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La scuola impossibile
di Giovanni Carosotti
Con questo breve scritto (Giulio Ferroni, La Scuola impossibile, Salerno editrice, Roma 2015) Giulio Ferroni torna a riflettere sulla scuola, dopo l’importante La Scuola sospesa, pubblicato presso Einaudi nel 1997. È un testo scritto di getto, concepito subito dopo la pubblicazione del documento «La Buona Scuola» da parte dell’attuale governo; Ferroni ha avvertito l’urgenza di intervenire, nella consapevolezza che la trasformazione della scuola auspicata dall’esecutivo rappresenti l’esito conclusivo, e definitivamente compiuto nella sua radicalità, di trasformazione e di smantellamento non solo della scuola pubblica italiana, ma di tutta la tradizione pedagogica e culturale nazionale su cui essa si è retta per diversi decenni. Non si tratta di uno scritto che si dilunga, da un punto di vista tecnico, sulle nuove metodologie d’insegnamento che, in modo autocelebrativo, si definiscono “didattica innovativa” e che invece, nella visione dell’Autore, costituiscono un regresso dal punto di vista culturale e cognitivo. «La Buona Scuola» non è infatti un progetto originale e innovativo, bensì l’attuazione di una riforma auspicata da tempo, a partire dal ministero dell’Istruzione guidato da Luigi Berlinguer e sostenuto con continuità da tutti gli esecutivi successivi, sulla base di presupposti teorici cognitivistici la cui insufficienza epistemologica Ferroni aveva già denunciata nel suo scritto precedente; al limite, la scelta di Matteo Renzi è stata quella, approfittando di un clima politico favorevole, di optare per la versione più radicale – sia dal punto di vista della metodologia sia per la rimodulazione della professione docente – tra le varie proposte di riforma, in particolare come l’aveva concepita l’allora sottosegretario all’Istruzione Valentina Aprea e che il Partito Democratico, ironia della sorte, aveva provveduto a bocciare. Il riferimento a quanto scritto nel precedente volume rimane per Ferroni fondamentale, e ad esso l’Autore rimanda per una più precisa disamina critica nei confronti del pedagogismo. In particolare, l’Autore tiene a sottolineare la convergenza delle proprie riflessioni di allora con un altro studio pubblicato in quegli anni (Lucio Russo, Segmenti e bastoncini, Feltrinelli, Milano 1998), scritto da un autorevole fisico. Questo per sgombrare il campo da una diffusa quanto inconsistente polemica che approfitta in modo interessato dei contenziosi sulla scuola per contrapporre artificiosamente le discipline umanistiche (che avrebbero goduto di uno status culturale privilegiato) alla cultura scientifica la quale, sia sul piano metodologico quanto contenutistico, otterrebbe nella nuova scuola quel protagonismo che prima le era mancato. Si tratta di una presa di posizione di mediocre livello intellettuale, smentita dal fatto che anche esponenti tra i più in vista della cultura scientifica e matematica manifestano dissenso verso questa pseudoscienza che è il pedagogismo, i cui roboanti quanto fallibili presupposti metodologici sia Ferroni sia Russo avevano contestato con adeguata ironia; giustamente, nella parte finale dello studio, si afferma come non sia «credibile nessuna opposizione tra umanesimo e scienza: la scienza moderna è una risultanza dell’umanesimo». Punti fermi della posizione critica di Ferroni sono la denuncia in merito al carattere inconsistente del concetto di «competenza», pilastro da vent’anni del nuovo pedagogismo («Sembra che questo gran parlare di competenze […] escluda ogni verifica critica della nozione stessa. […] Resta indeterminato lo spessore semantico della competenza») e la critica alla cieca fiducia nel «potere risolutivo attribuito all’informatica e all’inglese». Per quanto riguarda le nuove tecnologie l’Autore, richiamandosi agli studi di Carr, Spitzer, Morozov, Maffei, non esita a paventare il rischio di un regresso cognitivo, qualora l’informatica, piuttosto che supportare e valorizzare il sapere disciplinare, facesse valere «la sua pretesa di assolutezza sulle pratiche didattiche». L’utilizzo pedagogistico delle nuove tecnologie, che ambirebbe a creare un ambiente irenico in cui si apprende «in modo piacevole e rispondente a personali desideri e bisogni» in realtà, puntando più sul mezzo di trasmissione educativa che sui contenuti, evita «sempre più la problematicità, la riflessione critica, la proiezione sul lungo periodo», per «tendere all’effetto immediato, alla diretta manifestazione del proprio modo d’essere, dell’atto di occupazione dello spazio comunicativo».
