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Jospin su Napoleone: ne valeva la pena?
di Ernesto Cilento
Con singolare tempestività Lionel Jospin, primo ministro dal 1997 al 2002, durante la presidenza Chirac, decise di ritirarsi dalla scena politica dopo la disfatta elettorale che nel 2002 Jean Marie Le Pen gli inflisse, eliminandolo al primo turno delle presidenziali. Chirac ritornò all’Eliseo, forte dell’82% dei consensi, mentre al leader socialista non rimase altro che prendere atto del disastro.
Dopo di allora Jospin riprese il suo ruolo di militante socialista, di editorialista, prima del palese sostegno offerto alla campagna elettorale di SégolèneRoyal nel 2007. Riceverà in seguito, nel 2012, dal Presidente Hollande la presidenza della discussa Commissione sul rinnovamento e sulla moralità della vita pubblica in Francia e, nel gennaio 2015, sarà chiamato a sostituire Barrot nel Consiglio costituzionale.
Nel 2010, aveva pubblicato un libro-intervista in cui aveva ripercorso la sua storia personale e la sua carriera politica, rivendicando le scelte compiute (35 ore, copertura medica universale, PACS) e affidato a un film documentario, diffuso su una rete nazionale, lo stesso compito. Nel 2014 è la volta di un breve saggio su Napoleone, Le mal napoleonien, una requisitoria implacabile contro i mali del bonapartismo e soprattutto sulla figura storica del generale, che suscita curiosità e stupore nella stampa politica.
A che cosa attribuire tanto vigore polemico nei confronti di una figura che gli storici, di cui Jospin si dichiara debitore nelle sue affermazioni circostanziate, ci hanno ormai consegnato in chiave pressoché univoca come un figlio della rivoluzione, che con la sua opera contribuì a consolidare le conquiste della borghesia francese, poiché in lui si fusero perfettamente l’insegnamento dei lumi, razionalismo e passione civile e la sensibilità romantica, passione per l’azione eroica, talento e sfrenato individualismo.
Né si può ignorare che il ruolo della sua personalità fu progressivamente relativizzato dalla storiografia nel corso del Novecento a vantaggio di una tendenza a cogliere le trasformazioni della vita collettiva come principali agenti dei fenomeni storici, dunque da cosa è stata urtata così vigorosamente la suscettibilità del socialista Jospin?
Nella introduzione Jospin elenca una serie di motivi precisi.
Il segno lasciato da Napoleone nella nostra storia, dalla rivoluzione ai nostri giorni, egli ritiene sia frutto di un fascino che va opportunamente contrastato. In quanto politico egli ben conosce le molle del potere e gli interessi generali della Francia e sente il dovere di esprimere con forza il suo giudizio negativo «sui quindici anni del folgorante percorso da Primo Console a Imperatore».
Gli apologeti non mancano ai nostri giorni: dal principale partito conservatore che organizza una “fête de la Violette”, fiore dei bonapartisti a partire dalla prima abdicazione, quando i fedeli dell’imperatore si auguravano il suo ritorno in primavera al tempo delle viole e che valse a Napoleone il soprannome di Père la Violette, all’accademico Jean d’Ormesson che ancora vede in lui «il genio […] che ha cambiato il corso della storia e preparato il mondo in cui viviamo, un mito vivente, una leggenda che si ricrea, un dio pronto a manifestarsi».
Jospin coglie in tutto ciò una sorta di offuscamento della coscienza che impedisce di vedere “le mal napoleonien”, appunto, che avrebbe lasciato il Paese vinto, indebolito e detestato e privato la Francia e l’Europa di un altro destino, più fecondo. Soprattutto, ricorda ancora Jospin prima di avviare la sua requisitoria,vale la pena oggi di riflettere sull’impronta del bonapartismo nella vita politica francese.
