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Napoli nelle testimonianze di Thomas Mathias Sir William Gell e Thomas Uwins
di Vincenzo Pepe
Con l’intensificarsi dei rapporti diplomatico-commerciali di Napoli col loro Paese, e col sempre maggiore richiamo esercitato dalle celebrazioni del clima e delle bellezze storico-paesaggistiche di Napoli e del suo circondario, i cittadini britannici che sceglievano di risiedere stabilmente nella città partenopea aumentarono sempre più di numero nel corso dei secoli, fino a costituirsi in una cospicua comunità solidale e autosufficiente già nei primi decenni dell’8001. Si trattava di funzionari, diplomatici, banchieri, mercanti, semplici persone facoltose, che, una volta arrivati a Napoli, decidevano di stabilirvisi definitivamente, o almeno di rimandare il ritorno in patria, in modo da godere il più a lungo possibile i tanti vantaggi offerti dal clima, dalle bellezze storico-paesaggistiche, e dalle condizioni di vita in generale. Nella pletora di esistenze più o meno anonime che costituivano l’universo inglese a Napoli, è possibile però distinguere delle identità di spicco, delle figure di rilievo, le quali, ancorché oggi per lo più dimenticate o sconosciute, lasciarono testimonianze su Napoli degne di essere menzionate. Le note che seguono intendono appunto ricordare tre di queste personalità, e mettere in rilievo, sia pure per sommi capi, il rapporto che esse intrecciarono con la città che li adottava.
La prima personalità di cui ci occuperemo, Thomas James Mathias, fu poeta e letterato. Nato nel 1754, aveva esordito nel mondo letterario anglosassone con la pubblicazione di Pursuits of Literature (1794) opera satirica contro i letterati e i politici inglesi, specialmente quelli di formazione o di orientamento Whig per i quali nutriva un’antipatia viscerale, pari, se non superiore, alla simpatia con la quale “incensava” i suoi correligionari Tory. Questa parzialità non era però l’unico tratto della sua personalità. A Cambridge oltre gli studi di letteratura inglese aveva cominciato a coltivare la passione per la cultura letteraria italiana, e specialmente per la lingua italiana, nella quale raggiunse un tale grado di competenza da destare lo stupore degli stessi studiosi italiani. «De’ tanti che hanno sostenuto la venustà della italiana favella nel nostro secolo», si legge nella prefazione a un suo volume di versi e di traduzioni di classici inglesi, «egli è sorprendente il vedere che un figlio di Albione, pria che fosse mai in Italia…sia giunto a scrivere nell’idioma italiano versi di vario stile»2. Questo amore per la cultura italiana non era fine a se stesso, perché era basato sul convincimento del valore universalmente formativo dello studio della lingua e della letteratura italiana, e il Mathias fu in tal senso uno tra i primi anglisti che ne auspicarono una più vasta diffusione con l’istituzione di cattedre di italiano presso tutte le università inglesi. Sempre nella presentazione del volume che si è citato, difatti, anticipando quello che sarebbe stato realizzato qualche decennio dopo a Londra da Antonio Panizzi, egli esorta «gli eruditi e studiosi suoi compatrioti» a «volgersi a Dante, al Petrarca, all’Ariosto, al Chiabrera, al Redi, al Filicaja, al Guidi», ed esprime il desiderio che «nelle nostre università venga eretta una cattedra espressamente per l’universale letteratura italiana, per onorare discretamente i suoi più degni seguaci e professori, per promuovere le loro ragioni, ed acquistare tra noi alla Toscana favella uno stabile e permanente domicilio»3.
La decisione di trasferirsi a vivere in Italia, però, non fu dovuta solo a questi motivi ideali, ma anche a problemi di salute, perché a Napoli egli si spinse nel disperato tentativo di prolungare la sua esistenza minata dalla consunzione. Il clima della città partenopea dovette evidentemente operare il miracolo atteso, perché il poeta vi trascorse altri venti anni, gli ultimi, della sua vita. Per la simpatia che la sua persona ingenerava in chi gli stava vicino, per la sua prodigiosa memoria, ma soprattutto per la sua onestà, a Napoli il Mathias fu stimato e benvoluto, del pari, dai napoletani e dai suoi connazionali. «Lo rispettavano tutti a Napoli», recita il suo necrologio, «e sebbene in possesso di limitate risorse oltre la pensione concessagli dal re, egli mantenne una condizione di vita indipendente e dignitosa, e fu ospite bene accetto in tutte le case occupate da residenti inglesi»4.
Della sua esistenza a Napoli conosciamo anche qualche dettaglio tramandatoci da altri che ebbero modo di incontrarlo o fargli visita. Da uno scrittore americano sappiamo, per esempio, che egli viveva in un vecchio palazzo a Pizzofalcone, «sepolto dai libri come al solito». Lo stesso testimone ne delinea anche i tratti fisici essenziali: «piccoletto, completamente calvo, e un po’ tendente alla pinguedine, con la sua testa ampia era l’immagine perfetta dello studioso»5. Ma per conoscere un tratto del carattere di questo letterato anglonapoletano si deve tornare di nuovo al necrologio, al luogo in cui il de cuius viene ricordato nell’atto di camminare per le trafficate (già allora!) strade di Napoli. Ci sembra proprio di vederlo nel momento in cui «valutato ansiosamente quello che secondo i suoi calcoli è il momento più sicuro per attraversare agli incroci, si butta in mezzo alla strada; ma per tornare subito indietro, perché terrorizzato anche da pericoli inesistenti»; e in questo suo continuo andare avanti e indietro «per fare solo qualche miglio gli occorrono delle ore». E ci sembra anche sentirne la voce, perché di lui è riportata anche l’esclamazione «Blessmy soul!» che adoperava quando voleva sottolineare il pericolo corso nell’attraversare le strade («Blessmy soul! Bless my soul, how dreadfully dangerous! I was within a moment of being killed! Mamma mia, mamma mia, come è pericoloso! Poco ci è mancato che rimanessi ucciso!»); o quando voleva decantare la bontà dei piatti di cui era goloso: «Blessmy soul! Blessmy soul, how delicious!».
La buona cucina, il clima, il non costoso tenore di vita, e soprattutto il rispetto e l’affetto da cui era circondato, spiegano l’innamoramento del Mathias per Napoli, il trasporto con il quale egli parlava dei suoi anni napoletani e della città che lo ospitava, e, per converso, il terrore con cui reagiva all’eventualità, ancorché remota, di un suo rimpatrio in Inghilterra. Ma del rapporto che egli ebbe con Napoli non abbiamo solo questi sporadici indizi, perché egli volle lasciarne prova tangibile con la pubblicazione a sue spese di un’ode intitolata Napoli-settembre 1820. Si tratta di un componimento di sedici strofe infarcite degli stilemi tipici della versificazione arcadica, ma assai singolare per la scelta dell’italiano come veicolo linguistico, per la scelta del tema, e per la sincerità dell’ispirazione6. Come è evidente dal titolo, e come viene ribadito del resto da due epigrafi presenti, rispettivamente, la prima sul frontespizio, e la seconda nell’avantesto, il componimento trae ispirazione dall’onda d’entusiasmo generata dai moti del 1820-21. L’epigrafe sul frontespizio, difatti, sintetizza nel distico «Sub foederibus coëant una/Libertas etjus sacri inviolabile Sceptri!», l’auspicio di una monarchia che garantisca le libertà costituzionali; quella in avantesto affida invece a una quartina la partecipazione alle sorti di Napoli da parte dell’autore, il quale, ancorché straniero, non riesce ad essere indifferente a quello che sta succedendo attorno a lui: «Il monte, il mare il cielo/ Attonito ammirando, io, pur straniero, /Talor m’arresto al bel Sebeto in riva, /In guisa d’uom che pensi, e senta, e scriva».
Assieme a quello del Mathias, il nome di William Gell è quello che viene generalmente citato tra i personaggi inglesi che, nel periodo in questione, a Napoli si fecero apprezzare per le loro qualità umane e per i loro meriti culturali. Come non mancò di registrare la Blessington, ad alimentare il giudizio positivo dagli Inglesi goduto a Napoli aveva anzi contribuito proprio la lunga residenza in questa città dei personaggi citati, perché essa aveva dato modo «agli abitanti di apprezzare le molte ammirevoli qualità di questi signori»7. Giudizio, questo, che troviamo ribadito anche dall’anonimo estensore di un articolo apparso su una rivista culturale a circolazione europea, nel quale si legge che Napoli annoverava tra i suoi abitanti «parecchi residenti inglesi che si distinguevano nel mondo dell’arte e della scienza»8.
Essendo nato nel 1777, del suo amico Mathias William Gell era più giovane, ma gli sopravvisse solo un anno. I due indirizzi di studio da lui seguiti in Inghilterra, alla “Royal Academy of Arts”, e all’“Emmanuel College” di Cambridge, contribuirono in modo complementare ad affinare la sua preparazione, e ad indirizzare la sua passione per le antichità classiche verso lo studio dell’archeologia. A soli 23 anni gli era stato affidato dalla Society of Antiquaries di Londra un incarico per un progetto di ricerca nella Troade, al quale seguirono numerosi altri impegni del genere nella Ionia, a Roma, a Pompei. Tutta questa attività si doveva concretizzare in numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo The Topography of Troy and its Vicinity Illustrated and Explained by Drawings and Descriptions (1804), The Geography and Antiquities of Ithaca (1807), Pompeiana. The Topography of Edifices and Ornaments of Pompei (1817), The Topography of Rome and its Vicinity with Map (1834). “Fellow” della Royal Society, nonché della Society of Dilettanti di Londra, dopo vari soggiorni brevi in Italia, nel 1820 decise di stabilirvisi definitivamente, dividendo la sua residenza tra Roma e Napoli, ma mostrando di privilegiare quest’ultima9. Vi si spense il 4 febbraio del 1836, e fu sepolto nel cimitero acattolico, nel tempietto dorico che accoglie anche i resti del suo amico Keppel Craven.
Dove vivesse a Napoli non si è riusciti a precisare, in quanto nella sua corrispondenza e in alcuni suoi schizzi egli fa riferimento a diversi luoghi: ‘Piazza S. Teresa a Chiaia’, ‘Largo Santa Teresella, Chiaia’, ‘Chiaia sotto il palazzo Calabritto’10; ma l’identificazione del luogo fisico da lui occupato poco importa; ai nostri fini mette conto di notare la funzione che la sua dimora intesseva con la sua esistenza, e con quello della comunità inglese napoletana. La prima è evidente dal seguente brano di una lettera a Lady Charlotte Bury in cui Gell accenna a se stesso, afflitto dalla gotta, ma consolato nello spirito dalla vista dello scenario della baia di Napoli che può godere dalle sue finestre:
Scena: una deliziosa stanzetta con le finestre spalancate sulla incantevole baia, aranci, mirti e fiori sotto la mia finestra. Il sole che splende come sa fare solo a Napoli.
Presente: un individuo con addosso una vestaglia di color arancio
e azzurro, uno zuccotto da notte di velluto rosso in testa, la sua
cera dello stesso o quasi colore della vestaglia, forse un po’ più
somigliante a un colore citrino, i piedi avvolti nella flanella e appoggiati
a uno sgabello. Esclama di tanto in tanto con molta rabbia
e veemenza, quando una fitta della gotta si fa più lancinante11.