Aleggia in questo nuovo studio un sentimento di amarezza, nella consapevolezza che le obiezioni formulate già nel 1995 erano ben più che fondate e ragionevoli, e trovavano inoltre riscontro in buona parte del mondo intellettuale, su più fronti disciplinari (si veda a proposito anche lo studio di Fabrizio Polacco, La cultura a picco, Marsilio, Venezia 1999); eppure ciò non è valso a mutare la politica verso la scuola dei vari governi, i quali hanno mantenuto ferma la consulenza con i teorici del pedagogismo, nonostante l’inconsistenza dei loro assunti teorici. Nella prima parte del testo, Ferroni mostra di voler prendere sul serio il progetto renziano, al quale riconosce una progettualità complessiva che era mancata in precedenza, dopo i fallimenti dei tentativi di riforma dei ministri Berlinguer prima e Moratti poi. Ma tali buoni propositi, e anche lo sforzo di valutare il lavoro dell’esecutivo con l’atteggiamento meno carico di pregiudizi possibile, si esaurisce di fronte alla faciloneria e il semplicismo del testo, tanto da definirlo come caratterizzato da un «ottimismo sbruffone». Dietro frasi ad effetto roboante, che nulla hanno dello stile consono a un provvedimento così delicato dal punto di vista intellettuale, appare l’inconsistenza della teoria su cui poggiano le richieste di cambiamento, l’appiattirsi del progetto su una logica «calcolistica» e produttivistica che – nonostante quanto affermino i suoi fautori – è ben altra cosa dal sapere e dalla cultura scientifica, alla quale pure non è in grado di offrire alcun serio contributo e potenziamento. Un approccio indifferente «ai contenuti culturali» e che è teso «soprattutto a mettere in gioco possibilità e combinazioni offerte dalla strumentazione informatica e dall’uso della rete».
La novità del testo in esame è quella di giustificare in modo alternativo l’opposizione alla deriva pedagogistica e tecnocratica della scuola italiana. Non solo evidenziando con precisione argomentativa le insufficienze teoriche e il carattere di pseudoscienza di alcune applicazioni del cognitivismo in ambito didattico; ma soprattutto prendendo sul serio, e ribattendo nel merito, alla motivazione apparentemente più incontestabile dei sostenitori della trasformazione a tutti i costi della scuola. Ovvero la necessità di riconfigurare il sistema d’istruzione in virtù di un mondo che è radicalmente cambiato. Per potersi affermare nella nuova socialità, di carattere globale, che è propria dell’epoca postfordista, la scuola dovrebbe modificare radicalmente contenuti e metodi; i vecchi contenuti di cultura, infatti, non darebbero le “competenze” adeguate ad affrontare questa nuova realtà. Ferroni imposta la sua replica a questa apparentemente incontestabile affermazione da un doppio punto di vista. In primo luogo egli contesta la valutazione, proposta dai nuovi teorici dell’istruzione, riferita al nuovo contesto sociale. Si tratta di un mondo, quello della globalizzazione, che tende a realizzare una «omologazione universale»; dove la stessa economia non è più «produzione di beni necessari alla vita […] ma competizione illimitata, espansione e crescita senza fine»; il «capitale umano» è allora «orientato verso la funzione competitiva» mentre la «società della conoscenza» è direttamente funzionale all’impiego economico. In altre parole, il mondo che si va delineando non appare semplice per i futuri discenti, molti dei quali vivranno l’amara e drammatica esperienza dell’esclusione, del non riuscire a mantenere i ritmi di una competitività spinta all’estremo. Tanto più grave la loro situazione, perché non vengono offerti loro gli strumenti per diventare consapevoli del mondo in cui sono inseriti, in modo da permettere una comprensione piena dei meccanismi della società globale e delle possibilità di inclusione ma anche di esclusione che essa prevede. Anzi, prevale un sentimento di palese inconsapevolezza, proprio perché la nuova cultura della competitività, sostenuta con protervia dalla spinta produttivistica che pervade il