proprietà non diversa da quella baronale non avrebbe risolto nulla. Il problema non era solo sociale, era ancor prima e ancor più un problema di cultura agraria e un problema di intelligenza imprenditoriale. Provvedersi di buone notizie e «cominciare a fare delle sperienze», da un lato, e opportuni investimenti con l’idea «di spendere e di mettersi in testa di perdere tute le prime spese» erano le tre regole che egli considerava essenziali, insieme con quella del buongoverno dei contadini, per il progresso agrario realizzato all’insegna degli interessi generali36. A che avrebbe giovato una massa contadina ridotta a «una turba di mendichi avviliti a forza di battiture e renduti simili alle bestie»37? Ma egli aveva anche chiaro che fra gentiluomini e baroni erano questi secondi a rappresentare una più consistente e decisiva forza nella vita del Regno. Ed è per ciò che ai baroni si rivolge allorquando il problema della enormità delle proprietà ecclesiastiche e del loro continuo incremento gli appare come una remora fondamentale da rimuovere per realizzare il progresso al quale egli pensa: «non so che occhi si abbiano i nostri baroni; fra poco essi co’ loro vassalli saranno tutti addicti glebae de’ frati»38. Egli, cioè, sapeva bene che il peso della proprietà borghese negli equilibri politico-sociali del Regno era nettamente inferiore a quello della nobiltà feudale.
Un’elevazione nelle condizioni materiali dei ceti contadini appare, dunque, chiaramente messa in evidenza quale condizione necessaria per alimentare un circuito di consumi e di risparmi, e anche di incremento demografico, che metta in grado di uscire dalla logica della sopravvivenza. Il suo nessun interesse a una soluzione contadina del problema agrario nasce proprio dalla convinzione che al livello contadino l’ottica della sopravvivenza rappresenti una via troppo congeniale e spontanea perché la si possa evitare. La sua indicazione della proprietà diretta coltivatrice, che sia colta tecnicamente, quale fattore sociale decisivo del problema agrario è legata, per l’appunto, a una tale convinzione. Ed è partendo di qui che Genovesi arriva all’altro polo della sua politica economica, ossia il commercio. Ma quali sono le condizioni del commercio?
Sono, naturalmente, le condizioni determinate dalla grande fioritura e sviluppo dell’economia del suo tempo, sulle quali egli non cessa mai di soffermarsi e di insistere in base alla sua convinzione di una storica e innegabile arretratezza del Mezzogiorno. Non si tratta, però, solo di questo. Sussiste per lui un presupposto fondamentale, che non è storico, ma strutturale. «È chiarissimo – scrive, infatti – che non si può essere gran commercio, e commercio utile, se non in que’ paesi dove sia grande il fondo del traffico»39.
Le implicazioni di questa affermazione sono molteplici e tutte importanti. La prima è, certamente, che il commercio non ha sempre la stessa utilità. Vi può essere un gran movimento commerciale senza che un paese ne ricavi utile, se il commercio con gli stranieri si svolge su ragioni di scambio sfavorevoli o se il commercio interno si svolge al livello dei bisogni elementari, per cui il movimento è molto, ma non cresce l’insieme. Dunque, non è il commercio in sé a essere positivo e utile; sono il contesto in cui si svolge e la complessiva bilancia commerciale a renderlo tale. Una seconda implicazione è che a far fiorire il commercio si richiede indispensabilmente un grande «fondo del traffico». Richiede, cioè, un’attività produttiva in grado di fornire al commercio una robusta quantità e una qualità concorrenziale delle merci e beni prodotti. E per Genovesi è indubbio che nel caso del Mezzogiorno sia l’agricoltura ad assicurare ciò.
Centralità dell’agricoltura, dunque: un’agricoltura non di sopravvivenza, tecnicamente consapevole e avanzata, e, soprattutto, un’agricoltura considerata «come negozio», ossia che produca per il mercato, così come le manifatture e come avviene in «tutte le nazioni che amano la loro vera ricchezza e grandezza»40. Un’agricoltura in grado di assicurare al paese un ampio margine attivo nella sua bilancia commerciale, col quale provvedere alle importazioni necessarie al Regno. Importazioni che, a loro volta, e allo stesso modo, dal punto di vista del discorso sullo sviluppo del paese hanno senso, anch’esse, solo se non si limitano alla soddisfazione di esigenze elementari del consumo e forniscono elementi e stimoli alla generale crescita del paese.
