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Il pensiero sociale cristiano tra modernità e contemporaneità. Qualche considerazione storica
di Alfonso Tortora
Il discorso che segue nasce dalla lettura di una recente riedizione italiana del Contratto sociale di Rousseau, pubblicata da Feltrinelli con introduzione di Alberto Burgio, traduzione di Jole Bertolazzi e note critiche di Andrea Marchili1. In particolare, dalla interessante introduzione di Burgio2, soprattutto nelle parti dedicate alla complessa idea che Rousseau esprime sullo «stato regolativo della volontà generale»3, sulle modalità con cui si possa «aiutare il popolo» nelle sue capacità decisionali in ordine alle più convenienti strategie politiche da perseguire e, dunque, da porre in essere4, sui «presupposti etici della legislazione e l’eredità del contratto»5, ci sembrano emergere alcuni impliciti spunti utili ad una più ampia riflessione su un tema di stringente attualità: il concetto di «bene comune», che pure sembra essere tra i motivi cardini ispiratori dell’opera del Ginevrino. Si tratta di un tema che, come è facile intuire, non va assolutamente identificato con «il diritto alla felicità», di cui di recente Antonio Trampus ha offerto una interessante sintesi per l’età moderna6. Piuttosto, si tratta di una materia che, credo, oggi più di ieri, alla luce del più recente dibattito apertosi sulla nozione di «pensiero sociale della Chiesa», si sente necessario comprendere almeno nelle sue più generali direttrici di marcia storica. In questa semplice direzione, dunque, muovono le considerazioni che seguono, il cui valore è essenzialmente introduttivo ad un argomento di complessa articolazione e di assai difficile definizione storica.



1. L’attualità del tema

La nozione di «pensiero sociale della Chiesa» ha costituito un problema molto importante per i cristiani di tutti i tempi e delle differenti confessioni. Alcuni hanno posto in discussione il fatto che esista un modo «cristiano» di interpretare la civitas (volutamente espressa qui in latino e da intendersi come naturale evoluzione storica dalla gens all’organizzazione cittadina7); costoro, fortunatamente, non sono stati molti. Buona parte dei cristiani ha piuttosto avvertito al proprio interno molto spesso la turbinosa sensazione che debba esserci pur qualcosa di specificamente cristiano in tutto ciò che un cristiano pensi e realizzi. Indubbiamente, poi, ci sono cristiani, che sono del tutto certi che pur esista un modo cristiano di connettersi alla società; ed una delle loro più pregnanti convinzioni sembra mostrarsi attraverso la persuasione di avere un discreto controllo su quel modo e sono pronti – a dire il vero impazienti – a rendere battaglia a tutte le energie non cristiane e anticristiane che vi si oppongono. Cristiani di questo genere costituiscono, nel tempo e nello spazio, buona parte del grosso problema a cui prima abbiamo accennato e la realtà che quotidianamente viviamo appare profondamente intrecciata con quella che, molto sommariamente, chiamiamo la nostra epoca8.
Il pensiero sociale cristiano, nello specifico il pensiero sociale della Chiesa cattolica non può essere compreso al di fuori di quella che Joseph Ratzinger, nella sua veste di interprete della coscienza cattolica, ha chiamato la «struttura della fede». Il fine d’amore perseguito da Dio nella creazione, la sua elezione e alleanza con Israele, la sua autorivelazione in Gesù, la guida della Chiesa a opera dello Spirito Santo, il tutto sullo sfondo di un orizzonte escatologico costituirebbe per Ratzinger, è stato osservato, la struttura entro cui i cristiani individuano le loro responsabilità nella società9 e, aggiungiamo noi, nella storia. Il tema è importante e, perciò, merita qualche approfondimento.



2. Una riflessione sul «pensiero sociale della Chiesa»

Raphael Gallagher CSsR ha sostenuto che:
Con la sua dottrina sociale, la Chiesa si propone di assistere l’uomo sulla via della salvezza. Questo è il fine proprio della Chiesa. Non è lo scopo della Chiesa di invadere i campi altrui, trascurando i suoi propri fini. Con tutto il rispetto dovuto alla società ed allo Stato, la Chiesa segue la sua strada, che è la predicazione della Parola, la celebrazione dei sacramenti ed il servizio della carità10.


Proprio con riferimento a quanto ora detto da padre Gallagher CSsR, occorre richiamarsi a quanto nella Lettera Enciclica Deus caritas est del 2006 papa Benedetto XVI scrive:

La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l’adoperarsi per la giustizia lavorando per l’apertura dell’intelligenza e della volontà alle esigenze del bene la interessa profondamente11.


La Chiesa cattolica, dunque, per voce di un Papa, sembra ribadire un suo antico, innegabile diritto: guidare l’uomo verso la giusta fede. Essa, ci dice papa Ratzinger, «non deve mettersi al posto dello Stato» e ciò semplicemente perché una società giusta deve porsi come il costrutto di una giusta politica. Ovviamente, non va dimenticato che lungo questo percorso di orientamento verso la fede condotto dalla Chiesa cattolica il credente trova il quotidiano, il vissuto di tutti i giorni, di tutte le ore, di ogni minuto, dove vige prepotentemente la legge dell’organizzazione dei rapporti sociali e di potere. È in questo contesto umano, allora, che, come ha giustamente notato padre Neuhaus:«A un livello più elevato, la responsabilità sociale significa cercare di concepire e promuovere qualcosa che si può definire “bene comune”»12.
Appare tuttavia indiscutibile anche il fatto che nella storia umana l’espressione «bene comune» abbia generato uno squilibrio tra il bene cercato dai singoli individui e il bene della società intesa nel suo complesso. Ma cosa debba intendersi per «bene comune» e quale sia stato il suo significato all’alba di un’Europa sei-settecentesca annunciatrice di nuovi principi razionalistici ed empiristici nell’ordine politico-sociale ed economico, inaugurando altresì come prassi sociale i criteri dell’«utilità» e della «filantropia» e, sul piano dell’ordine religioso, il principio dell’«Essere Supremo» esente da ogni dogmatismo, ci sembra un interessante tema da saggiare, almeno nelle sue linee più generali, nel discorso che segue e ciò anche in considerazione del fatto che, con padre Gallagher CSsR, riteniamo che: «L’espressione bene comune è di uso costante nei testi quando si parla della dottrina sociale della Chiesa. Sorge però il sospetto che spesso si usi l’espressione senza un’idea chiara di cosa possa significare»13.