La seconda si desume da un brano della Blessington, duplicemente importante perché fa riferimento alla funzione della casa di Gell per i forestieri che arrivavano a Napoli, ma anche perché ci consegna un’articolata fisionomia del Nostro. Lo proponiamo nella sua interezza:

Sir William Gell è così universalmente stimato e voluto bene…È un
grande acquisto di Napoli. La sua casa è un rendez-vous di tutti gli
eminenti viaggiatori che la visitano, dove le carte geografiche, i libri,
e i suoi preziosissimi consigli sono al servizio di tutti quelli che vengono
indirizzati a lui. La misura e la versatilità delle sue informazioni
sono veramente sorprendenti, e la sua memoria è così tenace, che la conoscenza
di ogni soggetto una volta acquisita non viene più dimenticata.
Sebbene sia preda della malattia, avendolo la gotta e i reumatismi privato
della facoltà di locomozione, la sua allegria è costante, e il suo temperamento
inalterabile. Agli assalti del dolore oppone un indomito stoicismo;
ma è solo contro il dolore che l’esistenza di questa severità si fa conoscere,
perché un cuore più gentile, o più pronto a solidarizzare con le sofferenze
degli altri, non esiste. La sua frequentazione è giustamente apprezzata
e universalmente ricercata a Napoli. È curioso vederlo trasportare in una
stanza da due persone, con il corpo che offre il malinconico spettacolo
del decadimento incurabile, mentre la faccia preserva l’aspetto della giovinezza
e della buona salute. È il compagno più vitale e divertente che si
possa immaginare, in possesso di una conoscenza perfetta della vita, senza
aver perso la minima porzione della freschezza di mente o della bontà di
cuore che tale conoscenza a volte sembra infirmare12.