Della necessità di uno sviluppo manifatturiero del Regno Genovesi è più che convinto. Le sete, la lana e le altre materie prime escono dal Regno per essere esportate nei paesi in cui le si lavora e che le riportano nel Mezzogiorno a prezzi superiori, per ovvie ragioni, a quelli della materia prima esportata. Senza dire che le manifatture del Regno sono così carenti che, «se i forestieri non ci portassero degli aghi, ci converrebbe cucire con delle spine de’ pesci come i Groenlandi», mentre ugualmente «ci mancano de’ buoni rasoi, delle forbici», mentre «nell’arte delle serrature ci superano di molto i Tedeschi» e «gli strumenti chirurgici si vogliono in gran parte far venir da fuori»41.
Mentre, però, agricoltura e commercio hanno bisogno non soltanto, ma soprattutto di convenienti normative, allo sviluppo delle manifatture è indispensabile il sostegno del governo. È importante la conseguente precisazione per cui si afferma che il sistema fiscale deve gravare per intero sulla proprietà terriera, sulle terre, «e tutte, senza eccettuarne un palmo»42: tutte, cioè, anche le proprietà ecclesiastiche, feudali, aristocratiche o privilegiate in genere. Occorrendo, è meglio tassare «le case e ‘l consumo giornaliero che le manifatture»43. Piena liberazione del commercio e grandi esenzioni fiscali e sostegni del governo per le manifatture: la ricetta genovesiana per lo sviluppo è inequivoca. Se il governo affrontasse, ad esempio, un incremento di quattro milioni di ducati del debito pubblico e li impiegasse per impiantare «fabbriche di lana, di seta, di lino e canapa, di bambagia», e nello stesso tempo sostenesse «la navigazione de’ prodotti interni» e ne aiutasse «il fondo», il risultato di uno sviluppo del paese sarebbe assicurato. L’accresciuto debito sarebbe facilmente pagato con gli aumenti fiscali resi possibili dall’arricchimento del paese44. Bisogna, perciò, rovesciare il sistema fiscale del Regno, fondato sulla tassazione delle manifatture e delle esportazioni, mentre «doveva aver la base sulla terra»45, largamente esente per i privilegi feudali, ecclesiastici e di altro genere.
È una logica economica globale, dunque, quella coltivata dal Genovesi. Lo è al punto da fargli proporre di esportare per quattro o cinque anni «tutto quel che si può togliere à nostri bisogni», impiegando nel modo dovuto le disponibilità così ottenute, l’effetto propulsivo dello sviluppo ne sarebbe assicurato, e il paese dipenderebbe dall’estero il meno possibile46. Il Regno può passare rapidamente da 3 a 6 milioni di abitanti, dei quali cinque milioni potrebbero vivere di agricoltura e un milione di manifatture e commercio47. L’equilibrio economico e sociale del paese sarebbe assicurato a un livello di molto superiore che a quello del presente, e il paese dipenderebbe dall’estero in misura irrilevante.
Beninteso, non è che in tutto ciò manchino incertezze, se non contraddizioni o insufficienze. Ad esempio, Genovesi è convinto che il Mezzogiorno non sia di fatto quel grande produttore agricolo che si diceva, ma ammette, in principio, che lo sia per costruire lo schema di sviluppo a cui egli pensa, in cui viene delineato il già ricordato raddoppio della popolazione, in un paese che egli stesso, giudicando dalla miseria dei contadini, riteneva perfino sovrappopolato. Per lo meno c’è, nello schema di questa proposta, un’evidente deficienza riguardo ai tempi e riguardo alla concatenazione e coordinazione dei tempi di uno sviluppo agrario previsto quale scaturigine e molla essenziale dello sviluppo auspicato. Ma ciò a cui bisogna badare qui è la linea volutamente empirica e pragmatica dell’interesse di Genovesi al problema dello sviluppo e del suo pensiero al riguardo. Che è, poi, la ragione per cui le discussioni sulle fonti e le parentele o derivazioni di tale pensiero nel quadro della cultura del tempo sono essenziali nella storia delle idee e della loro circolazione, nonché nella più generale biografia intellettuale di Genovesi, senza, però, che sia possibile ridurre a tali fonti, parentele o derivazioni il nucleo vivo e storicamente più importante del pensiero economico genovesiano. Il nucleo, cioè, del suo taglio meridionale e del suo spessore riformistico e modernizzante.
