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I socialisti democratici italiani e il Centro-Sinistra
di Domenico Sacco
La sinistra italiana, in particolare quella di tradizione comunista, ha vissuto sempre di miti, utopie politico-sociali, prefigurazioni immaginarie del futuro, secondo il solido retaggio della ideologia marxista, che attribuiva ad una classe sociale (il proletariato) il compito di promuovere la palingenesi della società capitalistica, attraverso il suo abbattimento. Già il “revisionismo” marxista di fine Ottocento, con i lavori di Edouard Bernstein (e, per altro verso, con quelli di Georges Sorel) aveva dimostrato come le previsioni marxiane di una ravvicinata crisi della società capitalistica, “fatalmente” destinata dai suoi stessi interni meccanismi a dividersi in due soli aggregati sociali (borghesia e proletariato, quest’ultimo divenendo quindi imminente protagonista della strappo rivoluzionario) erano del tutto infondate. Il sistema capitalistico, lungi dall’entrare in crisi, trovava periodicamente gli antidoti alle sue crisi interne, superandole. E tra fine Ottocento e primi Novecento gli antidoti furono la riorganizzazione sul piano scientifico e tecnologico degli strumenti produttivi della grande industria e, sul piano organizzativo, la sua razionalizzazione con il sistema dei monopoli e dei cartelli.
Ma il mito della rivoluzione proletaria sopravvisse nelle componenti ortodosse del marxismo, confluite poi nella formulazione leniniana della teoria delle avanguardie e della rivoluzione proletaria armata: quello che assunse il nome di marxismo-leninismo, trovando ampia diffusione e sostegno nei partiti comunisti di tutto il mondo ed in particolare dell’Europa avanzata.
Il mito positivo della rivoluzione proletaria ha alimentato il sentimento e le speranze di milioni di uomini, sostenuto dal “mirabile” esempio di costruzione di una società socialista, quale i rivoluzionari sovietici proclamavano stesse avvenendo nella Russia post-zarista.
Ed i partiti comunisti europei si impegnarono in questa opera di propaganda del Mito dell’Urss, costruendovi intorno una variegata mitologia positiva, incentrata su lotta di classe e sciopero, nuovi istituti di democrazia “dal basso”, partito politico rigidamente classista, dirigenza incorruttibile e intransigente. E quindi: il mito della lotta di classe, del partito-guida, del Capo carismatico, della società socialista.
Tutto ciò si doveva necessariamente accompagnare con la delineazione del sistema, analogo e contrapposto, dei Miti negativi, da presentare alle masse lavoratrici. Questi ultimi, nella loro denunciata capacità di contaminazione e distruzione dei più genuini valori sociali ed umani, assumevano il ruolo di piena legittimazione dei primi, anche quando questi subivano evidenti degenerazioni: e cioè quando la lotta di classe diveniva sterminio etnico (kulaki), il partito-guida diveniva burocrazia terroristica, il Capo carismatico diveniva oggetto di Culto. Ma tutto ciò veniva giustificato dal perseguimento del fine ultimo, la costruzione dell’Uomo nuovo e della Società nuova, per i quali deviazioni momentanee e aberrazioni “di necessità” divenivano opportune ed accettabili.
Questo sistema culturale, con fortissime componenti psicologiche, ha avuto per tutto il Novecento ampia diffusione europea e planetaria, lasciando sul campo, al suo catastrofico tramonto, distruzione fisica e morale, stagnazione e regresso economico, sistemi totalitari e terroristici. E nella parallela costellazione dei Miti negativi, creati dalla cultura marxista-leninista, risultava fondamentale quello del Nemico da Abbattere, perché la strada verso la rivoluzione sociale potesse essere percorsa rapidamente. Ed il nemico da abbattere prioritariamente era costituito dall’insieme delle culture liberali, socialiste, riformiste, con le loro formazioni politiche ed i loro leader, ritenute forti ostacoli al conseguimento del successo finale, con l’abbattimento del sistema capitalistico. Il socialismo riformista ed i suoi proseliti erano ritenuti, nel complesso sistema della mitologia negativa della sinistra marxista-leninista, i complici dello sfruttamento capitalistico, i “traditori del proletariato”, i corruttori delle masse lavoratrici e quindi le levatrici del fascismo. E l’attacco e la diffamazione personale ai dirigenti del socialismo riformista diveniva momento centrale della lotta di classe.