3. Sulle tracce storiche del «bene comune» in epoca moderna. Una nota su Cantillon

Su questo tema, ricercando le tracce storiche del concetto di «bene comune» in epoca moderna, senza attardarci in complesse ricostruzioni storiche, al posto di ricondurci al Calvinismo mediato dalle interpretazioni weberiane sull’«etica protestante e lo spirito del capitalismo» moderno, o alle teorie enunciate da Hobbes sull’origine pattizia della Sovranità legittimata ad organizzare secondo ragione i rapporti fra gli individui, o a Locke, i cui principi, come è fin troppo noto, si pongono alla base della moderna coscienza laica e liberale14, senza neanche accostarci al moderno concetto di «società civile» elaborato da Hegel tra il 1817 ed 182015, all’interno del quale pure ritroviamo il concetto del «vivere bene» in comunità16, limitiamoci ad accostare la nostra riflessione a ciò che nel primo trentennio del ’700 scriveva il banchiere irlandese Richard Cantillon17.
Si tratta di un personaggio, il quale fu tacciato in prima persona di essere il «nemico della cosa pubblica», ovvero del «bene comune», per aver tratto profitto individuale da una pur corretta speculazione finanziaria a danno dei suoi debitori (= investitori) nell’ambito di traffici economici, che trovavano largo impiego nella Francia del primo Settecento sulla base del «sistema finanziario» ideato da John Law18. Nel suo Essai sur la nature du commerce en général, al II capitolo, Cantillon annotava: «In qualsiasi modo si formi una società di uomini, la proprietà delle terre da essi abitate apparterrà necessariamente a un numero ristretto di essi»19.
Per Cantillon, il formarsi della «ricchezza», cioè l’accumulo di terra, da cui si traggono il «nutrimento, le comodità e gli agi della vita», nelle mani di un limitato gruppo umano costituiva un necessario carattere sociale, a cui conseguiva uno specifico ordinamento politico, che sul piano storico trovava le sue più esplicite ed innegabili conferme nei seguenti fatti:

Nelle società più stabili, quando un Principe alla testa di un esercito ha conquistato un paese, ne distribuirà le terre ai suoi ufficiali o ai suoi favoriti secondo i loro meriti o a suo piacimento (come avvenne in origine in Francia); stabilirà delle leggi atte a conservarne la proprietà a costoro e ai loro discendenti; oppure si riserverà la proprietà delle terre, e impiegherà i suoi ufficiali o favoriti per farle rendere; ovvero cederà loro le terre, alla condizione che gli sia pagato ogni anno su di esse un certo censo o tributo; oppure le cederà loro, riservandosi la facoltà di tassarli ogni anno secondo le sue necessità e le loro possibilità. In ognuno di questi casi, questi ufficiali o favoriti, siano essi proprietari assoluti, o dipendenti o ispettori del prodotto delle terre, non costituiranno che un piccolo numero in rapporto a tutti gli abitanti20.


Da questo brano del Cantillon sembra logico dedurre che, sul piano storico, il concentrarsi della «ricchezza» nelle mani di «un piccolo numero in rapporto a tutti gli abitanti» di una comunità abbia poi generato, in tempi diversi ed in differenti spazi dell’Europa moderna, il contrapposi fra le volontà particolari dei singoli cittadini e la volontà generale di un limitato corpo di individui, i cui interessi specifici tendono quasi naturalmente a sovrastare la volontà dei singoli.



4. Morale e politica in Jean-Jacques Rousseau

Di questa condizione sociale, dal carattere evidentemente politico, in una proiezione utopistica decisamente razionale parlava Jean-Jacques Rousseau. Per il «citoyen de Genève» la società sarebbe nata con la proprietà; e l’autorità (da intendersi come la sovranità) sarebbe l’effetto della difesa degli interessi dell’intera comunità, la quale può ritenersi libera e ad un tempo garantita nel principio dell’uguaglianza solo a condizione di aderire ad un accordo sociale, con cui si pone in essere una subordinazione degli interessi particolari alla volontà generale21.
Nel primo libro del suo Contratto sociale, al capitolo VII, parlando «Del corpo sovrano» Rousseau spiega come e perché si imponga la necessità che la volontà generale dei cittadini non debba identificarsi con la volontà dei singoli membri di una comunità in questi termini:
Infatti, ogni individuo può, come uomo, avere una volontà particolare contraria o diversa dalla volontà generale che egli ha come cittadino: il suo interesse particolare può parlargli in modo tutto diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta, e naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che egli deve alla causa comune come un contributo gratuito, la cui perdita sarebbe agli altri meno nociva di quanto il pagamento non sia gravoso per lui; e considerando la persona morale che costituisce lo Stato come un ente di ragione, dato che non è un uomo, egli godrebbe dei diritti del cittadino senza voler adempiere i doveri di suddito; ingiustizia, il cui sviluppo causerebbe la rovina del corpo politico22.


Con specifico riferimento a questo brano, in una lezione tenuta all’Università di Basilea nel 1956, in occasione della consegna della laurea honoris causa, l’economista piemontese Luigi Einaudi osservava che il brano ora citato va colto in tutta la sua essenza se letto in riferimento a ciò che nel Contratto sociale si dice qualche momento dopo, ossia nel capitolo III del secondo libro, là dove il Ginevrino si poneva la seguente domanda: «Se la volontà generale possa errare»23. All’inizio di questo capitoletto Rousseau scrive:

Da ciò si è detto consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica: non deriva però che le deliberazioni del popolo siano sempre ugualmente rette. Si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, e soltanto allora esso sembra volere ciò che è male24.