Jospin ha considerato ingiusto il risultato elettorale del 2002 e certamente attribuisce parte della responsabilità ad un fenomeno sfuggito alle sue previsioni, pur essendo profondamente radicato nella storia politicoculturale francese, il bonapartismo. È da tale convinzione, a mio avviso, che egli prende le mosse per analizzare “l’avventura meteorica” di Napoleone e per cercare le origini di un fenomeno che ancora agisce nell’inconscio politico del popolo francese.



Il dispotismo

Il compimento di una rivoluzione è il ritorno all’ordine. Dopo la proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, l’affermazione del diritto dei popoli poggiato sulle fondamenta dei principi di Libertà, Eguaglianza e Fraternità, l’abolizione della monarchia e l’instaurazione della Repubblica, il Direttorio apparve come un primo tentativo di normalizzare una situazione che aveva trascinato la Francia nel Terrore e nella guerra civile. Con il successivo colpo di stato del 18 brumaio Napoleone Bonaparte assunse quel ruolo di uomo d’ordine in grado di portare a compimento il periodo rivoluzionario per procedere a grandi passi verso un regime dispotico e ipercentralizzato. Qui, ci indica Jospin, il “bonapartismo” muove i suoi primi passi, nel legame diretto tra popolo e capo carismatico, tranquillità e pace sono la contropartita concessa al declino dei principi democratici affermati nel periodo rivoluzionario. Il Console concede diritti assembleari senza che questi sfocino nel parlamentarismo, ovvero il potere esecutivo si sovrappone lentamente ma inesorabilmente a quello legislativo. Il controllo della stampa e un’attenta opera di propaganda assicureranno il consenso. Su tale strada l’Impero costituirà la definitiva instaurazione di un regime dispotico e poliziesco.
È pur vero, ammette Jospin, che il Codice civile resta un’opera che ha lasciato una traccia di libertà di lungo periodo nella società francese come in quella europea ed esso è frutto delle migliori riflessioni dell’illuminismo francese raccolte da Bonaparte, ma è anche vero che la personalità di Napoleone ne ha in alcuni casi profondamente intaccato i motivi ispiratori. È il caso del rapporto uomo donna che ha subito la concezione retrograda della famiglia tipica di un corso, cancellando un’eguaglianza cui la rivoluzione aveva aperto ben più che uno spiraglio. In molti altri campi, religioso, economico, civile i passi indietro sono notevoli in funzione dell’unico obiettivo del Primo Console, una dittatura che potesse affermare che la Rivoluzione era finita, impedendo tuttavia che altri compimenti potessero aver luogo: un regime liberale di carattere parlamentare, repubblicano o monarchico, poco importa, che avrebbe alimentato ulteriori conquiste democratiche e sarebbe apparso come la più logica conclusione del periodo rivoluzionario.
Da tali premesse il definitivo superamento della Repubblica a vantaggio della ripresa dell’idea monarchica fondata su una impossibile dinastia e su una fragilissima legittimità potevano offrire spazio soltanto ad un sogno di gloria militare. Da console a sovrano il percorso di Napoleone sembra assolutamente privilegiare la sua personalità e non tenere in alcun conto il bene della Francia.



Dalla nazione all’impero, da caporale a imperatore

A partire dalla difficoltà di stabilire se la rivoluzione abbia scelto la guerra come soluzione difensiva o offensiva, l’avvento di Napoleone ha immediatamente sciolto ogni dubbio, rapidamente egli varcherà “le frontiere naturali” e soffocherà le repubbliche sorelle nate dalla diffusione dei principi e delle idee rivoluzionarie. La sua carriera militare sembra frutto di una scelta politica più che di una vocazione di soldato, non esita a suggerire Jospin, sottolineando che già nel ’99, a conclusione della campagna d’Egitto, Napoleone abbandonerà una prima volta i suoi soldati, cosa assolutamente deprecabile per un militare di rango. Lo ripeterà in due altre gravi occasioni: nell’impasse spagnola e nella tragedia russa. Tuttavia, ciò non impedirà al generale di trascinare la Francia in un quindicennio ininterrotto di guerre su tutto il territorio europeo. I Francesi saranno mobilitati in massa e il sacrificio pagato sarà alto, circa seicentomila morti. Le finanze pubbliche dovranno sostenere uno sforzo non comune e le imposizioni ai paesi vinti contribuiranno sempre più all’immagine di una Francia predatrice.