Nella storia italiana, dopo la nascita del Partito comunista italiano nel 1921, il Mito negativo della controrivoluzione, dell’abbraccio al capitale e ai suoi vassalli, e quindi dell’apripista del fascismo fu rappresentato dalla figura di Filippo Turati e dei socialisti riformisti, teorizzati nella denuncia di un “socialfascismo” europeo, che veniva diffondendosi a partire dall’Italia. E la diffamazione del vecchio fondatore del Psi continuò anche post mortem, con il feroce necrologio riservatogli da Togliatti, nel 1934.
Prese il suo posto, dopo la guerra, Giuseppe Saragat, segnando con il suo pensiero e la sua azione politica un percorso culturale e morale fortemente alternativo al marxismo-leninismo del Pci, cosa che avrebbe comportato per il coraggioso socialista democratico la costante diffamazione personale e la damnatio memoriae storiografica. E di ciò sono testimonianza la pressoché totale mancanza di studi approfonditi sulla figura di Saragat e dei socialisti democratici e il misconoscimento clamoroso del ruolo di costoro, all’interno dei lavori storiografici dedicati al lungo dopoguerra italiano, sul complesso tema della costruzione della democrazia repubblicana in Italia.
Con molto ritardo e grazie al lavoro di una nuova generazione di studiosi, scampati al pernicioso influsso del marxismo e del gramscismo storiografici, si muove invece da qualche anno la lettura della storia del socialismo democratico italiano, che ebbe lunghissima gestazione con Turati, Treves e Prampolini e duri contrasti interni al Psi con l’agguerrita componente massimalista (che avrebbe poi abbracciato le sirene del marxismo-leninismo del Pci). Matteotti ne fu, prima del secondo conflitto mondiale, il più prestigioso esponente, ma poi il testimone sarebbe passato al giovane socialista turatiano Giuseppe Saragat che, fin dagli anni dell’emigrazione parigina storceva il naso di fronte all’inevitabile Patto antifascista di Unità d’azione del Psi con il Pci, pur regolarmente criticando l’alleato e l’intero sistema di valori del comunismo “realizzato” in Urss. Saragat, buon conoscitore del marxismo (a tal punto da dedicarvi nel 1936 uno studio come L’Humanisme marxiste), andava da tempo osservando la degenerazione nell’autoritarismo e nel terrore del sistema staliniano e la conseguente necessità, per il marxismo dei paesi avanzati, di coniugare il tema della democrazia con quello della libertà. Ma, quale democrazia? Quella che si definiva “popolare” dell’Unione sovietica? E che tipo di libertà? Quelle che le sinistre definivano “borghesi”? A dargli una mano nel risolvere il difficile dilemma furono Pietro Nenni e Lelio Basso, con le loro intolleranti posizioni favorevoli ad una fusione con il Pci e con la loro azione, sin dal primo congresso postbellico del Psi, volta ad annullare il ruolo democratico “di minoranza” che a sé rivendicavano le componenti riformiste (definite “di destra”) del Psi.
Saragat comprese che per queste posizioni, eredi di un’antica e nobile tradizione, non vi sarebbe stato più spazio nel socialismo “fusionista” e tanto meno in una sinistra unificata, e con le menti elette del vecchio socialismo d’anteguerra promosse la scissione di palazzo Barberini nel gennaio del 1947, con la fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani.
Qui comincia la costruzione, ad opera dei comunisti italiani, con una man forte dei compagni “fusionisti” del Psi, del Mito negativo di Saragat e del socialismo democratico italiano, erede della tradizione riformista di Turati e Matteotti. A leggere le pagine della stampa, che sarebbe stata definita “confusionista”, si resta esterrefatti della ininterrotta sequela di attacchi, offese, diffamazioni, pettegolezzi, ironia pesante verso i socialisti di Saragat, “traditori del proletariato”, “servi della Dc, degli Americani, del capitalismo”.
Saragat e i suoi coraggiosi compagni tennero botta, rispondendo colpo su colpo sulla loro stampa, in Parlamento, nei comizi (e taluni di costoro addirittura girando armati). Molte sono le occasioni, di cui è ricca la stampa del tempo, in cui comunisti impedivano le riunioni pubbliche e i comizi elettorali (siamo ormai alla vigilia delle elezioni del 18 aprile 1948) dei socialisti democratici.