presente, invade l’immaginario, incoraggia «la funzione dell’apparire e dello “stare” nel presente». In altre parole, nell’epoca della globalizzazione, «il mondo non si fa più riconoscere attraverso la mediazione delle arti e delle scienze, ma attraverso quella delle nuove forme mediatiche». Questo sistema agisce ad ogni livello dell’esperienza culturale: contesta il valore dei libri quali strumento di conoscenza, promuove la scrittura «come libera irresponsabilità». Gli effetti di quanto appena descritto non sono solo demoralizzanti dal punto di vista culturale, con la perdita di ogni autorevolezza verso le migliori prese di posizione intellettuale (esemplari gli esponenti politici che deridono gli uomini di cultura non omologati, apostrofandoli quali «professoroni»), la diffusione della volgarità e della banalità o, ancora più grave – e qui la riflessione di Ferroni si congiunge con quella che da tempo propone Massimo Recalcati –, la perdita di prestigio della figura del maestro e, con lui, dell’insegnante. Al di là di questo, quindi prescindendo da un sempre più diffuso processo di analfabetizzazione culturale (con il rischio,come scrive Lamberto Maffei citato da Ferroni, che l’umanità sia condotta «fuori dall’universo del pensiero sequenziale» e che la globalizzazione produca «un’involuzione cerebrale»), questa incapacità di leggere in modo critico la realtà farà del futuro adulto una personalità capace solo di rapportarsi al mondo in modo passivo, di non poterne condizionare i processi trasformativi. L’unica speranza, peraltro diffusa oggi come modello di maggiore realizzazione esistenziale, sta nella capacità più o meno fortuita di inserirsi con successo nei sistemi di autoriproduzione e autovalorizzazione culturale, riuscendo ad essere tra coloro la cui immagine è in grado di affermarsi rispetto a un ampio numero di sconfitti o di mediocri. Di fronte a una tale prospettiva, quale dovrebbe essere il compito della scuola e quale la finalità più autentica dell’istruzione? La risposta per Ferroni è chiara: la scuola deve rappresentare un’istituzione che produce resistenza contro questa mentalità dilagante, un luogo che deve sfuggire, per caratteristiche proprie, a tutti gli altri ambienti del quotidiano frequentati dallo studente. Ciò comporta provvedimenti di carattere pratico, come costringere gli studenti a fare a meno del telefonino durante il tempo trascorso a scuola; ma, soprattutto, la scuola deve mantenere la centralità delle materie curricolari, poiché le competenze, quelle vere, quelle che creano consapevolezza e sapere critico, possono apprendersi solo a partire – come sosteneva anche Gramsci – dallo sforzo profuso nel sapere disciplinare, finalizzato a superare le difficoltà oggettive che impone il mondo della conoscenza ma che ripagano con lo sviluppo di ben maggiori e fondamentali capacità intellettuali. La parte finale del libro di Ferroni è una miniera di indicazioni su come dovrebbe svilupparsi la didattica disciplinare per una scuola che intenda veramente aiutare gli alunni ad affrontare da adulti un mondo complesso come l’attuale. C’è un bisogno di scuola «forte», che «mantenga viva la coscienza del luogo in cui è radicata (l’Italia), della sua lingua, storia e cultura». Di conseguenza la «padronanza della lingua» deve diventare «il fondamento di ogni educazione e ambito scolastico». La scuola non deve subire i recenti linguaggi impoveriti diffusi tra le nuove generazioni, mutuati dalla pubblicità, e sciaguratamente utilizzati in ambito giornalistico o politico («si perde l’articolazione logica, l’ordine e l’equilibrio delle argomentazioni»). Ne deriva l’importanza della narrazione («argomentazione e narrazione sono necessari fondamenti della democrazia»), la rivalutazione del «vecchio tema» e del libro cartaceo. Va potenziata anche la didattica delle lingue straniere, ma non con quell’atteggiamento di supinità culturale prevalso nelle Università italiane, oppure palese nel progetto CLIL, grazie ai quali si è realizzata «una rinuncia plateale