Il sottoluogotenente Jospin si dichiara inadeguato a esprimere un giudizio sulla qualità del genio militare napoleonico, tuttavia non bisogna dimenticare che ci sarà pure qualche ragione se il meteorite si è infine abbattuto al suolo!
Come ci viene ricordato, le due campagne di Spagna e di Russia hanno segnato il destino di un generale incapace di amministrare le proprie ambizioni, di un uomo politico che non ha saputo «fissare per lui e per la Francia, obiettivi di guerra chiari, realisti e durevoli», che ha sempre inseguito i suoi sogni di gloria, la sua ambizione immediata piuttosto che gli interessi della Francia! Per di più Napoleone non ha colto l’importanza che veniva ad assumere il concetto di popolo in funzione dello sviluppo di quello di nazione. Il popolo per lui era ancora la plebe settecentesca assimilabile ai moti e ai disordini. Una forza che va domata con la forza o con la seduzione della propaganda. Ma egli non coglie la nuova fierezza del rifiuto di una dominazione straniera, dell’attaccamento ai principi religiosi o ad una dinastia. Finisce dunque per sottovalutare la resistenza spontanea del popolo spagnolo o di quello russo ed in generale per ignorare le nuove tensioni nazionali europee. «L’imperatore avrà seguito i suoi propri fini, spesso contraddittori, fino alla fine. Egli passerà come una meteora. L’Europa, risvegliata, si riaddormenterà, frustrata, per trenta anni» conclude Jospin.



L’Europa

L’emancipazione dei popoli europei dalla tirannide feudale, dal giogo della religione e della superstizione era certo uno dei sogni dell’illuminismo. Hegel stesso ancora nel 1806 attribuisce a Napoleone il ruolo di “anima del mondo” e Bonaparte stesso si attribuirà nel suo Memoriale il ruolo di emancipatore dei popoli. Questa tesi «non resiste all’esame dei fatti. Napoleone non ha emancipato nessun popolo, né il suo che egli ha dominato, né gli altri che ha sottomesso».
Dalla rivoluzione francese Napoleone ha ereditato l’ambiguità della pretesa funzione liberatrice della Francia rispetto ai popoli vicini. Presto manderà in fumo ogni dubbio, deluderà rapidamente ogni speranza di emancipazione. «Egli non è un liberatore ma un conquistatore. Egli non unifica in Italia, non libera in Polonia. Egli aggiunge dipartimenti all’impero, o crea dei protettorati». Non propone alcun federalismo tra Stati nazionali, come logica evolutiva per un insieme vasto e pensato come una nuova unità durevole. Egli pensa, invece, ad una conquista organizzata secondo un ordine piramidale alla cui sommità egli compare come despota assoluto. «I movimenti nazionali non hanno evidentemente spazio in questa costruzione. Napoleone non li vede. Se li vede, li ignora. E se si affermano, li combatte», la logica adottata dal generale è quella di un impero dominatore e predatore che spoglia i popoli delle loro ricchezze per nutrire le sue truppe. Tutto il patrimonio di simpatia che la Francia aveva guadagnato con la sua rivoluzione, con i suoi maîtres à penser viene rapidamente dilapidato e presto nasceranno sentimenti francofobi che resteranno intatti per lungo tempo. Goya, Beethoven, Fichte esprimeranno fino in fondo la cocente delusione di un’Europa perduta, di un sogno infranto.



La sconfitta

Tutto prende a scorrere velocemente dopo la ritirata russa. In un solo anno l’intero patrimonio appare dissipato. Germania, Olanda, Italia sono perdute, la guerra si sposta sul territorio francese. In pochi mesi si combatterà alle porte di Parigi.
