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Mediterraneo-atlantico: elementi per un confronto nell'area imperiale spagnola
di Giuseppe Galasso
Il Mediterraneo è uno spazio ben definito nella geografia mondiale, di estensione modesta rispetto ai grandi oceani, chiuso tra lo Stretto di Gibilterra e lo Stretto dei Dardanelli, con la piccola appendice costituita dal Mar Nero. Questa limitatezza geografica è, peraltro, ampiamente compensata da vicende storiche di una tale grandiosità e di una tale decisiva importanza da fare di questo spazio un riferimento centrale, e imprescindibile nella storia dell’uomo e della civiltà umana. Non per nulla alcuni studiosi, sia storici sia geografi, hanno parlato di un “continente mediterraneo” a sé fra Europa, Asia e Africa; e, in effetti, l’intreccio euro-afro-asiatico è già da varie migliaia di anni un nodo la cui realtà storica si è imposta con evidenza anche alla storiografia più riluttante a riconoscerlo.
L’Atlantico è, invece, uno spazio vastissimo, il secondo oceano del mondo dopo il gigantesco Oceano Pacifico, con una forza di delimitazione geografica tale da aver costituito fino a poche centinaia di anni fa un vero e proprio muro divisorio fra Vecchio e Nuovo Mondo.
Due mondi nettamente distinti fra loro, ma accomunati almeno da un elemento: dal fatto, cioè, che su entrambe le rive dell’Atlantico non si stendeva da Nord a Sud una sola omogenea area di civiltà, bensì, al contrario, un succedersi di realtà umane e civili assai diverse fra loro per complessità e livelli di sviluppo. Anche, poi, quando Vecchio e Nuovo Mondo vennero in assiduo, continuo e mai più interrotto contatto fra loro, questa varietà umana e civile sia sulla riva orientale sia su quella occidentale dell’Atlantico rimase, e si perpetua ancor oggi, benché si sia di molto attenuata, al punto che per alcuni spazi si può dire non vi sia più alcuna differenza fra le due coste dell’Oceano.
L’Atlantico non fu, peraltro, subito navigato tutto con la stessa intensità. Nei primi due secoli dopo Colombo fu soprattutto la sua fascia centrale a costituire l’area oceanica in cui la navigazione fra Vecchio e Nuovo Mondo si fece più continua e più frequente. Si tratta dell’area compresa fra la Manica e la Florida a Nord e il Golfo di Guinea è il porto di Bahia a sud. In questo stesso irregolare quadrilatero la parte superiore – fino a una linea grosso modo fra Gibilterra e Cartagena – era di molto più trafficata di quella inferiore, e questa delimitazione è importante. Essa indica, infatti, chiaramente che siamo nello spazio più proprio dei due maggiori imperi coloniali europei della prima età moderna, ossia lo spagnolo e il portoghese.
La storia della navigazione atlantica rivela, perciò, fin dall’inizio la sua corrispondenza con la grande storia politica determinatasi e iniziata con la scoperta di Colombo. Una corrispondenza che – a quanto può apparire da una considerazione di carattere molto generale, e malgrado i molti avanzamenti realizzati dalla metà del secolo XX in poi – continua a essere gravata da un’idea non molto appropriata al caso dell’impero spagnolo fra XVI e XVIII secolo. La “leggenda nera” della monarchia ispanica si è, certamente, un po’ attenuta; forse non solo per i progressi della storiografia, bensì anche perché molti dei suoi motivi sono trasmigrati in quel “processo dell’Europa” che ha preso tanto vigore fra il XIX e il XX secolo. Non si è di molto attenuta, invece, la convinzione che il governo dell’impero spagnolo sia stato un indistinto ammasso di errori, parassitismi e inettitudini; e, soprattutto, neppure si è di molto attenuata l’idea, largamente diffusa, che la storia della monarchia spagnola e del suo impero dalla fine del secolo XVI non sia stata altro che la storia di una progressiva, inarrestabile decadenza.
La realtà è alquanto diversa. Molto di nuovo e di valido si è avuto negli studi più recenti sulla effettiva natura del governo imperiale spagnolo, sulla sua congruenza ai fini che si proponeva Madrid e sulla sua razionalità sia dal punto di vista di quei fini sia dal punto di vista delle idee di economia e di politica economica che si avevano ed erano circolanti o recepite nella concreta realtà storica e culturale entro l’ambito della Spagna imperiale. E sono ampliamenti della nostra visione storica dell’impero spagnolo, che possono valere in gran parte anche per l’impero portoghese.
L’idea di una molto precoce decadenza spagnola è, invece, sempre molto radicata. In pratica, negli studi sulla grande politica europea fino alla pace di Vervins del 1598 la Corona spagnola figura ancora come grande potenza. Nelle rappresentazioni storiche più correnti, alla pace dei Pirenei del 1659 già non è più così. Nelle grandi paci del secolo XVIII la Spagna figura soprattutto come un gigante dai piedi di argilla, al quale viene via via sottratta questa o quella parte dei suoi dominii.