Ma cosa debba intendersi, esattamente, per «volontà generale», il Ginevrino lo spiega a chiare lettere nel prosieguo di questo discorso:

Vi è spesso molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa mira soltanto all’interesse comune; l’altra all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari: ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono a vicenda, resta quale somma delle differenze la volontà generale25.


Dunque, «la volontà generale – si chiedeva Einaudi nel commentare questi brani del Contratto sociale – è forse la somma algebrica delle volontà particolari o singole? «Sì – rispondeva l’economista – se deliberano i singoli uomini; no, se i loro raggruppamenti»26.

Nel proseguire la sua esposizione Einaudi si poneva una ulteriore domanda:

In qual modo persuadere il cittadino ad ignorare, nel momento in cui delibera, gli interessi particolari suoi, i suggerimenti dei gruppi, i quali brigano per indurlo a votare in un modo più tosto che in un altro27?.


Mediante l’ausilio ed il rispetto della legge, risponde Rousseau. Infatti, nel VI capitolo del II libro, parlando «Della legge», con evidente riferimento al rapporto tra la volontà generale e le volontà particolari, il Ginevrino precisa che:

Le leggi non sono propriamente che le condizioni dell’associazione civile. Il popolo, soggetto alle leggi, ne deve essere l’autore; solo a coloro che si associano spetta di regolare le condizioni della società. Ma come le regoleranno? Sarà di comune accordo, per subitanea ispirazione? Ha il corpo politico un organo per enunciare le sue volontà? Chi gli darà la previdenza necessaria per formare gli atti e pubblicarli anticipatamente? Ovvero, come li pronuncerà in caso di bisogno? Come potrebbe una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, perché raramente sa ciò che è bene per essa, realizzare da sé un’impresa così grande e così difficile quale un sistema di legislazione? Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere le cose come sono, qualche volta come devono apparirle, indicarle la buona strada che essa cerca, proteggerla dalle seduzioni delle volontà particolari, avvicinare ai suoi occhi i luoghi e i tempi, bilanciare l’attrattiva dei vantaggi presenti e sensibili con il pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli vedono il bene che non vogliono: la collettività vuole il bene che non vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni ad adeguare la loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altra a conoscere quello che vuole. Allora dalla pubblica consapevolezza risulta l’unione dell’intelletto e della volontà nel corpo sociale; da ciò l’esatto concorso delle parti, ed infine la maggior forza del tutto. Ecco da dove nasce la necessità di un legislatore28.


La necessità di una «guida», che indirizzi il cittadino, istruendolo, verso il «bene comune» appare in Rousseau come una necessità politica29, ma il cui valore è di grande rilevanza sociale e pedagogica e, forse, riprendendo il giudizio di Einaudi su questo punto, porta con sé anche una certa valenza religiosa30. Infatti, in presenza di quelle comunità, la cui dimensione umana si è enormemente accresciuta rispetto alle originarie condizioni di vita associata, su cui si è progressivamente innestata la vita dei piccoli Stati, dove il popolo si riunisce facilmente e la reciproca e semplice conoscenza diretta tra i cittadini rende tutto molto egualitario tra i ceti sociali, per Rousseau la democrazia diretta è una pura e semplice invenzione umana. Su questo specifico punto il cittadino di Ginevra si esprime a chiare lettere nel IV capitolo del III libro intitolato «Della democrazia», allorché scrive:

A prendere il termine nella sua rigorosa eccezione, non è mai esistita una vera democrazia, né esisterà mai. È contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata […]. Ecco perché un autore celebre [Montesquieu, nell’Esprit de lois, III, III] ha posto a fondamento della repubblica la virtù; perché tutte queste condizioni non potrebbero sussistere senza la virtù; ma, per non aver fatto le distinzioni necessarie, quell’uomo di genio ha mancato spesso di esattezza, qualche volta di chiarezza, e non ha visto che essendo l’autorità sovrana dovunque la stessa, lo stesso principio deve valere per ogni Stato ben costituito, più o meno – è vero – secondo la forma del governo. Aggiungiamo noi che non vi è governo tanto soggetto alle guerre civili e alle agitazioni intestine quanto quello democratico o popolare, perché non ve n’è nessuno che tenda così fortemente e continuamente a cambiare di forma, né che richieda maggior vigilanza e coraggio per esser mantenuto nella sua forma. È soprattutto in questa costituzione che il cittadino deve armarsi di forza e di costanza, e dire ogni giorno della sua vita nel profondo del cuore ciò che diceva un virtuoso Palatino [il palatino di Posnania, padre del re di Polonia, duca di Lorena] alla dieta di Polonia: «Malo periculosam libertatem quam quietum servitium». Se vi fosse un popolo di dèi, esso si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene agli uomini31.


In questa parte del Contratto sociale Rousseau sembra rinviare alla divinità come Ente regolatrice della vita sociale, ciò nella misura in cui, nota Einaudi, «il riconoscimento degli déi afferma la volontà generale»32.

Bertrand de Jouvanel, in una articolata e lunga introduzione dedicata agli aspetti prescrittivi della politica contenuti nel contrattualismo avanzato da Rousseau, ha parlato della «incursion d’un moraliste dans le domaine des institutions civiles»33; sulla più corretta interpretazione di questa frase, poi, si è espresso Robert Derathé, precisando, nella sua introduzione alla edizione einaudiana «del Contratto sociale», come «quel moralista non separava la morale dalla politica»34. Per il Ginevrino, allora, morale e politica costituiscono due obbligati punti di osservazione per chiunque voglia accostarsi alla conoscenza dell’individuo immerso nella vita sociale. Del resto, Rousseau aveva ben precisato, proprio nell’Emilio, che:
Bisogna studiare la società attraverso gli uomini e gli uomini attraverso la società: coloro che vorranno trattare separatamente la politica e la morale non comprenderanno mai niente dell’una e dell’altra35.