Dopo la sconfitta, l’abdicazione viene posta come una condizione indispensabile a qualsiasi trattativa. L’impero deve finire qui! Se Napoleone è erede dei principi rivoluzionari non può restare, se è un conquistatore vinto, un usurpatore che ha creduto in un impero, deve essere cancellato. E così sarà nel giro di pochi mesi.
L’imperatore è stato tradito? Abbandonato piuttosto. Tutto ciò che egli aveva creato ha mostrato d’un tratto la sua fragilità, quella di un regime fondato dal dispotismo di un uomo. Napoleone tenta di negare tutto ciò in un ultimo scontro con tutta l’Europa riunita nel congresso di Vienna. Una nuova forma di regime, una nuova costituzione liberale, un tentativo disperato di trovare una via d’uscita. Questa volta sono i suoi avversari a costringerlo a battersi. Sarà definitivamente sconfitto.
[…] aver conosciuto la gloria con questo favoloso imperatore non sarebbe un’avventura straordinaria?Forse per coloro che amano le epopee scritte con il sangue degli altri, anche se non ne resta null’altro che odi eterni. Per coloro che come me, – sanziona Jospin – cercano più semplicemente di valutare se una tale epopea è servita agli interessi della Francia, la risposta è chiaramente no.

Nelle relazioni europee le conseguenze saranno gravi. La Francia poteva mantenere il ruolo emancipatore di patria della rivoluzione, mentre con Napoleone diventa odiosamente dominatrice, predatrice e sanguinaria. «Il lungo periodo cesarista che succede alla fase rivoluzionaria lascia la Francia dubbiosa sulla propria identità politica. La recente legittimità rivoluzionaria e democratica è stata dissolta dall’impero: lo spirito repubblicano non ispira che dei piccoli circoli».
Le conclusioni appaiono definitive, eppure l’analisi è costretta ad aprire un nuovo campo di riflessione: i Francesi non hanno chiuso con i Bonaparte. Un nuovo e più inquietante capitolo prende le mosse nella storia politica e culturale francese, Bonaparte è morto, viva il bonapartismo.
La leggenda napoleonica alimentata dalla diffusione del Memoriale di Sant’Elena, il favore dei grandi scrittori romantici e di quelli piccoli a seguire, la leggenda “nera” a fianco di quella
“dorata”, il ritorno delle ceneri di Napoleone in patria accolte da Luigi Filippo nella sontuosa cornice des Invalides, tutto contribuisce alla «consacrazione di un mito e rappresenta la confusione di una legittimità in una Francia incerta sulle sue scelte».
Jospin si emancipa dalla classica lettura marxiana che ci presentava il lato farsesco della storia che imboccava la ripetizione del colpo di stato del 18 brumaio! Egli sottolinea invece i lati di novità dell’esperienza del secondo impero in cui l’affarismo sposa più radicalmente lo sviluppo economico e industriale. La borghesia assume una posizione dominante, mentre il proletariato avanza le sue prime rivendicazioni.
Tutt’altra storia dunque. Napoleone “le petit” getta le fondamenta del bonapartismo più di quanto non abbia fatto il suo illustre predecessore. I cambiamenti costituzionali del 1869, che aprono la via a un regime imperiale parlamentare sul modello della monarchia ereditaria e parlamentare britannica ed un’elaborazione ideale del bonapartismo affidata ai due volumi della giovinezza Les idées napoleoniennes e l’Extinction du pauperismo costituiranno le basi di un riferimento destinato a radicarsi nella cultura politica francese.
Il bonapartismo, che vorrà collocarsi al di sopra delle fazioni, dei partiti si dirà in seguito, e che intenderà superare la frattura destra-sinistra, è animato da un’aspirazione all’ordine, ma anche da preoccupazioni di carattere sociale. Il suo riferimento ad un regime plebiscitario sarà frutto di posizioni anti elitarie e anti parlamentari. Gloria formale e sviluppo economico saranno il risultato, invece, di una fusione diretta tra popolo e capo provvidenziale, salvatore o rassicuratore.