alla caratterizzazione italiana di uno o più campi del sapere». Molto riuscite poi le pagine dedicate alla geografia e alla storia, due discipline da anni mortificate nei nuovi curricula; non si tratta affatto di una scelta casuale. Il pedagogismo oggi dominante ha fatto sua una pericolosa convinzione (già ampiamente discussa e delegittimata in La Scuola sospesa), la quale ritiene che la motivazione di uno studente vada stimolata incentrando tutti i contenuti di studio sul suo ego, sul suo mondo familiare, concependo la «centralità dello studente» quale «sottoscrizione delle forme mentali entro cui lo studente già si dispone»; i mezzi di trasmissione del sapere, quindi, dovranno coincidere con quelli cui lui è più abituato (per esempio i videogame; Ferroni non a caso parla di «bislacca utopia di una virtualizzazione generale dell’istruzione»); l’istruzione invece – e qui Ferrroni richiama altre importanti analisi proposte da Adolfo Scotto di Luzio – ha il compito di aprire a un mondo sconosciuto, di stimolare esperienze non vissute nel contesto quotidiano («una delle qualità è anche quella di creare uno spazio parzialmente sottratto al contatto con la famiglia»). La geografia e la storia sono le discipline cruciali per realizzare tale apertura emancipativa: la prima «chiama in causa il mondo che è là fuori»; la storia invece «dà il senso dell’alterità». La riduzione della conoscenza storica decisa in questi ultimi anni è, per Ferroni, «irresponsabile». Pensiamo di non strumentalizzare le pagine di questo studio se affermiamo che in esso si condivida un’impostazione storicistica del sapere; la storia non solo come disciplina specifica, ma fondamento dello sviluppo di qualsiasi conoscenza, tanto che «l’insieme delle discipline scolastiche dovrebbe essere in grado di confrontarsi con la storicità del sapere». E, accanto alla nozione di storicismo, si potrebbe considerare anche quella di «geografismo», nel senso che Ferroni assegna un analogo ruolo fondamentale alla dimensione spaziale, e quindi geografica, di ogni sapere. Se la geografia è la disciplina dello spazio, «tutte le materie scolastiche vanno commisurate alla spazialità». Lasciamo al lettore il piacere di leggere le ulteriori, stimolanti osservazioni relative alla cultura classica, a quella biblica e cristiana, all’arte e alla musica, di cui nella «Buona Scuola» tanto si parla ma «non viene fuori granché», in quanto tali conoscenze non vengono contestualizzate in quella dimensione spazio – temporale senza la quale non si fa cultura, non si trasmette sapere, non si comprende criticamente il mondo. Ciò vale anche per l’economia: se Ferroni critica la subordinazione non meditata dell’istruzione ai bisogni dell’economia («richiesta di saperi immediatamente spendibili nel mondo del lavoro» che però «resteranno sempre troppo larghi per un immediato approdo a particolari compiti lavorativi»), egli comunque sostiene il valore della disciplina se posta in relazione in modo proficuo con la storia e la filosofia. Un proposito opposto a quello previsto ne La Buona Scuola, dove si afferma proprio la necessità di decontestualizzare il contenuto della scienza economica, ridotto a procedure astratte – formalizzanti. Ma questo proficuo modo di intendere la trasmissione culturale, che invera il meglio della tradizione filosofica, letteraria e scientifica italiana, non potrebbe sprigionare le sue positive potenzialità formative senza la figura del «maestro», ovvero di un insegnante capace di comunicare passione, coinvolgimento personale e amore per la cultura. Per creare il desiderio del sapere altro da sé, l’insegnante deve dimostrare prima di tutto quanto i contenuti disciplinari facciano parte del proprio vissuto, abbiano costruito positivamente la sua personalità intellettuale e, quindi, lo abbiamo messo in condizione di valorizzare al massimo la proprie capacità di relazione intersoggettiva nel desiderio di condividere tale attrazione intellettuale, di carattere evidentemente erotico (per richiamare ancora gli