La modernità è, di fatto, la stella polare dei suoi orientamenti già proprio sul piano dell’economia e di tutte le attività in cui essa si articola. Né la modernità è nel suo pensiero economico una nozione astratta o genuina. Egli ne ha, al contrario, un’idea molto precisa, fondata su un modello visibile in piena luce nell’Europa dei suoi tempi. È il modello anglo-franco-olandese quello che per lui, storia moderna ed esperienza contemporanea alla mano, fornisce l’indicazione più piena del moderno. Un modello in cui l’economia viene fondata su uno stretto rapporto con l’innovazione scientifica e tecnica. Un modello in cui la parte della modernizzazione dell’economia è precoce, rilevante e determinante (e non è per caso che le sue discussioni sul rinnovamento necessario al mondo agrario del Mezzogiorno siano fondate su testi inglesi, ossia del paese in cui la moderna “rivoluzione agraria” aveva già avuto pienamente corso, e – detto per inciso – è proprio questa conoscenza a dare lucidità e spessore alla sua analisi dell’arretratezza dell’agricoltura meridionale).
Un punto gli è chiarissimo. L’economia moderna richiede una cultura economica e teorica, richiede una conoscenza delle arti e del commercio conforme a tale cultura, per cui «quella nazione che n’è ignorante o negligente resta povera, vile e schiava». Modernità e cultura moderna procedono allacciate. È la percezione di questo nesso a fare meglio giudicare dell’arretratezza del Regno. Questa arretratezza non viene, dice Genovesi, «dal suolo e dal clima». Non consiste nemmeno in una vera e propria deficienza di capitali. Egli valuta a dieci milioni di ducati in contanti il totale dei capitali che «ristagnano» nei banchi napoletani, mentre le province «languiscono» perché ne sono prive e bisognose48; e ciò spiega perché a Napoli l’interesse sul denaro è basso: qui il denaro abbonda, ma non vi sono arti e commercio in cui impiegarlo, l’arretratezza meridionale proviene tutta «dal governo, dalle leggi, dalle scienze, dal culto religioso tendente a fare amare la fatica»49. È tutto questo che bisogna mettere in moto: governo e leggi, scienze e culto religioso.
Quello che abbiamo insistito nel definire empirismo e pragmatismo della posizione assunta dal Genovesi sul problema dell’arretratezza del Regno e della linea di governo dell’economia che volesse affrontare quel problema si risolve, dunque, nella proposta, in parte implicita, ma nella massima parte esplicita, di una politica impegnativa e complessa di riforme. Era una politica da tardo mercantilismo? O era un conformarsi al neomercantilismo spagnolo, francese ed inglese? Oppure un precorrimento della fisiocrazia? O, ancora, puro e semplice eclettismo? Quale che fosse, era tutto fuso in un problema di vita, nonché di solo pensiero. Nessun dubbio è possibile sulla vastità della cultura economica che egli si sforzò di procurarsi, e Venturi ne ha fatto un quadro che sembra difficile modificare: un quadro che, come è noto, vede in prima posizione Forbonnois e Dangeul, e, accanto, gli spagnoli Uztáriz e Ulloa, ma presuppone un’ampia informazione di tutta la principale cultura dei Lumi d’Oltralpe e d’Italia50. Si può, tuttavia, aggiungere che non solo egli parla spesso di opere conosciute da lui solo indirettamente, come nel caso dell’opera dell’agronomo inglese Jethro Tull, conosciuta attraverso il Duhamel51, e soprattutto che, nel sollecitarne il pensiero, la riflessione su opere di storia economica valse di più o almeno valse quanto quella sui lavori di teoria economica: il che non è senza importanza per intendere la reale ispirazione del suo pensiero.