Insomma, sembra affermare Jospin, le difficoltà del regime repubblicano e democratico trovano nel vocabolario politico francese un’alternativa non occasionale: il bonapartismo tenderà a rappresentare d’ora in avanti una risposta, una minaccia al progresso democratico, il colpo di stato una soluzione alle impasses del regime parlamentare. Boulanger, esprimendo il bonapartismo della revanche, ne rappresenta il primo caso esemplare, a prescindere dall’esito drammatico della sua avventura. Mancherà in seguito un capo carismatico che possa riproporsi nel ruolo e Petain, uomo della provvidenza, in realtà sarà chiamato a rappresentare dispoticamente nell’esperienza di Vichy la Francia sconfitta e dominata dal nazismo.
Ben altra attenzione merita l’esperienza politica del generale De Gaulle.
Militare tradizionalista e cattolico, egli non ha mancato di criticare in gioventù il parlamentarismo della Terza Repubblica. Entrato in politica nel 1940 come membro del governo Reynaud ha mostrato i tratti della sua personalità: un ufficiale brillante, lucido e sicuro del proprio valore. Nel medesimo anno abbandona la Francia per raggiungere l’Inghilterra avendo rifiutato l’armistizio che Petain aveva chiesto ad Hitler. Egli vuole continuare a combattere e a mantenere la Francia nella sua condizione di alleata dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Questi tratti uniti ad un carattere collerico e poco disponibile alla critica rapidamente rimandano “all’ombra del Bonaparte”, sarà Aron a suggerirlo dopo averlo incontrato. Tuttavia, non manca di rilevare Jospin, l’esperienza della Resistenza allargherà i suoi orizzonti politici, egli apprenderà a collaborare con i radicali, con i socialisti e con i cristiano democratici con i quali condividerà l’esperienza del Comitato di Liberazione Nazionale. De Gaulle si mostra in grado di ricondurre la Francia ad una Repubblica pluralista nonostante il grande favore popolare che la figura del generale ha guadagnato in tutta la nazione e che lo farà eleggere capo del governo all’unanimità dall’Assemblea costituente nel novembre del ’45.
I progetti della nuova Costituzione spaccarono il quadro unitario che la Resistenza aveva assicurato alla politica francese e De Gaulle per due volte si oppose alla Costituzione proposta sul medesimo problema: il generale vuole che il potere esecutivo prevalga su quello assembleare ed emani direttamente dal capo dello stato eletto da un collegio allargato.
Un compromesso tra socialisti e comunisti aprirà invece la strada alla IV Repubblica di marca parlamentarista. De Gaulle tenterà ancora di rifiutarlo, senza successo. Si ritirerà pertanto, fondando un nuovo partito, il RPF, ostile alla Quarta Repubblica, anticomunista e nazionalista, borghese e popolare, che raccoglie immediatamente larghissimi consensi ottenendo nelle elezioni municipali del ’47 il 40% dei voti. Una formazione di destra autoritaria tipica del “bonapartismo”. Tuttavia, ricorda ancora Jospin, non tenterà in nessun modo di sovvertire la Repubblica nascente, accetterà la sua condizione di minoranza e lavorerà politicamente per il suo ritorno.
Occasione che gli verrà offerta nella seconda metà degli anni Cinquanta dal movimento di decolonizzazione e dalla debolezza politica ed istituzionale della Quarta Repubblica. La forma della sua ascesa al potere rimanderà di nuovo ai caratteri del bonapartismo: un colpo di forza legalizzato.
Di fronte alla crisi algerina il potere dello Stato si mostra debole, la paura del caos e la minaccia dei militari richiedono un “salvatore” che potrà riportare tutto nei ranghi della legalità e dell’ordine. E il generale è pronto ad accettare il ruolo. Nel ’58 riceverà dal Parlamento i pieni poteri in Algeria e la facoltà di elaborare una Costituzione.