studi di Recalcati, nel segno dell’insuperata analisi platonica). Il «destino della scuola» – scrive non casualmente Ferroni all’inizio del suo studio – «è legato alla passione degli insegnanti, alla loro convinzione al valore della cultura e delle materie che insegnano». Da qui però – è questo è doveroso monito a chi troppo pigramente concepisce la professione docente in modo autoriflessivo – deve derivarne un proficuo lavoro di collaborazione nei Consigli di Classe, non per realizzare la vuota interdisciplinarietà voluta dalla “didattica delle competenze” o da sperimentazioni di scarso valore come il CLIL, ma utilizzando quei riferimenti spazio – temporali comuni di cui si diceva: il «convergere di diversi strumenti e diversi punti di vista su ciò che connette l’insieme delle culture». L’unico appunto che potrei fare a Ferroni è quando egli, stigmatizzando giustamente le pratiche burocratiche cui sono costretti ad assolvere i docenti a scapito della trasmissione di sapere, tende a mostrare diffidenza verso l’obiettivo di «favorire la motivazione nel discente». Al di là del linguaggio, e della scarsa credibilità delle frasi di circostanza con cui tale impegno si ritrova nei verbali, esso è a mio parere il cuore della funzione docente, il proposito che contiene in se la promessa di emancipazione contenuta nella pratica dell’insegnamento, che invera le migliori qualità dell’insegnante, e che il testo di Ferroni sostanzialmente condivide. Di fronte a questa analisi, il progetto de La Buona Scuola, e il disegno di legge che si è realizzato dopo la pubblicazione del libro di Ferroni – segno che per le autorità ministeriali le obiezioni di merito da parte di personalità di prestigio del mondo intellettuale italiano rimangano parole al vento – si rivela inconsistente sul piano intellettuale e, soprattutto, distruttivo per la scuola e la cultura nazionale. In esso traspare un ottimismo immotivato per il tempo presente, che illude studenti, genitori e insegnanti, facendo loro credere che per affrontare un mondo molto più difficile e con molte meno garanzie si possa addirittura diminuire il proprio impegno e sforzo nell’acquisizione di sapere. Un disegno di legge che fa proprio quel feticismo nei confronti dello strumento informatico destinato a destabilizzare i saperi, che si fonda su presupposti cognitivisti il cui unico carattere certo è la protervia con cui si impongono ignorando qualsiasi dato falsificante. È duro e drammatico quanto scrive Ferroni, ma noi ci sentiamo di condividerlo: egli parla di un «fondamentalismo» che «si rivolge proprio contro l’orizzonte culturale e i più liberi modi di vita faticosamente conquistati dall’Occidente nel corso degli ultimi secoli». Tale distruzione passa attraverso la disintegrazione della figura docente; nelle intenzioni del nuovo progetto di legge, esso si conformerà a due «immagini opposte e convergenti»: quella del «professore come tecnico» e quella del «professore come psicologo e assistente sociale». Anche in questo caso, lasciamo al lettore la polemica sulla questione del “merito”, che intende formalizzare una relazione che è impossibile da individuare «con parametri effettivamente credibili». Ci piace notare come Ferroni, che pure non è un insegnante di scuola superiore, abbia compreso in pieno il carattere destabilizzante, per la professione docente, del cosiddetto “organico funzionale”. Con quest’idea, i tecnici del ministero «sembrano riservare la progettualità a chi non insegna, quasi scollegandola dal confronto diretto con le classi». Difficile immaginare secondo criteri di ottimismo le prospettive future e non partecipare al senso di amarezza che pervade l’intero libro di Ferroni. Sarà importante però che, congiuntamente alla azioni di resistenza che gli insegnanti vorranno intraprendere per difendere la tradizione della scuola italiana, il mondo della cultura ai suoi più alti livelli si esprima nel sostenerli, comprendendo la gravità della posta in gioco.
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