Un pensiero – notiamo qui per inciso – che aveva anche una sua dimensione e scaturigine umana: la sua notazione sugli Ottentotti ai cancelli delle ville aristocratiche e borghesi è un tratto che non è possibile dimenticare o sottovalutare52.
Si è, invero, delineata di recente una crescente tendenza a vedere in Genovesi un chiaro passaggio dall’economia politica a un’“economia civile”53, ossia un’economia dominata dal principio del bene comune e del diritto di tutti alla felicità, sulla linea di posizioni di pensiero politico ed economico largamente diffusesi tra XX e XXI secolo. Non crediamo, però, che l’assonanza o identità di alcuni termini ricorrenti negli scritti del Genovesi consentano di farne un precursore di quelle posizioni. Semmai si dovesse procedere su questa linea, sarebbe allora da dire, piuttosto, che Genovesi si muove sulla base di un’esigenza e di uno sforzo di delineazione e di applicazione di una teoria dell’interesse generale. Col rischio, tuttavia, di fare di lui, avant la lettre, un liberale non puramente e semplicemente liberista, quando, invece, il quadro della sua riflessione politica è chiaramente quello della monarchia illuminata e riformatrice. E, oltretutto, si deve anche ricordare che sempre Genovesi accoppia al problema economico quello della indipendenza e potenza del paese. La nuova “nazione” napoletana che egli auspica dev’essere, come si è visto, «grande, ricca e potente»: una triade terminologica di evidente e denso significato, mentre il termine “potenza” ricorre assai spesso ne suoi scritti.
Del resto, la specificità del pensiero economico di Genovesi nel senso del problema di una liberazione del Mezzogiorno dall’arretratezza che lo confinava ai margini dell’Europa civile non mancò di apparire chiara già ad alcuni dei suoi contemporanei. Beccaria era, ad esempio, convinto che la riflessione del Genovesi fosse «più adatta alle circostanze ben differenti e alle leggi del Regno di Napoli che alle circostanze locali e alle leggi» della sua Lombardia54; e Pietro Verri solo alla fine, e senza grande entusiasmo, riconobbe i pregi di pensatore del Genovesi, che, comunque, continuò a ritenere, benché avesse avuto un gran nome, «tanto diffuso e cruscante», ossia prolisso e toscaneggiante nel solco del purismo dell’Accademia della Crusca55. Ma questo certamente non è un limite che possa influire sulla valutazione del rilievo storico e sostanziale del pensiero del Genovesi, che non solo apportò qualcosa alla disciplina che aveva preso a coltivare dell’economia politica, ma seppe volgere consapevolmente questa disciplina in quella di una politica economica, che, a sua volta, si segnala, pur nella sua specificità napoletana, perché coincide con una delle primissime delineazioni di una politica di sviluppo per un paese arretrato da far avanzare e modernizzare. Che poi la linea da lui suggerita si presti a varii rilievi, perplessità, contestazioni e contraddizioni è vero. Se, però, si pensa che nei successivi due secoli e mezzo, sia come teoria e politica dello sviluppo in generale, sia in particolare riferimento al Mezzogiorno, si è inventato molto, ma poco con sicuro successo e corrispondenza nella realtà, anche la precoce delineazione del Genovesi può assumere un più chiaro e meritorio significato. E ciò, anche a prescindere dal successo indubbio e amplissimo che sulla linea del suo pensiero riformatore e modernizzante egli ebbe nel mobilitare tutta una generazione di discepoli vicini e lontani e nello scrivere, così, una pagina innegabilmente molto positiva della storia del suo paese.