Questa rappresentazione della Spagna come grande potenza in continuo declino non corrisponde alla realtà dei fatti. Non è solo il fatto che nel primo ventennio del secolo XVII, sotto Filippo III, la preminenza spagnola in Europa divenne più evidente, e quella sorta di pax hispanica che caratterizzò quegli anni ne fu l’altrettanto evidente dimostrazione. A quel tempo Madrid era la prima Corte d’Europa, e qualsiasi potenza europea che potesse avere rapporti con la Spagna riteneva indispensabile inviarvi e mantenervi propri rappresentanti. Ben oltre di ciò va la parte che la Spagna assunse subito dopo nel grande conflitto europeo detto dei Trent’anni.
È noto il progetto di unión de las armas che l’Olivares si sforzò di realizzare negli anni ’20 e ’30 del secolo XVII. Il progetto, malgrado che la sua fama non sia eccellente, aveva una sua sensatezza, e anche una sua potenzialità di realizzazione. Quel che i fatti dimostrarono carente nel Conte-Duca non fu la sensibilità politica, ma il senso delle dimensioni e delle proporzioni dell’impegno che egli propose e chiese al suo paese e alle sue dipendenze. Lo sforzo vi fu, e fu enorme, e riuscì a raccogliere e mobilitare risorse ed energie che non sarebbe mai stato possibile raccogliere in un paese mal ridotto quale si immagina che fosse la Spagna della prima metà del secolo XVII, e ancora meno possibile in un impero governato con i criteri insani e distruttivi attribuiti al governo imperiale di Madrid. Tuttavia, la coalizione delle forze antispagnole era tale da rendere l’obiettivo che l’Olivares si propose più difficile a raggiungersi di quanto egli non avesse la possibilità di prevedere. Soprattutto, a questo riguardo, era, però, l’interna struttura dell’impero a non consentire una facile realizzazione dell’obiettivo di alta politica a cui doveva mirare la unión de las armas.
Fu su questo terreno, prima e più che su ogni altro terreno, che l’Olivares dovette riscontrare l’insufficienza dei suoi calcoli politici e militari. Era enorme la dispersione di risorse e di mezzi causata da una inefficienza burocratica e da una larga diffusione di corruzione e di indebite appropriazioni di mezzi pubblici a fini privati: magagne che non si ritrovavano soltanto nel sistema politico spagnolo, poiché erano ampiamente condivise in tutte le amministrazioni europee dell’ancien régime, ma che nel caso spagnolo erano fortemente accresciute dalle molteplicità dei dominii spagnoli, ciascuno con la propria struttura istituzionale e politica e con propri privilegi e consuetudini, mentre la unión de las armas alla quale si mirava avrebbe richiesto un livello di governo unitario dell’impero che non sussisteva.
Considerato ciò, l’Olivares riuscì a fare molto, anzi moltissimo, Nonostante tante proibitive difficoltà, la Spagna e le potenze che ad essa si raccordavano ressero bene alla prova del confronto armato. Tra la riconquista di Breda nel 1625, la vittoria di Nordlingen nel 1634 e la marcia su Corbie nel 1636 che nel 1638 portò le armi spagnole fino a Pontoise a 30 Km da Parigi la potenza spagnola mostrò di essere ancora al più alto livello. Sul mare non era stato così. Il principale avversario marittimo della Spagna erano in questo periodo i Paesi Bassi; e le flotte olandesi inflissero a quelle spagnole due sconfitte decisive alla battaglia delle Dune del 1639 e a Pernambuco sulla costa brasiliana nel 1640. Anche sul mare gli Spagnoli avrebbero avuto, comunque, successi importanti, come nel 1625, contemporaneamente difendendo con successo Genova, sconfiggendo la flotta olandese in Brasile, riconquistando Bahia e la baia di Todos lo Santos, e replicando il successo sugli olandesi nel 1631. Sul fronte francese fino al 1641 gli spagnoli furono ancora all’offensiva, e solo dopo la disfatta di Rocroi nel 1643 la guerra invertì il suo corso, provocando la caduta dell’Olivares e l’avvio alle paci di Vestfalia, che per Madrid comportarono soprattutto il riconoscimento, dopo ottant’anni di guerra, interrotti solo dalla tregua del 1609-1621, dell’indipendenza olandese: un riconoscimento che segnava un fallimento politico clamoroso.
La forza della monarchia non era tuttavia, ancora fiaccata. Nel 1652 capitolava Barcellona e venivano prese, Dunkerque nelle Fiandre e Casale Monferrato in Italia. Poi ancora una volta le cose cambiarono verso e si giunse nel 1659 alla pace dei Pirenei e nel 1668 al riconoscimento dell’indipendenza portoghese: date che segnarono ben più delle paci di Vestfalia l’eclisse del primato spagnolo in Europa, che durava dai tempi di Carlo V.
La seconda metà del XVII secolo fu per la monarchia spagnola un effettivo tempo di crisi che, nella guerra di successione iniziata nel 1701, ebbe la sua finale sanzione con la perdita dei Paesi bassi e dei dominii italiani della Corona, che si ridusse alla sola penisola iberica, senza cessare, peraltro, di essere una grande potenza.