Quando Rousseau scriveva i suoi due capolavori – l’Emilio e il Contratto sociale – si ritrovava nella fertile solitudine di Mont-Louis, a Montmorency, a nord di Parigi. Siamo nel 1757. In questo luogo il Ginevrino terminava il romanzo dal titolo La Nuova Eloisa e cominciava a preparare il materiale per le famose Confessioni. Nel 1761 fu pubblicata la Nuova Eloisa, che ebbe grande successo; ma non altrettanto buon risultato ebbero le opere pubblicate da Rousseau l’anno seguente: il Contratto sociale, la cui vendita fu praticamente vietata, e l’Emilio, opera di cui alcuni giorni dopo la sua apparizione il Parlamento di Parigi ne decretò il rogo e per il suo autore l’arresto. Ma cosa ancora più interessante da rilevare è che la stessa città di Ginevra, prima, Berna, poi, condannarono alla distruzione questi due capolavori di Rousseau36.



5. Sovranità e «bene comune». Uno sguardo all’Europa centrale

Sullo sfondo dei discorsi sviluppati da Rousseau si configura il tortuoso cammino della formazione dello Stato laico occidentale, alla cui base si pone, almeno nelle sue fasi iniziali, l’incontro-scontro tra l’affermarsi di un illuminato potere personale del Sovrano, coincidente sempre più con un potere legibus solutus, ovvero sciolto da ogni regola superiore, anche di carattere divino37, e il «bene comune» perseguito dai singoli individui e che secondo il Ginevrino poteva ottenersi solo attraverso una buona ed efficace formazione della soggettività e della spiritualità umana; e questa sembra essere stata una delle ragioni, per cui scriverà l’Emilio38. Si tratta di un processo storico, in cui si innestano sia la crisi dello spirito europeo39, sia «l’elaborazione di un concetto di ragione e di razionalità avulso da ogni riferimento alla natura e al destino trascendente dell’uomo»40, ciò sulla base del giusnaturalismo razionalista e dell’etsi Deus non daretur derivata da un passaggio dei «Prolegomena» al De iure belli ac pacis di Ugo Grozio41. Inoltre, sono questi gli anni, in cui lo stesso concetto di equilibrio europeo appare legato all’idea di un’Europa composta da un insieme articolato di nazioni e di culture nazionali, che nelle rispettive, naturali segmentazioni politiche interne riflettono un nuovo assetto politico europeo fondato su concetti quali politesse – nozione che in autori come Rousseau assume l’intrepidezza della virtù42 – e civilisation, che nell’ottica degli illuministi s’identifica sempre più nell’«efficacia educativa» delle idee filosofiche e scientifiche43, ma che nel “Vicario savoiardo” questa «efficacia» viene disconosciuta semplicemente in funzione dei pericoli che presentava il diffondersi di quelle idee in mentalità non adatte ad assimilarle44.
All’indomani dei trattati di Utrecht (1713) e Rastadt (1714), con cui si chiude la guerra di successione di Spagna, l’Europa si apre ai differenti influssi commerciali, culturali e politici provenienti dall’Inghilterra. Proprio dal quel mondo, del resto, accanto al propagarsi delle idee liberali proveniva quel modello economico, su cui si fondava il debito nazionale inglese attraverso l’impiego dei capitali di molte famiglie, dai cui interessi annui traevano profitto e sussistenza. Si tratta di un modello finanziario che abbiamo già avuto modo d’incontrare parlando dell’irlandese Cantillon e consistente nei grandi guadagni provenienti agli investitori dal gioco sulle azioni, la cui valenza garantiva tanto alla «famiglia regnante» quanto ai «molti della nazione» il mantenimento di quell’interesse particolare considerato, da alcuni attendibili osservatori politici del tempo, motore e motivo del più generale concetto di «bene comune». Questo tema s’incontra chiaramente in una relazione veneta sull’Inghilterra del Settecento, redatta nel settembre del 1763 da due procuratori di San Marco, Tommaso Querini e Francesco II Morosini45. Il documento riveste un particolare interesse per il discorso che qui stiamo svolgendo. In alcuni punti di questa relazione, infatti, si colgono significativi sviluppi di temi e di strategie politiche già presenti da tempo nella società anglosassone del Seicento, ma che ora assumono una rinnovata fisionomia nell’incontro con la cultura dell’Illuminismo46. Sostanzialmente, come era prassi dell’azione diplomatica della Serenissima fin dal basso Medioevo, in questo rapporto si tendeva a privilegiare l’esame della lezione politica offerta dal paese visitato; ed è proprio alla luce di questa necessità che la relazione tendeva a sottolineare, tra gli altri, i motivi da cui discendeva il benessere di «molte famiglie» del regno. In quest’ottica, allora, la condizione economica e finanziaria a cui abbiamo fatto rapido cenno e da cui inevitabilmente dipendeva quella politica, appariva ai due procuratori di Venezia largamente coincidente con l’attuazione della logica del più generale concetto di «bene comune» di quella nazione e, «[…] quindi – si legge nella relazione – dal sistema economico, qual egli è, la famiglia regnante è difesa sul trono per l’interesse particolare di molti della nazione»47.
In diversi paesi – l’Italia compresa – poi, le idee giuridiche di Pufendorff, di Grozio48, l’«analisi della fede e la critica della ragione» espressa dalla filosofia di Pierre Bayle49 o la nuova concezione dell’universo promossa da Newton50, per non parlare del pensiero di Leibniz51, conquistarono gli spiriti. Inoltre, gli accenti filosofici e politici di Locke, all’interno dei quali si ritrovano concetti ripresi dal giusnaturalismo seicentesco, quali lo «stato di natura» e quello di «contratto sociale», orientarono le menti verso l’idea di una ragione – non una divinità – generatrice di una legge naturale universale volta al «bene comune», da intendersi essenzialmente come libertà dei singoli52. Si apriva, insomma, la stagione dei governi illuminati, riformistici, ciò seppur con notevoli diversità sul contesto europeo, che troveranno negli anni successivi alla pace di Aquisgrana del 1748 una loro dimensione più ampia, pur serbando i più larghi caratteri assolutistici del secolo precedente. Si tratta di un fenomeno nuovo nella storia d’Europa, dove il pensiero “dei lumi” contro l’autorità e la tradizione assolutistica tardo-seicentesca, si concretizza nella dissoluzione della visione teologica della storia, a cui si contrappone una visione umana del processo storico che non ha più le radici nell’intervento del Divino, ma nella Ragione, nuovo soggetto-oggetto dell’azione umana tendente a forme alte di libertà e di «bene comune»53. In questo ambito storico e culturale si afferma il nuovo ruolo dei philosophes, vale a dire la nuova esigenza di un pensiero, di un ragionamento critico capace di tradursi in azione. Compito dei philosophes, con i quali viene a maturazione una nuova generazione di pensatori, di filosofi e di uomini d’azione, che rispetto al passato godono di maggiore autonomia e di un certo grado d’influenza sul potere politico e sulla società, sarà essenzialmente quello di individuare le radici, non solo storiche, ma anche culturali, della diversa vicenda delle rispettive società e, più in generale, degli Stati.