Che il riconoscimento di queste qualità nell’eminente inglese da parte della Blessington non fosse frutto di esagerazioni di affetto amicale è confermato dal fatto che lo ritroviamo quasi identico nel necrologio di Gell apparso sulla rivista «Atheneum» pochi mesi dopo la sua morte, con l’aggiunta di dettagli che aiutano ad allargare le nostre conoscenze sulle abitudini di vita e le frequentazioni del compianto. Della sua «pittoresca» casa napoletana, per esempio, viene detto che «ai visitatori essa ricordava i suoi disegni di Pompei», e che nel «salotto lo si vedeva circondato da libri, disegni, carte, una chitarra, dalle cui cose traeva piacevoli spunti di discussione, e due o tre cani»; viene detto inoltre che il prestigio e il richiamo della sua casa venivano accentuati dalla vicinanza di essa a quella di un altro esponente di spicco della comunità inglese napoletana di quegli anni, il ministro Sir William Drummond, che di Gell fu fraterno amico; e viene sottolineato l’enorme vuoto che con la sua morte si è aperto negli ambienti intellettuali napoletani, «vuoto che non può essere colmato facilmente, e molti viaggiatori rimpiangeranno l’interessante ed istruttiva conversazione che c’era sempre ad attenderli in casa sua, dove era dato di fare la conoscenza di tutti quelli degni di essere conosciuti».
A parte la bontà, la gentilezza e l’umorismo, chi aveva modo di frequentare il nostro personaggio veniva colpito in particolare dal piacere in lui evidente di condividere le sue conoscenze, di metterle a disposizione di tutti, con prodigalità e, soprattutto, senza pedantesca saccenteria13. Era una fonte copiosa di suggerimenti, indicazioni, informazioni sugli itinerari turistico-archeologici, sulla conduzione degli scavi, sull’interpretazione di iscrizioni e reperti affiorati nel circondario di Napoli, da Pompei a Castellammare, da Torre Annunziata a Paestum. Né erano solo i forestieri in arrivo a Napoli a beneficiare di questa messe di informazioni, perché egli provvedeva a diffonderla anche ai suoi connazionali in Inghilterra, attraverso densi rapporti che lui inviava mensilmente alla Society of Dilettanti, di cui nel 1830 era diventato “ministro plenipotenziario a Napoli”. Ma ai fini del nostro discorso, a rendere interessanti questi resoconti mensili non sono tanto le notizie relative a reperti e scavi archeologici, quanto ai flashes improvvisi che balenano nel corso della scrittura, ad illuminare sia pure per pochi istanti qualche dettaglio della città, o, più frequentemente, il Vesuvio, che in queste descrizioni sembra far capolino come entità magico-sacrale, nella sua bella ma inquietante maestosità. La lettera del 3 marzo 1832, per esempio, dopo un accenno fugace all’esiguità del numero di «persone di riguardo in una città piena», visualizza il Vesuvio inondato di lava «che scorre da ambedue i versanti da un cono che è sorto dal vecchio cratere», per commentare che «la vista è bella ma le vigne dal lato di Resina stanno cominciando a soffrire». Spettacolo che viene arricchito di particolari in un brano della lettera datata Napoli 20 & 22 febbraio 1832, dalla quale apprendiamo che con il suo manto di neve che ne avvolge la cima, il Vesuvio in eruzione è un’immagine «magnifica»; che «la lava è scorsa lungo il lato di Torre Annunziata, così che tutto il cratere se ne è riempito ed è diventato una sorte di mare di scorie nere, con un nucleo centrale sull’estremità settentrionale da cui di tanto in tanto fuoriescono pietre e fumo»; ma il fenomeno più sensazionale è l’affiorare di «un’acqua salmastra nella parte interna, così diabolicamente bollente, che contrariamente alla sua legge solita il sale stesso è tenuto in sospensione nel vapore e si deposita in tali quantità ed è così puro in certi orifizi che la povera gente riesce a raccoglierne a volontà». Una successiva relazione datata 5 marzo 1832 informa che «il Vesuvio continua a eruttare lungo due versanti»; che secondo alcuni si sarebbe formato un nuovo vulcano ad Arco Felice; ma che la notizia è da ritenere forse una fola. In alcune lettere del 1833 le informazioni relative agli scavi archeologici (nella fattispecie i resti di una nave romana affiorati nella zona tra Pompei e Castellammare) vengono alternate a notizie di carattere più generico, non prive, però, di un certo interesse. Si apprende, per esempio, che gli omnibus che portavano le comitive di viaggiatori a Pompei contenevano fino a 18 persone, oltre allo spazio per le provviste di champagne! A proposito di questa bevanda, nella lettera del maggio 1833 viene riferito che a Resina si sta tentando di produrne una imitazione con le uve che crescono alle falde del Vesuvio, con risultati non disprezzabili. Particolarmente interessante, però, è la lettera del 20 maggio dello stesso anno, perché ci mostra un Gell che, da vero napoletano ormai, crede, o sembra di voler credere, negli effetti del malocchio e della iettatura! Ed ancora più interessante la missiva del 10 marzo del 1835, dalla quale apprendiamo dei lavori di abbellimento della città, e in particolare del restauro di via Chiaja, arteria stradale questa, che, una volta conclusi i lavori, «dopo lo stato caotico attuale per via delle centinaia di operai, dei milioni di pietre, e di nuvole di polvere», sarà «la cosa più bella d’Europa».
I piccoli squarci su Napoli e sul suo circondario, che si aprono nel corpo delle lettere inviate alla Society of Dilettanti non sono gli unici che è possibile riscontrare nell’opera di Gell. Ad essi vanno aggiunti quelli che si possono estrapolare dalle pagine stilate per ricordare il soggiorno napoletano di Walter Scott, e che lo studioso inviò al Lockart, genero e biografo del grande romanziere. Rimaste inedite per molti decenni, come si sa, queste pagine furono pubblicate in Canada la prima volta nel 1953, col titolo Sir William Gell’s Reminiscences of Sir Walter Scott’s Residence in Italy, 1832.
Prima di vedersi in Italia, Walter Scott e William Gell avevano avuto modo di conoscersi anni addietro, in Inghilterra, a Stanmore Priory, ma dopo questo primo loro incontro non avevano in pratica avuto modo di rinsaldare la loro amicizia. Di questo doveva incaricarsi il soggiorno napoletano del romanziere (dai primi giorni di gennaio ad aprile inoltrato del 1832) perché durante questo periodo, nonostante gli acciacchi debilitanti, il Gell fu compagno assiduo e guida quasi quotidiana dello scrittore, anche lui, peraltro, sofferente, e non solo nel corpo. Come riconosce lo stesso Gell «le mutue infermità dovettero contribuire alla loro intimità», e lo Scott dovette essere molto toccato dalla sollecitudine e dalle premure dell’archeologo, perché al suo rientro in Scozia, quasi ad esaudire una delle sue ultime volontà, egli chiese alla figlia che al suo connazionale e «ultimo amico» residente a Napoli fosse spedita una copia della monumentale edizione della sua opera omnia.
Non è difficile immaginare i due, che a stento si reggevano in piedi, in giro per le strade di Napoli e dintorni. Le visite cominciano il 6 aprile 1832, giorno successivo all’arrivo dello scrittore. Gell va a prelevare lo Scott a Palazzo Caramanico, e gli presenta Keppel Craven, il cui famoso Tour in the Southern Provinces of the Kingdom of Naples, il romanziere «aveva letto con piacere». Uno dei primi luoghi visitati è il Lago d’Agnano. La «tranquilla bellezza», del posto, accentuata dalla vista delle «foglie ancora indugianti sugli alberi nel cuore stesso dell’inverno», e dalla presenza di prati e boschi che fanno pensare ancora all’estate, dà la stura alle meditazioni poetiche dello Scott il quale comincia a evocare uno scenario di pari bellezza da lui ammirato in Scozia. Succederà lo stesso in tutti gli altri itinerari: si tratti della villa di Pollione sul promontorio di Posillipo; o della Torre di Chiunzi intravista sulla strada verso Cava; o degli scavi di Pompei; o di quelli di Paestum, il luogo visitato catalizza nella mente dello scrittore immagini e pensieri che lo portano alla sua terra e alla storia della sua terra, e ciò, malgrado la sua guida si sforzi di ancorarne l’attenzione con spiegazioni ripetute e insistite. Significativo, al riguardo, il brano seguente, relativo a una visita ad Arco Felice, nel punto in cui «dopo una svolta, si offre alla vista un’immagine molto ampia del Lago d’Averno»:
In un attimo qui appaiono alla vista tutti insieme il tempio di
Apollo, il Lago Lucrino, il Monte Nuovo, Baia, Miseno ed il
mare, e pensai che in qualità di cicerone fosse mio dovere potenziare
la conoscenza del luogo. Feci notare a Sir Walter che
avrebbe sentito menzionare parecchi di questi luoghi, e che mi
premeva per questo che ricordasse qualcosa delle loro rispettive
ubicazioni. Si sottomise alle mie spiegazioni prestando molta attenzione
ai nomi che gli ripetevo, e quando gli chiesi se si sentisse
sicuro di ricordare il luogo, egli rispose che ce l’aveva ben fisso
nella mente. Scoprii però che qualcosa di esso doveva avergli
ispirato altri ricordi del suo caro paese e degli Stuarts, perché,
mentre continuavo, improvvisamente si mise a declamare con tono
grave e grande enfasi:
Up the craggy mountain, and down the mossy glen,
We canna gang a milking for Charlie and his men
14