Ancora una volta la sinistra denuncerà la politica autoritaria del generale e proverà a prendere le distanze, ma la Francia aveva urgente bisogno di istituzioni forti, oltre che di condurre una politica estera indipendente e questo il generale era in grado di assicurarlo, senza alcuna deriva dittatoriale.
Come si vede l’atteggiamento di Jospin offre sempre a De Gaulle il modo di smarcarsi da una cultura bonapartista, quasi gli preme di potere oggi rivendicare il senso della sua visione politica, di sottrarla alla destra odierna e di sottolineare quanto dei programmi del generale siano ormai diventati un patrimonio nazionale, forse raccolto con maggiore vigore dalla nuova sinistra di governo.
Nella Quinta Repubblica il Presidente sarà la chiave di volta del nuovo regime istituzionale, come De Gaulle auspicava, il potere esecutivo prevarrà sul legislativo e i poteri del Presidente giungeranno a prevedere una sorta di dittatura temporanea con pieni poteri in condizioni eccezionali. De Gaulle guiderà la Francia per un decennio con la forza che gli verrà dal plebiscito del 1962, il 62% dei francesi costituirà la piena legittimazione alla visione politica del generale e la posizione critica del socialista Mitterand, che nel ’64 parlerà di un colpo di stato permanente, farà piuttosto pensare ad una logica partigiana che non ad una posizione politica alternativa.
«Certi pensano che il leader della sinistra, che condanna il gesto gollista, ne disperde l’eredità. Ora, se si percorrono i trenta anni, che dal 1981 portano ai nostri giorni, si scopre un’evoluzione complessa e quasi paradossale. La destra abbandona del tutto la dottrina gollista laddove alcuni orientamenti del gollismo sono stati raccolti dalla sinistra». Insomma per Jospin, primo ministro socialista di un governo sotto la presidenza del presidente Chirac, espressione della destra politica, bisogna riconsiderare la frattura destra/sinistra come una componente della cultura politica Francese e forse il bonapartismo, inteso come cesarismo e dispotismo, appartiene definitivamente al passato e non ha un futuro politico in Francia se non di carattere folcloristico ed elettorale.
Sono ben altri i pericoli dell’attuale quadro politico istituzionale.
Il populismo, inteso come rapporto diretto tra popolo e capo carismatico e la crisi del modello democratico parlamentare. Temi richiamati da Jospin nelle ultime pagine del suo pamphlet per concludere che la ricca quanto drammatica esperienza storica europea potrebbe costituire una bussola per superare gli ostacoli del presente.
Una bussola che certamente indica un desiderio di grandezza che oggi la Francia e tanto meno la sua rappresentanza politica non riesce a raccogliere, anche quando è costretta a subire gli effetti di un bonapartismo di ritorno, privo delle condizioni storiche che lo hanno reso possibile e di una personalità lontanamente paragonabile a quella dell’imperatore. De Gaulle ha certo mostrato originalità e carisma, capacità di interpretare un ruolo di leader europeo di una grande nazione, forse per questo si sottrae ad un facile rimando bonapartista e non riesce a trovare una sua collocazione precisa in un quadro di riferimento limitato da ben scarse ambizioni. Dunque il bonapartismo risulta, dalla stessa analisi di Jospin, un tema politico di ben scarsa rilevanza nella odierna cultura politica francese e ci si chiede se sia valsa la fatica anche solo di un pamphlet.
I temi odierni cui offrire risposte credibili e di ampia prospettiva non mancano: terrorismo, questione medio-orientale, migrazione di popoli, l’enorme problema demografico e ambientale, il destino dell’Europa come unità politica, nel quadro di una dimensione istituzionale, richiedono certamente di partire dalle riflessioni indicate nelle ultime pagine da Jospin, ma con un vigore ed un passo di una nuova generazione politica di cui non vediamo traccia nel pamphlet, ma soprattutto negli attuali dirigenti socialisti francesi.
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