Tuttavia, seppur si è molto insistito sul carattere universale del secolo dei lumi, in relazione agli obiettivi del nostro discorso è necessario che qui si accenni anche al suo carattere, per così, dire “locale”.
Nella Germania luterana, ad esempio, divisa in tante realtà politiche laiche ed ecclesiastiche all’indomani della pace di Westfalia del 1648, coesistenti con i grandi complessi territoriali della Baviera, della Sassonia, della Prussia ecc., la cultura illuminata ebbe uno sviluppo più articolato rispetto a realtà come l’Inghilterra o la Francia. Nei territori di lingua tedesca, infatti, la presenza di un protestantesimo radicato, ma aperto ai contatti con le zone cattoliche meridionali, dell’area austriaca e danubiana, in cui ancora permaneva una società marcatamente cetuale, consentì alla Ragione una sua specifica diffusione veicolata da una moderazione politica convergente sul processo di una modernizzazione laica dello Stato54. Lungo questo percorso un ruolo importante svolsero, tra gli altri, uomini come il filosofo Christian Wolff o il filologo illuminista Hermann Samuel Reimarus, i quali si prodigarono con decisione, ognuno attraverso le proprie specifiche competenze culturali, ma indubbiamente tutte riconducibili, sul piano della laicizzazione dell’autorità secolare, all’eredità della Riforma, per affermare il ruolo della ragione in rapporto alla Rivelazione; argomento che Reimarus, nello specifico, svilupperà nella sua famosa Apologie oder Schutzschriftfür die vernünftigen Verehrer Gottes, opera sostanziale dell’Aufklärung deista e che vide la luce, in forma parziale, negli anni Settanta del ’700 a cura del drammaturgo Gotthold Ephraim Lessing55. Ma, come è noto, l’illuminismo tedesco manterrà una sua impronta misurata incarnandosi specie nella figura di Leibniz56, la cui influenza è rintracciabile nell’opera filosofica di Wolff e, più in generale, nelle attività speculative e sociali svolte dall’Accademia delle Scienze di Berlino.
Il rinnovamento culturale del Settecento incoraggiò l’interesse degli svizzeri per lo spirito di altri popoli. Nel «siècle qui pense» si affermano intensi contatti tra romandi ed italiani, tra romandi, inglesi e olandesi, tra romandi e confederati tedeschi. Una certa influenza esercitò, indubbiamente, il Ginevrino Rousseau sugli illuministi di Zurigo e di Berna; ma ad accrescere quella rinascita intellettuale pure ebbero una certa importanza le riviste che sorsero nella Svizzera tedesca e nei paesi romandi sul modello dello «Spectator» inglese, alla cui base si collocava una obiettiva riflessione, valutazione e critica sul «vivere in comunità». Si trattava di riviste letterarie, ma che sovente sconfinavano in discorsi filosofici o in ampie considerazioni politiche e che concedevano un certo spazio a motivi poetici e non, ma d’indiscutibile ispirazione patriottica. Lungo questo percorso si giunse, circa alla metà del secolo, alla creazione della «Società Elvetica», nella quale si riunirono i patrioti svizzerotedeschi e i romandi appartenenti a città alleate come, ad esempio, Ginevra o personaggi addirittura provenienti da paesi sudditi, come quello di Vaud57. Restava, però, un limite di fondo, di natura culturale, alla base di questo processo storico, che condurrà comunque al concetto di «elvetismo», cioè una sorta di «nazionalismo» elvetico proteso all’indipendenza dei Cantoni svizzeri dalla politica e dal costume francese. Si trattava di una dipendenza, da parte degli svizzeri, derivata da una secolare alleanza con la Francia e che grazie alle sollecitazioni provenienti dall’Illuminismo porterà nei rispettivi Cantoni, tanto quelli cattolici quanto quelli riformati, al trionfo del concetto umano d’«intesa spirituale», di «dovere» e di «bene comune», di «progresso» e di «felicità di popolo»: concetti tipicamente illuministici, questi58!
Nella Svizzera «alemannica» la diffusione e la vitalità dell’illuminismo elvetico ebbe uno sviluppo tutto suo, una particolare vicenda, per la quale gli spiriti che lo recepirono tendenzialmente contraddissero il razionalismo da cui esso si generava: essi rifiutarono, nella sostanza, la cultura francese dalla quale gli era pervenuto. Quando lo scrittore zurighese Bodmer lottava contro la scuola sassone di Gottsched, puntava le sue critiche verso il letterato francese Nicolas Boileau ed il suo codice razionalistico e di marchio decisamente classico59; mentre il medico bernese Alberto Haller60 si schierò contro tutto ciò che inquinasse o guastasse o indebolisse il suo concetto di ordine pubblico, che lasciava largamente coincidere con il senso logico del «bene comune». Il suo senso politico, l’alto valore dello Stato e l’acuito spirito di disciplina, pur aperto spiritualmente nei riguardi della cultura francese, il tutto unito a motivazioni di natura religiosa, lo indussero a combattere il materialismo, il lusso, le idee esotiche; a guerreggiare contro Voltaire, ciò soprattutto per la sua freddezza espressa proprio in materia religiosa, e, alla luce anche degli incarichi istituzionali assunti alle dipendenze dello «scoltetto» della città e poi come medico e, dunque, direttore di alcuni possedimenti della stessa, a schierarsi contro Rousseau. A differenza di quest’ultimo, Haller, di cui ricordiamo l’essere stato, tra le altre cose, fondatore di uno dei più apprezzati giardini botanici del suo tempo, non ravvisava un ordine naturale dietro i sublimi spettacoli del creato, ma ne scorgeva l’essenza dell’opera di Dio; perciò l’uomo rousseauiano, l’Emilio, per intenderci, ai suoi occhi s’inscriveva più nelle intenzioni dell’illuminismo che nella volontà del Creatore: in Rousseau «dogma e rivelazione» venivano messi in evidente dubbio, come appariva in tutta evidenza dalla «Professione di Fede del Vicario Savoiardo»61, mentre in Haller – è stato notato da Calgari – pensiero filosofico, ammirazione per lo stato di natura e osservazione scientifica si rifugiavano «nella consolazione religiosa, nella certezza di Dio, sorgente di bellezza e d’armonia»62. Infine, nel suo Fabrizio e Catone, quadro di storia romana Haller assume a pretesto un tema di storia romana essenzialmente per confutare, come ancora ha notato Calgari, «il Contratto sociale del Rousseau e per fare l’elogio del patriziato colto e riformatore»63. Ma l’imputazione più carica di conseguenze negative che uomini come Haller, specchio del patriziato bernese, potevano attribuire all’Emilio e al Contratto sociale, risiedeva nella separazione che il Ginevrino aveva esplicitamente proposto tra stato di natura e stato civile. Con tale divisione la coesistenza tra gli uomini cessava di apparire il fine naturale dell’uomo, oggetto della mirabile creazione, e ad essa si sostituiva la «libertà civile» unita alla «libertà morale», due espedienti convergenti nel «contratto sociale» e adatti a risolvere e regolare i conflitti di convivenza umana64. Ovviamente, tra questi uomini e queste istanze religiose e politiche caratterizzate anche da vivaci preoccupazioni sociali, non poteva ritrovare il suo posto il cinquantenne scrittore e rinnegato Rousseau, il quale intorno al 1765 vagava ancora ramingo nella contea di Neuchâtel dopo le condanne promulgate da Berna e da Ginevra contro i suoi scritti.