Fughe ideali dello stesso genere catalizza anche la visita di luoghi collegati al nome della regina Giovanna, il cui destino secondo il romanziere era stato simile a quello di Mary Stuart, «ritenuta modello di virtù femminile da una fazione, e mostro di atrocità da un’altra». Ma il senso di estraneità con cui Walter Scott sembra reagire alle sollecitazioni degli scenari e delle bellezze storico-ambientali di Napoli non era solo effetto di una lotta che la sua prorompente sensibilità poetica allora ingaggiava con l’incipiente demenza senile; a questo bisognava sommare la barriera linguistica. Significativi nella loro grottesca comicità sembrano al riguardo gli episodi dell’incontro col re al palazzo reale, e con i letterati presso la biblioteca del museo.
Sapendo che il famoso scrittore era a Napoli, Ferdinando lo invitò a corte. Nel constatare che l’infermità gli rendeva disagevole stare in piedi lo liberò dagli obblighi di protocollo, pregandolo di sedersi, e dicendogli, in un francese comprensibile forse solo a pochi di quelli che gli stavano vicino, del piacere da lui ricevuto dalla lettura dei suoi romanzi. Anche Walter Scott si espresse in francese, ma in un non chiaro tono di voce, cosicché, come il romanziere stesso dichiarò al suo cicerone, e come annotò nel suo diario, «lui e il re si erano separati mutuamente compiaciuti dell’abboccamento, anche se nessuno dei due aveva udito o capito una sola parola di quello che l’altro aveva detto». La stessa situazione, o quasi, si verificò, come dicevamo, presso la biblioteca del museo, dove Walter Scott era stato condotto in visita. In quello stesso giorno studenti e “literati” napoletani si erano lì dati convegno per studiare alcuni manoscritti scoperti di recente. Nell’apprendere che il famoso romanziere si trovava lì, essi si precipitarono a salutarlo e riverirlo con discorsi in latino. Lingua che lo scrittore conosceva, ovviamente, ma non nella pronuncia italiana, e il poveretto stava per confessare la sua difficoltà, quando i suoi accompagnatori lo liberarono dell’imbarazzo, sottraendolo alla folla di ammiratori15.
Tra gli amici e frequentatori di William Gell che ci hanno lasciato altre preziose testimonianze su Napoli, degno di essere ricordato è il pittore Thomas Uwins (1782-1857), il quale per i suoi meriti artistici fu membro della Royal Academy, nonché keeper della National Gallery di Londra16. Trasferitosi in Italia nel 1824 per motivi di salute, aveva deciso di vivere a Roma, da dove nel maggio 1825 si allontanò per una breve gita a Napoli. Qui Sir Richard Acton gli commissionò dei dipinti di soggetto classico, e questo, se si fa eccezione per brevi diversioni nelle principali città d’arte italiane, fece sì che da Napoli il pittore praticamente non se ne andasse più fino al suo rimpatrio, che avvenne nel 1830. Come si vedrà nelle note che seguono, la permanenza nella città partenopea doveva rivelarsi provvidenziale per l’uomo e per l’artista per motivi diversi, che ebbero però come effetto più vistoso l’allentamento della morsa del rigorismo e del pregiudizio protestante da cui l’Uwins era come paralizzato al suo arrivo in Italia, e la maturazione di una personalità più libera, più aperta alla vita, e meno insensibile ai sani piaceri dell’esistenza. Vivere a Napoli, insomma, attivò in lui quel processo di “emancipazione” che qualche decennio più tardi sarebbe stato tematizzato in uno dei romanzi più significativi di George Gissing17. La bildung si era iniziata sul piano fisico: le variate condizioni climatiche avevano subito restituito al pittore la salute così seriamente compromessa in Inghilterra. Ecco difatti cosa egli scriveva al fratello in una lettera del 25 dicembre 1825:
Non so perché il tempo umido qui non ha lo stesso effetto
su di me che in Inghilterra. Non ho l’ombra di un reumatismo,
e il dolore lancinante al piede che mi accompagnava
in Inghilterra, è solo un ricordo. La generale confortevole
sensazione di piacere con la quale ci si alza la mattina, la vigoria
di mente e corpo, quella giocondità di spirito e quella capacità
di godere, che rende gioiosa l’esistenza e conferisce
un fascino a tutte le cose che ci circondano, sono da trovarsi
solo in Italia18.