Ma costoro la spuntarono nella dura contesa con il Fronte popolare di Pci e Psi. Alle elezioni dell’aprile la Dc ebbe la maggioranza assoluta alla Camera, ma non al Senato. E qui dovette far ricorso ai voti -oseremmo chiamarli provvidenziali- ed agli eletti del Psli e del Pri, per non esser costretta, in una sorta di “anatra zoppa”, a patteggiare con i comunisti la maggioranza di governo. Iniziava l’era degasperiana con i socialisti democratici protagonisti e, di fatto -con l’intelligente direzione italiana del Piano Marshall da parte di Roberto Tremelloni- gestori autorevoli della Ricostruzione del Paese.
Quanto fin ora illustrato il lettore troverà nel bel libro di Michele Donno, Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il Psli 1945-1952,(Rubbettino, 2009, pp. 541. euro 30).
Libro che gli storici più equilibrati hanno dichiarato aver colmato una lacuna storiografica e del cui valore morale l’autore può andar fiero. L’azione di Giuseppe Saragat fu decisiva nella nascita della democrazia repubblicana italiana, ben lontana dalle impostazioni collettiviste e stataliste che il Pci e il Psi avrebbero dato alla società italiana, nel caso di una vittoria del Fronte popolare. Ed oggi leggere il Programma elettorale del Fronte per quella contesa fa rizzare i capelli, tanto si avvicinava agli analoghi programmi delle sinistre nei paesi (Cecoslovacchia, Ungheria, ecc.) occupati dalle truppe sovietiche e chiamati a “libere” elezioni. Dopo le quali è nota la fine che fecero quelle nazioni.
Oggi Michele Donno porta a compimento la sua opera di attento ricercatore, libero da influenze politico-ideologiche di ogni fatta, e ci consegna questo interessante volume sui Socialisti democratici italiani e il centro-sinistra. Dall’incontro di Pralognan alla riunificazione con il Psi 1956-1968, (Rubbettino, 2014, pp. 238, euro 16).
L’azione di Giuseppe Saragat torna al centro dell’attenzione in questo studio seriamente documentato e scevro da interpretazionismi. Il socialista torinese è di nuovo il protagonista. Questa volta, dopo un quindicennio di intensa pressione verso l’amico Nenni, sul tema della libertà nei regimi comunisti dell’Est, Saragat vede maturare, alla metà degli anni Cinquanta, un nuovo convincimento che non fu solo politico, ma anche morale nel leader socialista Nenni. Ed è quello secondo il quale il socialismo italiano, dopo lo choc dell’intervento armato sovietico del 1956 in Ungheria, caldamente approvato dal Pci, non può più stare al fianco di questo partito, ma gli è doveroso distaccarsi, distanziarsi, rendersi autonomo, assumendo le pesanti responsabilità del governo di una società avanzata, in cui le masse popolari rivendicano parte dei benefici del “boom” economico, da esse stesse realizzato. È la storia della genesi del centro-sinistra italiano, con l’accordo Nenni-Moro, di cui Saragat fu il riservato ed attivissimo promotore.
Ed è la storia dell’impegno governativo della pattuglia di ministri socialisti democratici, che, con Saragat agli Esteri e Tremelloni alle Finanze, bene operò. Donno si sofferma con ampie citazioni, -che sono un vero strumento conoscitivo del pensiero e dell’operato degli esponenti socialisti democratici- sulle posizioni di Saragat, con particolare riguardo al Piano europeo che egli elaborò e propose al Consiglio, e sui provvedimenti adottati o promossi da Tremelloni, a fronte di una forte crisi economica internazionale: restrizione della spesa pubblica, razionalizzazione e snellimento dell’apparato amministrativo, contenimento dei consumi sbilanciati, lotta all’evasione fiscale ed altro. Sembra di leggere il cahier de doléances nell’Italia dell’oggi. E le opposizioni di sinistra? È inutile ricordare gli slogan confezionati dalle piazze dei comunisti, resi feroci dall’ulteriore “tradimento politico”, denunciato questa volta ad opera di Nenni. La pulsione eroica e mitologica del Pci verso il Nemico da Abbattere veniva rialimentata, ma anche perfezionata con l’azione di disinformatia del Kgb, quale si realizzò in occasione delle polemiche sul Piano Solo.
Due date, quindi, per i socialisti democratici e per la storia italiana: il 1948 e il 1962, attraverso le quali si venne strutturando per l’Italia un moderno sistema politico-istituzionale, con la partecipazione delle componenti italiane della grande famiglia socialista democratica europea.
Leggere questi lavori di Donno aiuta a capire il passato ma anche l’attuale situazione italiana e i colpevoli ritardi -ancor presenti- della sinistra del Belpaese.
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