NOTE
1 Così L. Sandonà, Civic Virtues, Human Capabilities, and Public Happiness: The Lesson of Italian Classical School, in HEIRs – Happiness and Interpersonal relations – Market and Happiness. General Papers, 2005, p. 1, nel quadro di un discorso sul complesso della «Italian classical school», secondo una definizione non nuova, anzi tradizionale, in Italia e fuori, sin dalla fine dell’Ottocento. Per questo e per quanto appresso diremo sull’interesse del Genovesi e dei suoi contemporanei italiani per l’economia, si veda pure S.A. Reinert, The Italian Tradition of Political Economy. Theories and Policies of Development in the Semi-Periphery of the Enlightment, in J.K. Sundaram, E. Reinert (edd.), The Origins of Development Economics. How Schools of Economic Thought Have Addressed Development, London, Zed Books e New Delhi, Tulika, 2005, pp. 24-47. Inoltre, L. Costabile, Scuola napoletana, in Enciclopedia Italiana, VIII Appendice, Il contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012, pp. 240-251. La definizione di “classico” prese corpo, com’è noto, soprattutto in relazione allo sviluppo della cosiddetta “scuola storica” dell’economia nella seconda metà dell’Ottocento, ma, come si accennerà in seguito, proprio in Genovesi vi sono elementi che hanno fatto parlare di lui come un precursore dei motivi storicizzati di questa scuola “storica”. Per altri aspetti si veda anche F. Di Battista, L’Economia civile genovesiana e la moderna economia politica, in Genovesi economista, a cura di B. Jossa, R. Patalano, E. Zagari, Napoli, Istituto per gli Studi Filosofici, 2007, pp. 291-307, il cui titolo promette, tuttavia, più di quanto il testo offra.^
2 J.A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, tr. it., Torino, Boringhieri, 1959-1960, vol. I, p. 215 n.^
3 Cfr., ad esempio, G. Galasso, Genovesi: il pensiero religioso, in Idem, ‘La filosofia in soccorso de’ governi’. La cultura napoletana del Settecento, Napoli, Guida, 1989, pp. 369-400. Per un profilo generale di Genovesi cfr. M.L. Perna, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 53, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999, pp. 148-153. Molto meno felice L. Bruni, Genovesi, Antonio, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Economia, cit., pp. 358-365.^
4 «Il filosofo, insomma, deve fare i conti con la storia»: così, molto a ragione, conclude E. Garin, Dal Rinascimento all’Illuminismo. Studi e ricerche, Firenze, le Lettere, 19932, p. 264, il suo saggio su Antonio Genovesi metafisico e storico, ivi, 247-264, che è, tra l’altro, una buona dimostrazione della mens filosofica del Genovesi. Sul Genovesi filosofo si veda, inoltre, anche S. Ricci, Antonio Genovesi, in Enciclopedia Italiana, VIII Appendice, Il contributo italiano alla storia del pensiero. Filosofia, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2012, pp. 331-340.^
5 Per questo punto del pragmatismo come caratteristica degli illuministi e riformatori meridionali nel quadro dell’Illuminismo europeo, generalmente ignorato, si veda G. Galasso, Illuminismo napoletano e Illuminismo europeo, in Idem, ‘La filosofia in soccorso de’ governi, cit., pp. 31-48. Il problema è inquadrato nella storia generale del Regno in G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, 6 voll., Torino, Utet, 2006-2011, vol. IV, Il Mezzogiorno borbonico e napoleonico (1734-1815), in specie pp. 210 segg., 423 segg., 579 segg., 731 segg.; e vol. VI, Società e cultura del Mezzogiorno moderno, pp. 467-555: alla quale Storia perciò si rinvia per quanto riguarda il contesto storico di tutto quanto segue. Può essere opportuno ricordare qui che proprio l’intuizione di questo aspetto pragmatico-operativo degli