Conviene tenere a mente le parole su riportate, perché ci torneranno utili allorché riporteremo quelle con le quali qualche anno dopo il pittore fornirà maggiori dettagli sul piacere di vivere a Napoli. Per ora bisogna accennare agli altri motivi che resero provvidenziale la sua permanenza nella città partenopea. Oltre a migliorare le sue condizioni di salute, questa contribuì a rendere famoso il suo nome come autore di dipinti di soggetti napoletani, e la maggiore notorietà significò, ovviamente, un incremento significativo delle commesse19.
Ma, a parte questi vantaggi di natura pratico-economica, il più importante debito che il pittore sentiva di avere contratto con l’Italia, e in particolare con Napoli, era di tipo ideale, perché investiva la sua sensibilità artistica e, più in generale la sua consapevolezza teorica. Come spiega in una lettera del 15 luglio 1828:
I principi dei vecchi maestri, prima per me inintelligibili,
mi divennero relativamente chiari per l’analogia che essi
recano con la natura italiana, nel momento in cui misi piede
in Italia. Vedevo Tiziano, Giorgione, e Paolo Veronese in
ogni chiesa, su ogni balcone, in ogni canale di Venezia.
Claude, e i Poussin li riconoscevo a Roma e in Toscana,
e Salvator Rosa folgora la mente come realtà assoluta ad
ogni passo che si fa nell’incantevole circondario di Napoli.


Così convinto era anzi del ruolo catalizzante che lo scenario napoletano aveva avuto sulla sua consapevolezza d’artista, che ad esso riconobbe un carattere di necessità, quasi, perché, «non si fosse spostato a Napoli, se ne sarebbe tornato con un’idea imperfetta della bellezza d’Italia». Quale poi di questo scenario napoletano fosse lo squarcio dalla cui contemplazione sentiva arricchita in maniera incommensurabile la propria sensibilità estetica, viene chiarito nella lettera del 6 giugno 1825, nel punto in cui spiega che «tutti i sogni della sua infanzia, tutti i vagheggiamenti della gioventù, e tutte le invenzioni dei suo anni maturi, erano stati realizzati in eccesso, mille volte in eccesso, dalla ricca e voluttuosa congerie di bellezze disseminate con mano generosa attorno alla baia di Napoli e all’ancora più interessante golfo di Salerno».
Se l’atteggiamento di Uwins nei riguardi del paesaggio fisico-geografico fu entusiastico, lo stesso non si può dire dei sentimenti da lui nutriti nei riguardi della dimensione morale, antropologica di Napoli e dei Napoletani in generale. Ad ergere la barriera del rifiuto ovviamente interviene qui la formazione religiosa del Nostro, la quale, infarcita di tutti i pregiudizi accumulati dalla plurisecolare propaganda anticattolica inglese, gli fa reiterare, come si vedrà, luoghi comuni, anche quando pretende di essere obbiettivo. Una prima generalizzazione la troviamo nella lettera del 29 aprile 1825, al fratello Zechariah, nella quale lo scrivente confronta Romani e Napoletani:

I Napoletani sembrano sempre inclini a qualche impudente
ribalderia; sono più puliti e più attivi dei Romani, ma sembrano
felici solo quando sono intenti a organizzare un bidone ai
tuoi danni. Imbrogliare sembra essere il compito della loro vita.
Se dovessero agire con onestà, non penserebbero mai di aver fatto
il loro dovere.


Nella lettera dell’8 marzo 1827 al fratello David, questa natura presuntivamente fraudolenta dei Napoletani viene illustrata con le seguenti considerazioni:

A un servo a Napoli puoi affidare qualsiasi somma di danaro
ed essere sicuro che non la toccherà; puoi lasciare i cassetti aperti
e non ti deruberà; ma affidagli l’incarico di comprarti qualcosa,
anche la cosa più banale, e puoi essere sicuro che ti imbroglierà,
e trarrà un notevole interesse dalla tua fiducia.


Quanto precede avverrebbe perché per il napoletano la truffa ha un carattere fondamentalmente non delittuoso e non infamante come quello del furto. A sostegno di questo suo convincimento, il pittore riferisce la reazione di un negoziante al quale aveva dato del ladro perché aveva per un articolo chiesto una somma dieci volte superiore. Il negoziante si era molto risentito, perché non si sentiva un ladro: chiedendogli una somma esosa non lo aveva derubato, semmai lo aveva «imbrogliato». L’angustia morale di cui dà prova il negoziante, secondo il pittore, dipende da una «difficoltà» costitutiva del carattere dei Napoletani, come spiega allo stesso destinatario nella lettera di appena qualche mese prima, il 3 febbraio 1827:

C’è anche una difficoltà nel carattere napoletano: quando gli
chiedi qualcosa, si sforzano di scoprire l’interesse personale
che gliene può derivare, e rispondono di conseguenza. A Napoli
la verità pura e semplice non è una virtù. Non entra mai
nella testa di un napoletano, né le viene offerto un posto nei
suoi calcoli.


La colpa di tutto questo, però, è solo in parte imputabile alla gente; perché la maggiore responsabilità dell’angustia della coscienza morale dei Napoletani deve ricadere sulla loro religione, e, in particolare, sui preti, i quali, come viene spiegato sempre nella lettera dell’8 marzo 1827, per confessare in fretta si limitano a chiedere solo se il penitente ha rubato, senza soffermarsi sulle tante tipologie di reato che con il furto sono imparentate, cosicché il napoletano che ha semplicemente «ingannato» se ne va con la coscienza tranquilla di chi non sente di avere peccato contro il prossimo.
Come è evidente, e come è del resto facile prevedere dopo quanto si è detto sopra, questo è solo uno dei bersagli dell’odio anticattolico del Nostro, perché, assieme a quelle contro il clero (specialmente quello regolare, dei monaci) le sue lettere da Napoli collezionano frecciate contro tutte le manifestazioni della religiosità cattolica, contro tutte le cerimonie, le credenze, le festività sacre e profane che scandiscono l’anno liturgico. Dal natale alla festa dei morti, dalla quaresima alla processione per il Corpus Domini, dalle preghiere della settimana santa al miracolo di San Gennaro, dalla festa della Madonna dell’Arco, alla cerimonia di ordinazione delle monache, è tutto un susseguirsi di bersagli polemici contro i quali il pittore punta lo specchio ustorio del suo rigorismo puritano. Quello che lo irrita della devozione cattolica, in particolare, è la prorompente presenza in essa dell’elemento pagano, la commistione di sacro e profano, di spiritualità e carnalità. Quando, per esempio, nella lettera del 5 giugno 1825, illustra al suo corrispondente la festa della Madonna dell’Arco, non si sa se a scandalizzarlo di più è lo spettacolo dei fedeli che dalla porta della chiesa avanzano fino all’altare strisciando la lingua per terra; o dalla naturalezza con la quale gli stessi fedeli, una volta usciti dalla chiesa, «sicuri di essersi ormai guadagnati l’indulgenza di molti anni di purgatorio», «si sciacquano la gola con abbondanti bevute di vino», si «decorino la testa con foglie di quercia e ramoscelli di noce», e se ne tornino a casa in groppa a un asino «intonando avvinazzati canti in lode della vergine». Né è solo il primitivismo pagano a connotare secondo lui l’essenza della pietà religiosa nelle nostre popolazioni, perché, in una lettera dell’8 gennaio 1826, il fatto di aver visto «genti di coltello tra i più devoti», gli fa concludere che «la devozione nei paesi cattolici è fatta coesistere con l’indulgenza verso ogni sorta di vizio e con l’esecuzione di ogni sorta di crimine», e, a illustrazione della sua tesi porta la seguente testimonianza:

Ho visto la gente qui precipitarsi dalle crapule della vigilia
di Natale alla messa solenne della natività, spingersi vacillando
fino all’altare in uno stato di torpida ebbrezza. Le
stanze in cui in queste ricorrenze bevono e mangiano fino
all’eccesso più disgustoso sono illuminate solo dalle candele
che circondano l’immagine della vergine, pezzo di arredo,
questo, presente in ogni casa, perfino nella taverna e nel bordello,
così che i loro stessi stravizi sono consumati, quasi, al lume
di luce religiosa.
Quando hanno speso l’ultimo centesimo al lotto, e derubato
le loro famiglie della speranza del cibo dell’indomani, vanno
dalla Vergine, le dicono i numeri che hanno giocato, e la supplicano
di farli vincere.