6. Conclusione

La pace di Aquisgrana del 1748, intanto, aveva portato a compimento un processo che, con diverse modalità e sotto diversi angoli visuali, consegnerà una nuova idea d’Europa, sempre meno “antica” e più vicina ad un’idea di modernità degli apparati statali europei, all’interno dei quali il concetto di «bene comune» si affidava al riconoscimento di «Dei», «guide dei popoli» –
per richiamare ancora un’espressione di Einaudi – per affermare la propria volontà generale65. Ed è singolare che nello stesso anno della pace di Aquisgrana a Parigi veniva dato alle stampe L’esprit des lois di Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, opera monumentale di questo scorcio di secolo; ed è proprio dagli scritti del barone francese che, come è noto, prendono le mosse le riflessioni tra impegno intellettuale e vita pubblica dei philosophes66; quel Montesquieu, che, conoscendo l’Inghilterra e il suo apparato statale, riproponeva una rinnovata riflessione sui poteri dello Stato. Sembra superfluo qui ricostruire le riflessioni politiche della tripartizione dei poteri descritta da Montesquieu, ma è fondamentale almeno ricordare come la sua opera abbia condizionato il riformismo settecentesco. Si potrebbe ancora fare riferimento al pensiero di Rousseau in relazione ai suoi principi sulla sovranità democratica, sui rapporti tra sovrano, poteri e popolo; oppure richiamare le riflessioni di Cesare Beccaria o di Gaetano Filangieri sul diritto penale e sulla codificazione, che fa il suo ingresso nel campo del diritto proprio in questo periodo storico.
Solo pochi richiami, dunque, a titolo esemplificativo, ma semplicemente per comprendere il mutato senso dell’appartenenza del singolo individuo alla comunità, del suo rapporto con il potere politico, con le leggi, con l’economia: un insieme tematico, da cui si generarono gli aspetti essenziali del «bene comune» di una moderna società europea e che in Jeremy Bentham assumerà il senso giuridico del principio dell’«utilitarismo», da intendersi essenzialmente come la somma totale della felicità degli individui che compongono una comunità.