illuministi napoletani portò Franco Venturi a definire il pensiero di Genovesi come momento inaugurale del pensiero riformistico napoletano, postulando in esso un momento di rottura con la precedente tradizione meno pragmatica e meno operativa del pensiero napoletano, compreso, in esso, il Giannone: una visione che coglieva appieno lo spirito di quel riformismo, ma ne perdeva la profonda unitarietà nella storia intellettuale del Mezzogiorno quale si svolge fin dallo scorcio del secolo XVII, ferma restando, peraltro, l’importanza fondamentale e imprescindibile degli studi di Venturi per Il Settecento italiano ed europeo.^
6 Cfr. L. De Rosa, Genovesi e l’industrializzazione, in Idem, Economisti meridionali, Napoli, Istituto per gli Studi Filosofici, 1995, pp. 96-97.^
7 Ivi, p. 93.^
8 Per il Discorso seguo l’edizione Venturi in Illuministi italiani, vol. V, Riformatori napoletani (“La letteratura italiana. Storia e testi”, ed. R. Ricciardi, vol. 46, t. V)), a cura di F. Venturi (d’ora in poi: Riformatori napoletani), Milano-Napoli, 1962, pp. 84-131. Qui p. 85. Una più recente edizione è in A. Genovesi, Scritti economici, a cura di M.L. Perna (d’ora in poi: Scritti economici), Napoli, Istituto per gli Studi Filosofici, 1984, vol. I, pp. 9-57.^
9 Ivi, p. 84 n.^
10 Ivi, p. 91.^
11 Ivi, pp. 95-97.^
12 Ivi, p. 101.^
13 Cfr. A. Genovesi, Scritti economici, cit., vol. I, pp. 119-163. Per la storia dell’edizione genovesiana del Cary si veda, comunque, Riformatori napoletani, p. 132 n.^
14 Così Genovesi scriveva al padre Liberato Fassoni il 19 [?] 1762: cfr. A. Genovesi, Autobiografia e lettere, a cura di G. Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 143-144.^
15 In Riformatori napoletani, pp. 289-291 la lettera allo Sterlich del 23 febbraio 1754. Ivi, p. 286 n. un breve profilo dello Sterlich.^
16 Ivi, p. 97. Su queste vedute genovesiane si veda Garin, Dal Rinascimento all’Illuminismo, cit., pp. 231-247.^
17 Ibidem.^
18 Ivi, pp. 97-100.^
19 Ivi, pp. 100-103.^
20 Ivi, p. 107.^
21 È un passo da uno dei più famosi tra i libri del Muratori, ossia il Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principii, edito nel 1749, senza indicazione di luogo, ma anche come stampato a Lucca (in realtà, Venezia), e più volte edito in seguito. Qui si cita dall’edizione modenese del 1766, “per li fratelli Borsi”, p. 34. Si veda anche l’edizione a cura di C. Mozzarelli, Roma, Donzelli, 1996.^
22 Riformatori napoletani, p. 107.^
23 Ivi, pp. 109-110.^
24 Ivi, pp. 110-111.^
25 Ivi, pp. 113-118. Sull’Intieri si veda il profilo in Dizionario Biografico degli Italiani, curato da M. Fubini Leuzzi, vol. 62, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2004, pp. 521-524; e soprattutto le notizie date nei lavori di F. Venturi e di M.L. Perna via via citate qui.^
26 Ivi, pp. 118-124.^
27 Ivi, p. 126.^
28 Ivi, pp. 129-131. Questo e altri, più estesi e specifici, passi di Genovesi hanno fornito le indicazioni per i numerosi interventi, di vario livello e valore, sulla nozione, in lui, di capitale umano nel quadro della più generale nozione di capitale sociale.^
29 Per la cronologia e la composizione delle opere economiche di Genovesi si vedano soprattutto il Venturi nei Riformatori napoletani e l’edizione delle Lezioni di commercio o sia di Economia civile, con Elementi del commercio, a cura di M.L. Perna, 2 voll., Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2005.^
30 Così G. Galasso, Genovesi: il pensiero economico, in Idem, ‘La filosofia in soccorso de’ governi’. La cultura napoletana del Settecento, Napoli, Guida, 1989, p. 412. Di quello studio è uno sviluppo e una puntualizzazione la presente relazione.^