E non sono solo i comportamenti e le usanze delle classi povere a esibire questa commistione abominevole di vizio e pietà religiosa, perché alla stessa nefandezza egli ha assistito la sera precedente a una festa in casa del generale Koller, in cui si era data convegno tutta la Napoli bene. I padroni di casa avevano per l’occasione organizzato una singolare rappresentazione che consisteva nella sfilata su un palcoscenico di attori e attrici che con movenze e posture studiate visualizzavano i contenuti di famosi quadri di Raffaello, Tiziano, e altri pittori. In un primo momento la cosa piace al Nostro finché, però, uno degli attori, nell’intento di raffigurare il tema del dipinto ‘Cristo nel giardino’ del Dürer, non ha l’impudenza di rappresentare nientemeno che Cristo!
Da una lettera del 6 marzo 1827 apprendiamo che la stessa reazione suscita nel Nostro la festa di carnevale celebrata nella “Accademia Nobile”. Vi partecipano anche il re e la regina, i quali, «in costumi sfarzosi secondo l’usanza orientale, e ricoperti di brillanti e gioielli, sfilano per i saloni dell’Accademia, per poi sedersi su un trono simbolico dal quale assistere allo spettacolo delle altre maschere». A differenza della festa in casa Koller a sfilare qui non sono quadri viventi, ma maschere raffiguranti Dante, Petrarca, Tasso ed Ariosto, le quali, una volta al cospetto del re, recitano versi dai capolavori di questi poeti. La festa procede tra coreografie e danze che, a parte la tarantella finale, ben si armonizzano con il tema della poesia. Sennonché il re ha avuto la sfacciataggine di pretendere che il tutto venga replicato al San Carlo, in modo che lui e la sua famiglia si possano esibire davanti a spettatori più numerosi, tra i quali, vergogna tra le vergogne, è seduto il vescovo inglese Ossory, il quale guarda compiaciuto una sua nipote in maschera che si esibisce sul palco! «Ecco come gli Inglesi passano il tempo a Napoli!» è l’amaro commento del Nostro. Ma per avere un’idea dello scandalo che la festa di carnevale a Napoli suscita nell’Uwins dobbiamo citare da una lettera dell’anno precedente, quella del 21 febbraio 1826, nella quale si legge:

Il carnevale qui è la festa più stupida e insensata che venga offerta
sotto forma di insulto alla mente umana. Immagina gente di ogni
condizione sociale, sesso, ed età, mascherata e trasportata in carri
scoperti su e giù per una strada che è il corrispettivo napoletano
di Cheapside, a lanciarsi caramelle…Questo è il divertimento con
cui signori maturi e signore passano giorno dopo. Vi prendono parte
re e preti, e perfino il monaco scalzo alza la sua corona rasata in
mezzo alla calca, e atteggia i suoi tratti grevi in un sogghigno di pia-
cere. Ma questo è cattolico! –Invero, quale abominio, quale follia,
quale degradazione della mente umana esiste qui che non possa essere
ricondotta alla più fertile di tutte le fonti, la chiesa cattolica?


Né è solo il carnevale l’obiettivo dell’anatema, perché se si ritorna alla lettera del 6 marzo 1827 prima citata, si vedrà che lo scrivente ricostruisce un non meno edificante spettacolo della festa di quaresima.

Il carnevale è finito, alla buon’ora, e alla stagione della baldoria
del chiasso, della confusione e della dissipazione è subentrata quella
del saio e delle ceneri. La gente che conta invece di ballare e mascherarsi
fino alle sei o alle sette di mattina, si accontenta di giocare
a carte e di spettegolare fino alle due o alle tre; e invece dei pranzi
luculliani e delle ancora più luculliane cene, si limita a farsi servire
in tavola solo una dozzina di piatti, consistenti nelle più svariate qualità
di pesce di stagione, preparati secondo le ricette più prelibate e
fantasiose, e seguiti da una portata di dolci e da un dessert di frutta e
bonbon. Ecco come digiunano!