NOTE
1 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Milano, Feltrinelli, 2014.^
2 Ivi, A. Burgio, Introduzione, pp. 7-46.^
3 Ivi, pp. 31-32.^
4 Ivi, pp. 32-37.^
5 Ivi, pp. 37-46, in particolare cfr. ciò che viene detto a p. 42 in merito al rapporto tra «l’autorità di un sistema di potere», rispetto letterale del «contratto» e deliberazioni «conformi al bene comune».^
6 A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Roma-Bari, Editori Laterza, 2008.^
7 Cfr. F.M. D’Ippolito, F. Lucrezi, Profilo storico istituzionale di diritto romano, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 20072, pp. 30 ss., utile anche per cogliere le fasi del più recente dibattito storiografico su questo tema.^
8 È questo l’assunto di fondo da cui parte padre R.J. Neuhaus nella Introduzione al volume: Verso una società libera. Cento anni di dottrina sociale cattolica, a cura di G. Weigel, R. Royal, trad. it. di M. Sampaolo, Milano, Leonardo, 1994, pp. 9-19: qui p. 9. Sulla vita e sul pensiero di padre Neuhaus, con particolare riferimento alla vita sociale della Chiesa cattolica, v. ora R. Boyagoda, Richard John Neuhaus: A Life in the Public Square, New York, Image, 2015.^
9 Cfr. R.J. Neuhaus, Introduzione, cit., p. 13. Ma sul pensiero dell’allora cardinale Ratzinger si legga l’intervista rilasciata a V. Messori dal titolo: Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo, Paoline, 1985 (nuova ed. 2005), a cui si aggiungano le osservazioni critiche di M. Fahey, Joseph Ratzinger als Ekklesiologe und Seelsorger, in Concilium. Internationale Zeitschriftfür Theologie, 1, 17 (1981), pp. 79-85, utile anche per la bibliografia di Ratzinger, e di H. Häring, Una teologia cattolica? J. Ratzinger, o il trauma di «Giovannino fortunato», in Contro il tradimento del Concilio. Dove va la Chiesa cattolica?, a cura di H. Küng, N. Greinacher, trad. it. di O. Perwerth, Torino, Claudiana, 1987, pp. 201-213.^
10 R. Gallagher CSsR, Fede e impegno sociale, relazione letta al Convegno di studi «Fede ed impegno sociale», Pagani (Sa), 7 novembre 2006. Ringrazio il professor padre Gallagher CSsR per avermi concesso di leggere il testo prima della stampa.^
11 Cfr. Paragrafo 28.^
12 R.J. Neuhaus, Introduzione, cit., p. 10.^
13 R. Gallagher CSsR, Fede e impegno sociale, cit.^
14 Per un approccio al tema cfr., ora, D. Baumgold, Contract Theory in Historical Context. Essay on Grotius, Hobbes and Locke, Leiden, Brill, 2010.^
15 Cfr. S. Chignola, Per la storia del concetto di società. Note a margine di una recente ricerca internazionale, in «Scienza & Politica, per una storia delle dottrine», 27 (2002), pp. 15-29.^
16 Ivi, p. 16.^
17 Su cui cfr. E. Roll, Storia del pensiero economico, trad. it. di N. Negri e, per le aggiunte, di R. Valabrega, Torino, Boringhieri, 19802, pp. 114-120.^
18 Cfr. R. Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, a cura di S. Cotta, A. Giolitti, Introduzione di Luigi Einaudi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1974, qui p. XII dell’Introduzione. Sul modello economico ideato da Law, oltre a Roll, Storia del pensiero economico, cit., pp. 109 ss., v., ora, l’efficace sintesi tracciata da P. Bairoch, Storia economica e sociale del mondo. Vittorie e insuccessi dal XVI secolo a oggi, trad. it. di P. Arlori, vol. I, Torino, Einaudi, 1999, p. 554.^
19 R. Cantillon, Saggio sulla natura del commercio in generale, cit., p. 6.^
20 Ibidem.^
21 Cfr. su ciò A. Burgio, Introduzione a J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., pp. 26 ss.^
22 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, con saggio introduttivo di R. Derathé, traduzione e note di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 19773, pp. 27-28 (trad. italiana del saggio introduttivo di V. Cento), da cui si traggono le citazioni che seguiranno.^
23 L. Einaudi, Gian Giacomo Rousseau, le teorie della volontà generale e del partito guida e il compito degli universitari, in Prediche inutili. Dispensa quarta, Torino, Einaudi, 1957, pp. 195- 201, qui p. 196.^
24 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 43, su cui cfr. l’interpretazione che ne offre A. Burgio, Introduzione, cit., p. 28, il quale pone un particolare accento sul conflitto, non risolto dall’individuo che vive in comunità, tra la «dimensione particolaristica (privatistica) su quella generale (autenticamente pubblica)»: cfr. p. 28.^
25 Ibidem.^
26 L. Einaudi, Gian Giacomo Rousseau, cit., p. 196. Ma sul punto cfr. ora i contributi di V. Mura, Il Contratto sociale: i frutti (avvelenati) dell’eredità di Rousseau e di G. Silvestrini, Volontà generale, regola di maggioranza e ragione pubblica, in La filosofia politica di Rousseau, a cura di G.M. Chiodi, R. Gatti, Milano, Franco Angeli, 2012, rispettivamente alla pp. 53-78; 223-230.^
27 Ibidem.^
28 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., pp. 54-55.^
29 Cfr. A. Burgio, Introduzione, cit., in particolare si legga ciò che viene detto a p. 42 in merito al rapporto tra «l’autorità di un sistema di potere», rispetto letterale del «contratto» e deliberazioni «conformi al bene comune».^
30 Cfr. L. Einaudi, Gian Giacomo Rousseau, cit., pp. 197 ss. Ma su ciò cfr. ciò che ora ne scrive A. Burgio, «Introduzione», cit., pp. 31 ss.^
31 J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., pp. 92-94.^
32 L. Einaudi, Gian Giacomo Rousseau, cit., p. 198.^
33 Du contrat social de Jean-Jacques Rousseau, précédé d’un Essai sur la politique de Rousseau, par Bertrand de Jouvanel, accompagné des notes de Voltaire et d’autres contemporains de l’auteur, Genève,Constant Bourquin, 1947, pp. 1-160, qui p. 16.^
34 Cfr. il saggio introduttivo di R. Derathé a J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. VII.^
