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Risorgimento, trasporti e Mezzogiorno
di Guido Pescosolido
Mario Di Gianfrancesco non è uno storico di professione, non ha fatto mai parte del mondo universitario, non è uso frequentare le pagine dei grandi quotidiani, né le collane delle grandi case editrici, né i “salotti bene” della storiografia italiana. Laureatosi in politica economica ha lavorato per almeno un paio di decenni all’estero come funzionario dell’ICE, permettendosi tuttavia il “vizio”, quasi imperdonabile ai nostri giorni, di coltivare una passione autentica, viva, ardente per la storia, ma vissuta con misura, discrezione, sobrietà e operosità, nell’intento genuino di conoscere il passato senza alcuna finalità strumentale. Insomma: uno storico vecchia maniera dal quale si può anche dissentire per qualche sua conclusione o scorciatoia interpretativa, ma del quale non si potrà mai non apprezzare la positività delle ricerche e delle acquisizioni conoscitive, la chiarezza dell’esposizione, la semplicità e direi quasi l’umiltà con cui propone le sue idee e i suoi sempre documentati giudizi.
Fu questa sua passione, congiunta alla sua formazione di economista, a portarlo in anni ormai lontani a battere soprattutto i sentieri della storia economica dell’Ottocento e del Risorgimento, e a produrre una serie di saggi e un importante volume ai quali il mondo degli storici accademici, o comunque di professione, non ha forse riservato l’attenzione e il riconoscimento che essi meritavano. Mi riferisco in particolare al volume La rivoluzione dei trasporti in Italia nell’età risorgimentale. L’unificazione del mercato e la crisi del Mezzogiorno, [L’Aquila, 1979], che offrì un notevole contributo scientifico a una tematica complessa e difficile ed è stato per anni un prezioso e solido riferimento per quanti cercavano valutazioni quantitative e qualitative delle dimensioni materiali e della portata economico-sociale della rivoluzione dei trasporti in Italia nell’Ottocento.
A molti anni dall’uscita di quel libro, e dopo alcune divagazioni di minor dimensione materiale ma pur sempre di apprezzabile interesse scientifico, Di Gianfrancesco si ripresenta al pubblico degli studiosi e dei cultori di storia in senso lato con un altro volume [M. Di Gianfrancesco, Il costo dell’Unità. L’Italia dalla rivoluzione federalista del 1848 alla piemontizzazione incondizionata del 1860-61, Roma, Aracne Editrice, 2013], che, come il primo, raccoglie i frutti di uno sforzo di ricerca notevole e fruttuoso, allargando il campo di indagine alla storia ideologico-politica e ricostruendo in forma chiara, distesa e organica le vicende relative a una tematica di cruciale portata e attualità: la presenza della componente federalista e regionalista nel processo di formazione dello Stato unitario, collocata nel panorama delle vicende economiche e sociali della penisola nella prima metà dell’Ottocento. Ovviamente nel far ciò l’autore mette a frutto i risultati dei suoi precedenti studi e quelli della letteratura che dagli anni Ottanta in poi si è notevolmente arricchita di importanti apporti, tutti ben conosciuti e correttamente e proficuamente utilizzati [pp. 37-141, ma anche oltre, nelle pagine dedicate alla storia politica, i riferimenti all’economia sono molteplici]. Oltre a ciò egli mette a frutto, soprattutto nella parte riguardante il dibattito sulla lega doganale e lo svolgimento delle vicende politiche e diplomatiche, una serie di ricerche archivistiche originali, che fanno del libro non un semplice lavoro di sintesi divulgativa, ma una monografia di apprezzabile valore scientifico, al di là delle divergenze interpretative che con esso si possono avere, soprattutto in merito alla sua visione d’insieme del rapporto tra economia e politica nel Risorgimento, con la quale non mi sento di convenire, senza con ciò nulla togliere alla rispettabilità della visione dell’autore e ai meriti dell’apprezzabilissimo lavoro ricostruttivo che il libro presenta.