La serie dei bersagli contro cui si appuntano gli strali dell’Uwins non si esaurisce qui, ovviamente, ma, per quanto inquinate dall’integralismo, le sue lettere non perdono il loro i interesse, per almeno due motivi. Prima di tutto per le informazioni che esse ci forniscono su alcuni aspetti della vita della comunità inglese a Napoli in questo periodo, facendo indirettamente luce anche sul macrocosmo in cui essa è inserita; e inoltre perché l’intento moraleggiante che in esse vi si esprime, non solo a volte fa sorridere, ma viene controbilanciato, come vedremo, da un senso di graduale indifferenza verso le questioni religiose, e, per converso, da una sempre più convinta, quasi gioiosa adesione alla realtà del milieu napoletano.
Per quanto riguarda il valore testimoniale sulla vita della comunità inglese nel periodo in esame, le lettere offrono informazioni interessanti su alcuni aspetti della stessa. Si apprende, ad esempio, dei differenti indirizzi terapeutici che sul piano medico-sanitario nella comunità si sono susseguiti in un breve lasso di tempo. «Quando sono arrivato qui», egli scrive in una lettera dell’8 marzo 1827, «tutti correvano appresso ai forti purganti, introdotti da Monsieur Le Roi; tale era la fissazione per questa medicina, che essa bastò a decretare la popolarità e il successo di un’opera basata su questa mania, e andata in scena nel teatro napoletano». Poi si è affermato il metodo omeopatico, che, fondato dal Hahenemann, è praticato dal dottor Quin, amico suo, tra l’altro; e infine, si è avuta la cura a base di semi di senape, sostenuta e propagandata da un certo Mr. Turner. Da una lettera del 24 aprile 1827 apprendiamo di un’altra mania che si è diffusa nella colonia inglese, quella per cui ogni tipo «di pubblicazione, su giornale o rivista, che riguardi l’Italia e Napoli, viene letto qui con una curiosità vorace che fa assai paura». Subito dopo viene detto con soddisfazione che parecchie madri di famiglia inglesi si sottraggono alla consuetudine ormai imperante tra le donne napoletane, che appaiono sempre meno disposte a «rinunciare alla sala da ballo, o a scambiare il teatro con la stanza dei bambini». Per il Nostro «è bello vedere invece famiglie numerose inglesi che vivono secondo l’autentico stile delle gioie domestiche inglesi»; egli fa addirittura il nome di una famiglia, quella dei coniugi Talbot, «i quali, lui a quarantacinque e lei a quaranta anni, hanno una dozzina di bambini di tutte le età attorno a loro». Ed è bello vedere preservate le abitudini inglesi anche all’interno delle case, perché «alcuni dei mercanti residenti qui hanno il loro camino con una buona stufa Birmingham, e il fuoco (acceso) con carboni di Newcastle, e hanno i tappeti nelle loro stanze, le serate in case, e ogni sorta di comfort». In una lettera del 24 luglio 1828 informa il fratello dei tentativi portati avanti dalla comunità inglese per l’istituzione a Napoli di un luogo di culto protestante, e dell’atteggiamento di rifiuto del re, per commentare: «questa è la tolleranza che i Protestanti ricevono dai loro più amati confratelli»20. In una lettera del 31 marzo dell’anno successivo, infine, informa il suo corrispondente dello stato di agitazione in cui versa la comunità sulla questione cattolica, e in particolare sulla legge per l’emancipazione dei Cattolici, che, come si sa, fu varata proprio in quel periodo in Inghilterra. Il Nostro non «conosce nessuno a Napoli che si dichiari antiemancipazionista, e si dice anche lui convinto che è ormai tempo di tentare l’esperimento». Col che torniamo a quanto si diceva sul progressivo ridimensionamento dell’integralismo al quale è dato di assistere nella corrispondenza da Napoli del Nostro. Lo testimonia in modo inequivocabile la lettera del 1° luglio 1828, nella quale lo scrivente dichiara di non avere più interesse per «le follie, le pagliacciate, e le blasfemie della chiesa romana», per il miracolo del sangue di San Gennaro, per i miracoli della Madonna, e per l’arcivescovo che «taglia la barba, ogni anno ricrescente, al miracoloso crocifisso». Ma, se queste parole non bastassero a convincerci della trasformazione operata sulla complessione morale dell’Uwins dal suo soggiorno napoletano, c’è la lettera del 6 gennaio 1828 da lui scritta all’amico Robert Roffe. La citiamo nella sua integrità a conclusione di queste note, perché, senza tenere molto in conto i pregiudizi che pur vi affiorano, la riteniamo una dichiarazione d’amore dell’artista per la “Neapolitan way of life”:

Poiché ho iniziato a scrivere, vorrei, se possibile, darti qualche ragguaglio esauriente su di me. Ti vorrei dire perché sto da tanto tempo lontano dal mio paese, e forse dal mio dovere: a tentarmi molto è stato il clima. Il piacere dell’esistenza che ho qui era per me sconosciuto in Inghilterra. I miei giorni li passo senza dolori e senza abbattimento, e tutte le mie notti in rinfrescante riposo. Quando penso alla sorta di esistenza che menavo in Inghilterra, e la paragono alla vigorosa salute di cui godo qui, l’idea del ritorno mi fa paura. In Inghilterra mi era difficile affrontare la giornata senza tè o caffè, o qualche altro eccitante; qui non faccio mai ricorso a queste sostanze. In Inghilterra mi sentivo perso senza la mia colazione; qui prima che prenda qualcosa passa una mezza giornata, e sebbene mi alzi prima del sole, le mie labbra non toccano cibo o bevanda fino alle dieci, alle undici, e spesso fino a mezzogiorno. Allora metto un paio di biscotti in un piatto con un po’ di latte caldo, e sto bene così fino alle sei. A cena mi tratto bene: un piatto di maccheroni, un po’ di carne bianca, o cacciagione, o forse cinghiale, e poi un piatta dolce (sic!), che non è né pasticcio né budino, ma qualcosa tra i due, e per dessert frutta varia. Questa cena da nababbi, con una bottiglia di vino e tutti gli annessi e connessi mi costa a volte uno scellino, a volte sedici penni; e non pensare che mangi in una bettola. La mia trattoria è la più rinomata a Napoli, e i miei compagni di mensa sono duchi napoletani, ufficiali tedeschi, consoli, plenipotenziari e chargés d’affaires, con la miglior classe dei viaggiatori inglesi.
Dopo cena ritorno a casa allo studio serale, e siedo fino a mezzanotte senza prendere nient’altro, e senza nessuno di quei sensi oppressivi di sonnolenza che in Inghilterra rendono indispensabile il tè se vuoi lavorare di sera. In estate, quando le giornate sono più lunghe, mi organizzo diversamente, con la cena a metà giornata, e con una crosta di pane e un bicchiere di vino e acqua la sera, ma mai il tè. La quantità di lavoro che sono in grado di affrontare, sia quello mentale che fisico, è almeno doppia di quella in Inghilterra, e proporzionalmente aumentata anche la quantità di piacere e felicità. Qui il mangiare e il bere costano poco, ma l’affitto e il vestiario e quasi tutte le altre cose sono care come in Inghilterra; almeno così sembrano al forestiero, perché questo popolo cristianissimo ci tiene a bidonare lo straniero. L’onestà non fa parte del credo napoletano; se anche va a messa, si inchina davanti all’immagine della vergine, e mangia pesce il venerdì e il sabato, è capace di truffare il suo prossimo quando vuole, senza che la sua coscienza o il suo confessore lo chiamino a rendere conto di ciò.
Ho parlato del clima e parlando del clima dico tutto; specialmente per un artista, e per uno che come me ama studiare all’aperto, la possibilità di fare ciò senza buscarsi un raffreddore o i reumatismi è una gioia. Ma ci sono altre cose che rendono l’Italia deliziosa: il carattere semplice e rozzo di un popolo semibarbaro, i mobili e la struttura delle loro case e gli attrezzi di lavoro, e gli atteggiamenti pastorali e patriarcali: tutte queste cose costituiscono elementi di interesse per l’occhio dell’artista, che non si presenteranno mai in un paese artificiale. Gli Inglesi sono compassati e riservati, i Francesi affettati; ma gli Italiani sono sempre naturali; poi c’è l’infinita varietà dei vestiti pittoreschi, che, sebbene scomparsi nelle città, si conservano ancora in campagna con un attaccamento tenace e quasi superstizioso. Gli abiti con i quali Raffaello e Correggio dipinsero i loro gruppi storici è dato trovarli addosso a figure non meno nobili, e facce non meno espressive di quelle che popolano le loro tele poetiche; con l’occhio che cattura e sceglie le forme della bellezza, il pittore i suoi modelli li troverà intorno a lui, in loro vivente grandiosità e sublimità animata. Quando era a Londra, Canova disse di non aver mai visto donne più belle di quelle che vide passeggiare per Leicester Square una mattina di sole. Forse perché voleva fare un complimento agli Inglesi, o forse perché uno scultore non vede con gli occhi di un pittore, per quanto mi riguarda confesso di non aver mai capito il concetto di forza espressiva finché non venni in Italia. Ho dipinto una ragazza di un paese di campagna, che aveva tutta la maestà di una regina; a stento riuscivo ad avvicinarmi a lei senza inchinarmi, e senza che fossi pronto ad annullarmi nel timore reverenziale che lei mi ispirava. Da allora è andata in sposa ad un calzolaio. Ma se le persone sono semplici, naturali e leggiadri, se i vestiti sono storici e pittoreschi, quanto più bello, quanto più maestoso è il paese nel quale vivono! La natura qui fa festa ogni giorno dell’anno, e si veste con una fantastica profusione di bellezza. Ecco uno dei piaceri del vivere a Napoli; se mentre dipingo mi serve riferirmi a qualsiasi oggetto naturale, lo trovo dopo mezz’ora di cammino, a volte sul mio stesso balcone. Se desidero starmene appartato per un giorno o due, devo solo prendere una barca a mezzogiorno, e per quattro penny farmi portare in giro per la baia, o a una delle isole, e ritrovarmi in poche ore in mezzo a uno scenario che respira e ispira poesia, e tra gente con modalità di vita così primitive che ricordano i tempi di un Abramo, un Isacco un Giacobbe. O posso affittare una carrozzella che mi porti a Pozzuoli, e in brevissimo lasso di tempo ritrovarmi a vagare attraverso il tempio di Venere, o a studiare le altre interessanti antichità che circondano l’incantevole baia di Baia. Abbiamo tutto quello che è classico, da una parte, e tutto quello che è rude, selvaggio e fantastico dall’altra, col Vesuvio in silenziosa e solenne maestà a fare da sfondo al tutto; silenzioso ma terribile, che se ne sta come mostro enorme a riposo, ma il respiro delle cui narici mostra che non ha perduto il potere distruttivo. Tutte queste cose sono delizie e tentazioni per chi le sa veramente sentire, apprezzare e godere; ma dopo tutto non danno il pane quotidiano, o meglio i maccheroni quotidiani, e la necessità di vivere e mettere da parte qualcosa per la vecchiaia alla fine mi rispedirà in Inghilterra.