35 J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, trad. it. di P. Massimi, Roma, Armando, 1994, p. 364.^
36 Queste opere del Ginevrino vennero censurate anche in Olanda e dalla Sorbona. In generale, sulle vicende giudiziarie di queste pubblicazioni cfr. l’«Introduzione» di F.P. Richard a J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., pp. 15-55, in particolare pp. 36-46.^
37 Cfr. P. Cavana, Stato, Chiese e pluralismo confessionale, in «Rivista telematica (www.statoechiese.it)», settembre 2008, pp. 1-15, qui p. 3.^
38 Cfr. l’Introduzione di F.P. Richard a J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., pp. 46 ss.^
39 Cfr. S. Stewart, Il cortigiano e l’eretico. Leibniz, Spinoza e il destino di Dio nel mondo moderno, trad. it. di F. Sicana, M.C. Sircana, Milano, Feltrinelli, 2007.^
40 Cfr. P. Cavana, Stato, Chiese e pluralismo confessionale, cit., p. 3.^
41 Sull’«Origine dell’etiam si daremus di Grozio» ed i suoi sviluppi cfr. M. Berljak, Il diritto naturale e il suo rapporto con la divinità in Ugo Grozio, Roma, Università Gregoriana Editrice, 1978, pp. 91 ss. Ma cfr. anche H. Nellen, Hugo Grotius. A Lifelong Struggle for Peace in Church and State, 1583-1645, Leiden, Brill, 2014, cap. IX, in particolare pp. 367 ss.^
42 Cfr. l’Introduzione di G. Modugno a G.G. Rousseau, Emilio, Estratti, introduzione e note a cura di G. Modugno, trad. it. di M. Castelnuovo Landini, Firenze, La Nuova Italia, 195415, pp. VII-XLIII, qui p. XIV.^
43 Cfr. N. Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, trad. it. di L. Formigari, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 101 ss.; A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, cit., pp. 129 ss.^
44 Cfr. G.G. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., Libro Terzo e Libro Quarto.^
45 Cfr. Ambasciatori veneti in Inghilterra, a cura di L. Firpo, Torino, UTET, 1978, pp. 115- 157.^
46 Ivi, pp. 144-145.^
47 Ivi, p. 141. Ma cfr. anche pp. 142-145.^
48 Cfr. D. Baumgold, Contract Theory in Historical Context, cit., pp. 3-52.^
49 La citazione è tratta da G. Paganini, Analisi della fede e critica della ragione nella filosofia di Pierre Bayle, Firenze, La Nuova Italia, 1980, che tuttora costituisce la migliore esposizione generale della filosofia di Bayle.^
50 Cfr. A. Koyré, Studi newtoniani, trad. it. di P. Galluzzi, Torino, Einaudi, 1972.^
51 Per il quale v. S. Stewart, Il cortigiano e l’eretico, cit., pp. 209 ss.; M.T. Liske, Leibniz, trad. it. di P. Rubini, il Mulino, Bologna, 2007.^
52 Cfr. D. Baumgold, Contract Theory in Historical Context, cit., nello specifico pp. 3-26.^
53 Su ciò cfr. N. Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, cit., pp. 104 ss.; A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, cit., pp. 93 ss.; A. Tortora, A partire dalla storia della Congregazione del Santissimo Redentore. Spigolature storiche ai margini degli anni 1762-1775, in «Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris», 63 (2015), fasc. 1, pp. 75-90, in particolare pp. 86 ss.^
54 Su ciò cfr. A. Trampus, I gesuiti e l’Illuminismo. Politica e religione in Austria e nell’Europa centrale (1773-1798), Firenze, Olschki, 2000, pp. 23 ss., con particolare riferimento all’Austria teresiana.^
55 Cfr. J. Israel, The Philosophical Context of Hermann Samuel Reimarus’Radical Bible Criticism, in Between Philology and Radical Enlightenment. Hermann Samuel Reimarus (1694-1768), a cura di M. Mulsow, Leiden, Brill, 2011, pp. 183-200.^
56 Cfr. M. Heim, Introduzione alla storia della Chiesa, trad. it. di C. Asso, Torino, Einaudi, 2002, p. 129.^
57 Per tutto quanto ora detto si leggano i saggi, ora riuniti in volume, di S. Zurbuchen, Patriotismus und Kosmopolitismus. Die Schweizer Aufklärung zwischen Traditionund Moderne, Zürich, Chronos Verlag, 2003.^
58 Cfr. G. Calgari, Le 4 letterature della Svizzera, Firenze, Sansoni/Accademia, 1968, p. 69.^
59 Ibidem.^
60 Su cui cfr. le rapide, ma puntuali note bio-bibliografiche in M.L. Turchetti Grossi, Libri e manoscritti di Haller: 1777-1977, Università degli studi di Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Catalogo della mostra nel II centenario della morte di Albrecht von Haller, Milano, Tip. U. Allegretti di Campi, 1977.^
61 Cfr. l’Introduzione di F.P. Richard a J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, cit., pp. 27, 34, con esplicito rinvio alla «Professione di Fede del Vicario Savoiardo» contenuta nel libro IV.^
62 G. Calgari, Le 4 letterature della Svizzera, cit., p. 77.^
63 Ivi, p. 76 (il corsivo è nel testo).^
64 Cfr. J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, cit., pp. 29-30, senza dimenticare di J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, in OEuvres Complètes, sous la direction de B. Gagnebin-M. Raymond, Paris, Gallimard, 1959-1995, voll. 5, III, parte II, pp. 164-178, nello specifico pp. 171-176. Sul nesso antropologia e politica nel pensiero di Rousseau cfr., ora, le indicazioni offerte in Premessa da R. Gatti a La filosofia politica di Rousseau, cit., pp. 7-8.
65 L. Einaudi, Gian Giacomo Rousseau, cit., p. 198.^
65 Cfr. C. Larrère, Le législateur chez Montesquieu, in Magistrature repubblicane, modelli nella storia del pensiero politico, Atti del convegno di Perugia-Gubbio, 30 novembre – 2 dicembre 2006, in «Il pensiero politico», a. 40 (2007), n. 2, pp. 301-312.^
66 Cfr. C. Larrère, Le législateur chez Montesquieu, in Magistrature repubblicane, modelli nella storia del pensiero politico, Atti del convegno di Perugia-Gubbio, 30 novembre – 2 dicembre 2006, in «Il pensiero politico», a. 40 (2007), n. 2, pp. 301-312.^
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