Di Gianfrancesco offre, infatti, al lettore un inquadramento molto ricco e articolato delle condizioni economico-sociali della penisola nel cui contesto si svolsero le vicende politiche che si conclusero con l’Unità e con la “piemontizzazione” del 1860-61 [al riguardo l’autore ricorda a p. 415 nota 33 l’origine storica del termine usato in luogo di “piemontesizzazione”]. Tuttavia nel precisare la sua visione d’insieme delle motivazioni e delle forze che mossero sia il movimento per la lega doganale, sia l’intero processo di unificazione Di Gianfrancesco propone una chiave interpretativa dei rapporti tra economia e politica nel Risorgimento di tipo rigidamente economicistico che fa torto, a mio modo di vedere, al panorama ricco, articolato e sfumato che egli ricostruisce in alcune centinaia di pagine. «Contrariamente alla tesi prevalente – egli conclude – riteniamo […] che la spinta fondamentale verso l’associazione, mentre fu prettamente politica nel ’700, divenne principalmente economica dopo la Restaurazione, in relazione agli sviluppi della rivoluzione industriale e ferroviaria che imponevano il superamento nel breve periodo delle vecchie barriere doganali tra gli stessi Stati». E in nota prende decisamente le distanze dai giudizi formulati al riguardo in noti studi di Gino Luzzatto, Mario Romani, Alberto Caracciolo e del sottoscritto, paventando il pericolo che la visione prevalentemente politica della vicenda risorgimentale, portata alle estreme conseguenze, «svuoterebbe di ogni significato economico l’intero Risorgimento, rivoluzione borghese per eccellenza» [p. 348 e n.].
Ora, quest’ultima conclusione non mi sembra giustificata né dalle posizioni assunte dagli autori che egli cita, né dal dibattito nel quale tali opere vennero a collocarsi, né, come già accennato, dalla stessa analisi che assai onestamente e senza alcuna finalità strumentale lo stesso Di Gianfrancesco ci offre: un’analisi cioè che contiene tutti gli elementi per poter concludere la lettura della vicenda risorgimentale nel suo insieme nel senso di una vicenda dominata da motivazioni e forze di natura prevalentemente etico-politiche, sia pure con intenti di cambiamento anche di natura economico-sociale, come poi effettivamente avvenne, e in un contesto preunitario di arretratezza economica e di scarso dinamismo rispetto all’Europa più progredita, che corrisponde molto a quello descritto da Luzzatto, Romani e Caracciolo e anche nel primo capitolo del mio lavoro chiamato in causa da Di Gianfrancesco [p. 348]. Soprattutto vorrei precisare che la mia posizione non è assimilabile a quella dei suddetti autori, perché essa si colloca all’interno del dibattito sullo sviluppo economico italiano molto diversamente dagli scritti dei tre autori citati da Di Gianfrancesco, in particolare di Luzzatto e Romani.
Di Gianfrancesco sa bene che la confutazione della visione economicistica del Risorgimento non iniziò né con Luzzatto né con Romani, ma sin quasi negli stessi anni in cui essa fu per la prima volta organicamente formulata, parzialmente in alcuni scritti di Prato e Anzilotti, ma più organicamente in quelli di George Bourgin, [Les études relatives a la période du Risorgimento en Italie, 1789-1870, Paris, Cerf, 1911] e soprattutto di Raffaele Ciasca [L’origine del «Programma per l’opinione nazionale italiana» del 1847-48, Milano- Roma-Napoli, Dante Alighieri, 1916]. In questo scritto, sulla base di una ricca documentazione pubblicistica, Ciasca sostenne che il Risorgimento era stato opera di una borghesia in ascesa che puntava, ostacolata dall’Austria, alla formazione di un grande mercato nazionale e alla conquista di un potere politico corrispondente alla sua forza economica.