NOTE
1 Per avere un’idea della cospicuità e dell’autonomia della comunità inglese in questo torno di tempo basti pensare alla serie di professionisti, servizi e prodotti “made in England” disponibili per i residenti e per chi arrivava dalla madre patria: alberghi, pensioni, una biblioteca con libri e riviste in lingua, una farmacia, una chiesa protestante, medici, dentisti, chirurghi, ostetriche, banchieri, agenti di cambio e spedizionieri, sellai, profumieri, gioiellieri, cocchieri, sellai, e perfino callisti ricostruivano un lembo d’Inghilterra a Napoli. Si veda J. Jousiffe, Guide: A Road-book for Travellers in Italy, London, 1840.^
2 T.J. Mathias, Poesie liriche toscane, Napoli, 1818. Oltre a varie composizioni in versi, l’opera comprendeva una serie di traduzioni da autori inglesi quali Gray, Milton, Mason, etc.^
3 Ivi.^
4 Il necrologio apparve sul «The New Monthly Magazine» del 1835. Questo giudizio non sembra universalmente condiviso, però, perché, per esempio, la Blessington, che ebbe modo di incontrare il Mathias a Napoli, ne traccia un profilo non del tutto lusinghiero. Si veda per questo R.R. Madden, The Literary Life and Correspondence of the Countess of Blessington, London, 1855, v. I, p. 125. Per quanto riguarda le frequentazioni napoletane del Nostro, il suo nome lo troviamo citato frequentemente tra gli amici di Sir William Gell, di cui parleremo, di Keppel Craven, e tra gli ospiti quasi fissi della signorina Anna BaptistaWhyte nella sua casa di San Giorgio a Cremano, o nella sua villa di Cava, la stessa dove si fermò Walter Scott durante la gita a Paestum nel 1832. Cfr. E. Clay [Ed. by], Sir William Gell in Italy: Letters to the Society of Dilettanti, 1831-1835, London, 1976, p. 132; W. Gell, Reminiscences of Sir Walter Scott’s Residence in Italy, 1832, Toronto, 1957.^
5 N. Parker Willis, Pencillings by the Way, London, 1835, vol. I, p. 44.^
6 Il Mathias faceva parte dell’Arcadia con lo pseudonimo di Lariso Salamino. L’opera passò «per i torchi di Agnello Nobile», stampatore napoletano.^
7 M. Blessington, The Idler in Italy, London, 1839, vol. II, p. 180.^
8 «Leisurehour», 4 (1835).^
9 È quanto si apprende da una lettera alla Blessington del 2 giugno 1834, nella quale egli contrappone la «floridissima» condizione di Napoli a quella «esausta, malgovernata e sfortunata della Amante del mondo». V.R.R. Madden, The Literary Life and Correspondence of the Countess of Blessington, cit., vol. II, p. 104.^
10 E. Clay [Ed. by], Sir William Gell in Italy: Letters to the Society of Dilettanti, 1831-1835, cit., p. 8.^
11 Ivi, pp. 9-10.^
12 Ivi, p. 14.^
13 Ivi, p. 4.^
14 Sono gli ultimi due versi della canzone “Charlie ismydarling” cantata dai sostenitori della dinastia Stuart.^
15 Nella copia delle Reminiscenze da Gell inviata alla Blessington, questa scena è ricostruita in modo molto più articolato, dal quale è chiaro che il grande “Mago del Nord”, anche se non capì «una sillaba» della loro lingua, restò commosso dalla carica di entusiasmo e gratitudine che la folla di studiosi napoletani gli aveva testimoniato.^
16 Proprio all’Uwins dobbiamo un’incisione che raffigura il volto di William Gell.^
17 The Emancipated, come si ricorderà, era il titolo del romanzo nel quale si narra la bildung di un gruppo di personaggi di religione protestante, i quali cominciano a liberarsi dei loro pregiudizi religiosi proprio vivendo a Napoli.^
18 S. Uwins, A Memoir of Thomas Uwins, R. A., with Letters to his Brothers during Seven Years Spent in Italy, London, 1858.^
19 Tra i più significativi di questi lavori citiamo: Neapolitan Peasants at the Festa of the Madonna dell’Arco; Neapolitan Fisher-Boy, Neapolitans Dancing the Tarantella, The Neapolitan Saint-Manufactory, Punch at Naples.^
20 Sulla questione si rimanda a B. Dawes, La colonia inglese a Napoli nell’800 e le sue istituzioni, Napoli, 1988; e al più recente D. Richter, Napoli cosmopolita: viaggiatori e comunità straniere nell’Ottocento, Napoli, 2002.^
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