31 Su questa tradizione napoletana si vedano le pagine di L. De Rosa, Economisti napoletani, cit., pp. 9-79 su Serra, Giannone e Broggia. Si ricordi pure R. Ajello, La critica del regime in Doria, Intieri e Broggia, in Idem, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli, Jovene, pp. 301-427. Sul Serra si veda poi S.A. Reinert – E.S. Reinert, An Early National Innovation System: The Case of Antonio Serra’s 1613 Breve Trattato, in «Institutions and Economic Development / Istituzioni e sviluppo economico», 1 (2003), n. 3. Sul Broggia ricordiamo ancora A. Graziani, Moneta, banche e reddito nel pensiero di Carlo Antonio Broggia, in «Rivista italiana degli Economisti», 9 (2004), n. 2, pp. 291-302. Per il nostro punto di vista rimandiamo ai già citati G. Galasso, ‘La filosofia in soccorso de’ governi’, e Storia del Regno di Napoli (voll. III-V e, in particolare, vol. VI, pp. 291-465).^
32 Così lo stesso Genovesi nella prefazione a L’agricoltore sperimentato, di Cosimo Trinci con alcune giunte dell’abate Genovesi [………], in Napoli MDCCLXIV, Nella Stamperia Simoniana, per cui vedi Genovesi, Scritti economici, cit., II, p. 882.^
33 Così nelle Lezioni di commercio, in un interessante contesto, per cui cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, Torino, Einaudi, 1969, p. 625.^
34 Per l’atteggiamento di Genovesi su questo problema si vedano le sintetiche notazioni di Galasso, ‘La filosofia in soccorso de’ governi’ etc., cit., pp. 427 segg.^
35 Genovesi, Autobiografia e Lettere, cit., p. 174.^
36 Così nella lettera a Leonardo Cortese del 1° settembre 1764, ivi, pp.171-173: una delle più importanti per la conoscenze del suo pensiero economico e sociale.^
37 Nella prefazione a L’agricoltore sperimentato del Trinci, in Scritti economici, cit., vol. II, p. 886.^
38 Nella lettera al Cortese, cit., p. 173^
39 Genovesi, Delle Lezioni di commercio, cit., p. 643.^
40 Genovesi, Ragionamento sul commercio in universale, in Idem, Scritti economici, cit., vol. I, pp. 155-156.^
41 Delle Lezioni di commercio, cit., p. 631 n. X^
42 Ivi, p. 605.^
43 Ivi, p. 731.^
44 Ivi, p. 593 n. j.^
45 Ivi, p. 730.^
46 Ivi, pp. 503-504.^
47 Cfr. Galasso, ‘La filosofia in soccorso de’ governi’, cit., p. 422.^
48 Cit. in L. Villari, Il pensiero economico di A. Genovesi, Firenze, Le Monnier, 1959, p. 103.^
49 In A. Genovesi, Delle lettere familiari […] coll’aggiunta di alcune lettere di diversi Uomini illustri al medesimo, In Napoli, per Vincenzo Orsino, ed a spese di Giacomo-Antonio Venaccia, 1788, vol. II, p. 22.^
50 Si vedano su questo punto fondamentale le puntuali indicazioni fornite in Venturi, Settecento riformatore, cit., pp. 565-574.^
51 Come osserva M.L. Perna, Nota critica, in Genovesi, Delle Lezioni di commercio, cit., p. 907, al Nuovo metodo di agricoltura del signor Tull Genovesi aveva dedicato il cap. XIV degli Elementi di commercio, ripubblicato poi come Idea del nuovo metodo di agricoltura inglese in appendice alla edizione del manuale del Trinci, per cui vedi Genovesi, Scritti economici, cit., vol. II, pp. 1101-1122. Sulla dipendenza dal Duhamel per la conoscenza del Tull cfr. Genovesi, Ragionamento sul commercio in universale, in Scritti economici, cit., p. 144.^
52 Si veda la lettera a Romualdo Sterlich del 27 ottobre 1753, in Genovesi, Autobiografia e lettere, cit., pp.74-75.^
53 Cfr. ad esempio, L. Bruni, S. Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna, il Mulino, 2004; ed Economia come impegno civile: razionalità, benessere ed economia di comunione, a cura di L. Bruni, V. Peligra, Roma. Città Nuova, 2002.^
54 Cit. in Venturi, Nota Introduttiva alla sua selezione di scritti di Genovesi, in Riformatori napoletani, cit., p. 37.^
55 Ibidem.^
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