Contro l’impostazione economicistica si era espresso sin dal 1911 Ernesto Masi [La storia del Risorgimento nei libri. Bibliografia ragionata, Bologna, Zanichelli, 1911]. Tuttavia, in modo deciso e puntuale e sulla base di ricerche specifiche sulla Lombardia, essa fu confutata nel corso degli anni Trenta da Kent Robert Greenfield in quell’opera tradotta in italiano nel 1940 [Economia e liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1815, Bari, Laterza, 1940], che in II edizione nel 1964 ebbe la prefazione di Rosario Romeo. Per Greenfield non esisteva al momento dell’unificazione una consistente borghesia capitalistica impegnata nella formazione del mercato nazionale e direttamente partecipe delle lotte risorgimentali. Il caso della Lombardia, la regione più progredita della penisola assieme al Piemonte, lo dimostrava, con la gracilità del suo apparato industriale e lo scarso coinvolgimento degli imprenditori nelle lotte risorgimentali. Di Gianfrancesco ha perfettamente ragione quando richiama lo sforzo delle riviste e degli intellettuali nel diffondere la dottrina liberista e richiedere una lega doganale che, comunque, non fu mai realizzata (e anche questo significa qualcosa); ma si trattava di studiosi di economia e intellettuali in genere che si muovevano su quella linea in seguito alle loro analisi in quanto studiosi e assai poco in quanto imprenditori, tranne poche eccezioni, e fu accolta da ceti politici di idee federaliste più preoccupati di cercare una alternativa al pericolo dell’unitarismo democratico mazziniano che non dell’effettiva opportunità di abbattere i rispettivi apparati protezionistici. Erano dunque tali soggetti a indicare, da una sponda quindi eminentemente intellettuale e politica, il superamento del protezionismo e della frammentazione del mercato nazionale come obiettivi economici molto più avanzati di quelli che le forze economiche e produttive sentivano come propri e per i quali si battevano. Le reazioni contrarie alla minilega con i ducati negli anni Cinquanta e le proteste degli imprenditori lombardi e veneti contro la concorrenza dei prodotti siderurgici e meccanici della Boemia e lanieri della Moravia sono significative al riguardo (importanti gli studi di Zalin), nell’evidenziare l’equivoco liberista in cui era incorso lo stesso Ciasca.
D’altro canto la visione economica e politica di Greenfield trovò consensi espliciti in due studiosi di grande rilievo sui cui nomi non si può sorvolare: Luciano Cafagna e Rosario Romeo, il quale non per caso scrisse la prefazione alla seconda edizione italiana del libro di Greenfield. Due studiosi che nelle loro opere non dimostrarono certo insensibilità o scarsa attenzione per la storia economica, ma che non per questo furono portati a vedere nel Risorgimento il frutto eminente, e sottolineo eminente, delle aspirazioni, e tanto meno dell’opera, di un ceto capitalistico e imprenditoriale forte e evoluto. Il che non significa ritenere che non vi fossero motivi economici sottostanti alla lotta per la costituzione dell’Italia unita [p. 422], significa pensare che quella lotta fu determinata nel suo esito vincente dalla congiunzione tutta politica delle mire dinastiche di casa Savoia con quelle di un movimento nazionale dominato da una «intelligenza» politica sia liberale sia democraticomazziniana, formata soprattutto da intellettuali, da esponenti dell’aristocrazia terriera illuminata, da piccola borghesia delle professioni, dell’artigianato e del commercio cittadini, convinti che la creazione di uno Stato liberal-costituzionale indipendente da potenze straniere fosse la premessa indispensabile anche per l’avvento di un libero mercato nazionale all’interno del quale le forze del capitalismo italiano avrebbero trovato condizioni più idonee per crescere e irrobustirsi. Ma la motivazione primaria e prevalente dell’aspirazione all’Unità restò, sino alla conclusione vittoriosa del 1859-61, eminentemente eticopolitica, diplomatica e militare e non economica.
Ci fu però una differenza profonda tra Cafagna e Romeo. Il primo insistette molto sull’arretratezza economica soprattutto del Mezzogiorno e sulla mancanza di complementarietà e comunicazione tra le regioni settentrionali e quelle meridionali, e comunque tra gli Stati preunitari [Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia, 1989], cosa sulla quale anche Romeo in parte conveniva; ma a differenza di Romeo, Cafagna sostenne decisamente la scarsa influenza dello Stato unitario sullo sviluppo industriale ed economico in genere della penisola in età liberale, lui sì svuotando di conseguenza il Risorgimento di gran parte del suo ruolo positivo nell’industrializzazione e nella modernizzazione del paese, in analogia con la ricostruzione fatta da Mario Romani e da Gino Luzzatto dell’andamento dell’economia italiana nel quarantennio successivo all’Unità. Al contrario, Rosario Romeo, pur convenendo con Cafagna e Greenfield, sull’arretratezza economica dell’Italia preunitaria e sulla natura eminentemente politica del Risorgimento, attribuì allo Stato unitario un ruolo fondamentale nell’avvio dell’industrializzazione e nella modernizzazione economica del paese, delineando nel suo Risorgimento e capitalismo [Bari, 1959] un processo storico in cui fu chiaramente, per usare una terminologia marxiana, la sovrastruttura ideologico-politica a influenzare la struttura economica e sociale, e non viceversa, come si potrebbe desumere da una lettura prevalentemente economicistica delle vicende storiche post-unitarie. I miei studi, specie quello citato dal Di Gianfrancesco, confutando abbastanza energicamente le posizioni sia di Romani che di Cafagna, oltre che ovviamente quelle di Gramsci, Sereni e Gerschenkron, si sono conclusi tutti con una conferma della linea di Romeo [per il dibattito mi permetto il rinvio al mio Agricoltura e industria nell’Italia unita, Firenze, 1983, IV ed. Roma-Bari, 2004]. Quindi lungi da me il pericolo di sottovalutare la grande influenza economica del Risorgimento nella storia della Penisola, solo che il grande ruolo propulsore dispiegato dalla Stato liberale nella vita del paese ebbe origine da un processo storico realizzatosi soprattutto nel segno di una battaglia interna e internazionale di natura eminentemente politica, diplomatica e militare, per i soggetti che la egemonizzarono e le idealità che la animarono (accanto agli storici, ai filosofi, ai politologi, non dimentichiamo il ruolo dei grandi romanzieri).
In ogni caso, al di là di questa divergenza di opinioni, ci tengo a dare atto al Di Gianfrancesco di aver offerto con grande onestà intellettuale una descrizione delle condizioni economiche della penisola molto oggettiva e articolata, e non semplicemente strumentale alla sua visione interpretativa: sicuramente si tratta di una delle esposizioni migliori disponibili sul mercato. E dalle sue pagine il lettore può trarre tutti gli elementi per potersi convincere dell’arretratezza dell’Italia preunitaria rispetto all’Europa più avanzata, sia in campo industriale sia anche in quello dei trasporti, della presenza nelle riviste e nei congressi di grande attenzione, soprattutto da parte di scienziati, intellettuali e politici, alla necessità della modernizzazione agricola, industriale e dei trasporti, e dell’aspirazione vivissima alla lega doganale. E nel contempo vi troverà anche un ruolo del tutto defilato, se non assente, di imprenditori industriali e operatori economici in genere nelle lotte risorgimentali.
D’altro canto debbo tornare a sottolineare che la parte più estesa e originale del libro è quella dedicata alla trattazione dell’idea e dell’iniziativa politica federalista, alla quale l’autore ha dedicato il suo sforzo più recente nella ricerca di documentazione d’archivio inedita. Da questo punto di vista i risultati sono importanti e contribuiscono a comprendere assai meglio che in precedenza non solo il ricco panorama dei pensatori, ma soprattutto la fitta rete di maneggi diplomatici che accompagnarono la nascita ideologica e la diffusione a livello di ceti politici preunitari dell’idea di federazione o confederazione di Stati, sboccata nella grande prova del 1848-49 e poi progressivamente abbandonata per dar luogo ad uno Stato non federale, ma unitario e, per di più, anche amministrativamente accentrato.
Su questa parte non mi dilungo, perché concordo sostanzialmente con la ricostruzione dell’autore, apprezzando in particolare l’utilizzazione dei documenti conservati nell’Archivio Segreto Vaticano, che illustrano in modo originale l’attività diplomatica pontificia alla vigilia del 1848 e dopo [pp. 205-345]. Di Gianfrancesco ha perfettamente ragione nel sostenere che la forma federale o confederale del nuovo Stato fu quella predominante nelle ideologie e nei progetti politici costituzionali presenti nella penisola fin quasi alla vigilia dell’unificazione, a parte i mazziniani, che però non erano poca cosa. Questo egli dimostra ricostruendo con una ricchezza di particolari veramente encomiabile tutte le ipotesi e proposte italiane e anche straniere (tedesche, francesi, austriache) di leghe doganali discusse in quegli anni e l’intrecciarsi di esse con il drammatico svolgimento delle vicende belliche del 1848-49. Concordo con lui nella sottolineatura della tenuta dell’ipotesi federale o confederale per buona parte del decennio di preparazione, sottovalutata da una parte della storiografia comprensibilmente abbagliata dalla clamorosa sconfitta del movimento antiaustriaco del 1848, e non attenta al fatto che nella mente di Napoleone III, ad esempio, il punto massimo di approdo del movimento unitario avrebbe dovuto essere una confederazione di stati sostanzialmente egemonizzata dalla Francia. Concordo con l’autore anche nell’indicazione delle ragioni per cui il disegno federalista fu abbandonato a favore della soluzione unitaria. Di Gianfrancesco pone in evidenza che esse furono soprattutto tre: la pervicacia dei localismi; il contrasto internazionale tra Piemonte e Austria, col pericolo del persistere della presenza austriaca e il profilarsi di quella francese in un eventuale assetto confederale; «la contrapposizione economica oltre che politica, fondata sulla soluzione, nord-occidentale o nordorientale, da dare ai traffici italiani» [p. 349]. Convincente anche l’analisi delle ragioni del mancato decentramento amministrativo e dell’accantonamento del progetto regionale del Minghetti, per via del precipitare della tenuta dell’ordine pubblico nel Mezzogiorno. Tutto ciò in accordo con le interpretazioni più autorevoli, anche se il costo della mancata soluzione confederale e di quella amministrativamente decentrata sembrano al Nostro (sulla scia di Sergio Romano) enormi, sicuramente superiori a quello valutato dalla maggior parte degli storici sia politici che economici. E tuttavia ci si potrebbe chiedere se è corretto definire un costo, quello il cui non pagamento aveva significato sino ad allora il mancato raggiungimento dell’Unità stessa. Tanto più che, da questo punto di vista, la conclusione finale del libro di Di Gianfrancesco, di fronte al palese fallimento dell’esperienza regionale del secondo dopoguerra, attualmente perdurante, sembrerebbe indurre a stabilire dimensioni ben più contenute dell’entità dei costi del mancato federalismo, se è vero che «l’ordinamento regionale anziché essere motivo di maggiore solidarietà e di unione consentendo una migliore e più scientifica distribuzione delle risorse, ha fatto scoppiare gelosie ed egoismi, incompatibili coi sentimenti di una coscienza nazionale e col raggiunto benessere. L’autonomia legislativa si va rivelando una bomba dirompente a livello settoriale e territoriale, scatenando la corsa all’accaparramento di fondi e posizioni elitarie» [pp. 427-428]. E se è vero, aggiungerei, che l’inadeguatezza delle classi politiche e dirigenti regionali hanno prodotto quella mortificante incapacità di utilizzazione dei fondi europei che è oggi una delle cause non trascurabili della crisi economica generale del paese e una delle maggiori del persistere e aggravarsi della questione del Mezzogiorno, concretizzando i timori che un meridionalista come Giustino Fortunato manifestò energicamente contro qualunque tipo di regionalismo, che avrebbe secondo lui consegnato il Mezzogiorno alle mafie locali.
Per concludere un libro poco propenso alle controversie superflue, ma attento agli incroci interpretativi fondamentali, calati in una narrazione chiara, ricca di fatti gerarchicamente ordinati e di una miriade di notizie e particolari utili, frutto di una serie assai lunga di importanti letture. Insomma un libro vivo, capace di destare interesse e far riflettere ancora su quello che resta l’atto fondamentale della nostra storia nazionale.
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