Il punto più insoddisfacente nelle valutazioni della storia spagnola fra il 1500 e il 1800 sta proprio qui. Sta nell’incapacità o nel rifiuto di scorgere e di mettere in evidenza il punto principale. E il punto principale sta nel fatto che la Spagna perse il suo ruolo di grande potenza solo con la perdita del suo impero americano, che si sommò alla grave crisi interna della monarchia sotto il re Carlo IV. Nella grande politica europea fu questo ad avere un contraccolpo immediato ed estremamente significativo. Al Congresso di Vienna la Spagna, nonostante le sue più vive proteste, non fu ammessa nel direttorio delle quattro potenze che regolarono il congresso e al quale finì, invece, con l’essere ammessa la Francia, due volte sconfitta, nel 1814 e nel 1815.
La perdita dell’impero americano non poteva non comportare un forte declassamento nello status di potenza della Spagna. Da impero intercontinentale (Madrid possedeva ancora anche le Filippine) di grande rilievo sul piano geo-politico mondiale la Spagna si trovava, infatti, ridotta così a potenza regionale europea; e, per giunta, a potenza regionale che non era tra le più avanzate e le più forti del continente europeo: era, anzi, in una condizione di minorità politica ed economica dalla quale si può dire che non abbia cominciato veramente ad uscire che alla fine del XX secolo.
Nel declassamento spagnolo ebbe parte certamente la Gran Bretagna, che nelle rivolte latino-americane divampate fin dal 1808-1809 vide la possibilità di una sua più profonda penetrazione nell’economia di mezzo continente americano, già iniziata da tempo. Sarebbe, tuttavia, riduttivo e inaccettabile vedere nell’interesse britannico la sola o la principale causa efficiente delle rivolte americane alla Spagna. Quelle rivolte avevano, infatti, la loro prima origine nella maturazione di società ispano-americane proprie sempre più pronunciate, al punto da differenziarsi fortemente fra loro, come poi si è potuto vedere nell’articolazione nazionale ispano-americana.
Questo dato di fatto indiscutibile dovrebbe riaprire il discorso sulla colonizzazione spagnola del Nuovo Mondo, che continua di solito a mantenersi sui binari tradizionali. Non si tratta certamente, di tornare su aspetti e problemi del governo dei territori conquistati dalla Spagna, che hanno costituito l’oggetto di una lunghissima tradizione che non è stata soltanto storiografica, perché questa materia storica ha formato parte integrante della polemica politica e culturale contro la Spagna della “leggenda nera”, svolta spesso con grande faziosità dagli ambienti culturali e politici dei paesi che combatterono il primato spagnolo, nonché da parte protestante in avversione al cattolicesimo.
Su queste basi si è pure svolto un confronto del colonialismo spagnolo con quello britannico e francese, a tutto vantaggio, come si sa, del secondo rispetto al primo, ma fondato sostanzialmente sugli stessi pregiudizi antispagnoli e scarse simpatie cattoliche a cui ho accennato, e, allo stesso modo, anche questi pregiudizi e scarse simpatie risalgono all’epoca non recente.
J. H. Elliott ha riportato nel suo libro sugli imperi atlantici i giudizi di John Hector St. John Crévecoeur, che risalgono agli anni ’70 del ’700 sulle colonie spagnole, che al suo tempo erano ancora quasi del tutto intatte.
«Dare una rappresentazione perfetta – scriveva Crévecoeur – delle abitudini e dei modi delle colonie spagnole ci fornirebbe, io credo, il più sorprendente contrasto, se li vedessimo in opposizione a quelli di queste Province. Ma hanno mantenuto il loro paese così costantemente chiuso nei confronti di tutti i forestieri, che è impossibile ottenere da loro qualsiasi certa e dettagliata indicazione».
Crévecoeur confrontava una riunione di quaccheri nell’America del Nord «con quella più sgargiante e sontuosa di Lima, quando esce dalle chiese scintillanti d’oro, illuminate dagli effetti combinati di diamanti, rubini e topazi, ornata di tutto ciò che l’arte dell’uomo possa creare e l’immaginazione delirante di un devoto esaltato possa inventare o realizzare». La struttura delle colonie spagnole d’America era descritta così: «il grosso delle loro società è composto dai discendenti degli antichi conquistatori e dei conquistati, da schiavi e da una tale varietà di caste e gradazioni, come mai, prima d’ora, s’era visto in qualsiasi parte della Terra, che sembra impossibile giungere a un grado sufficiente di armonia, così come portare al successo progetti industriosi di vasta portata». Quanto al fine del governo, esso – diceva Crévecoeur – «è molto più portato a scoraggiare. Sembra che l’obbedienza di pochi sia più utile dell’ingegnosità dei tanti. In breve, quel languore che corrode e infiacchisce la madrepatria, debilita anche quelle belle province».
Eppure Crévecoeur aveva capito che, in fondo, «questo grande continente non ha bisogno di altro che non siano il tempo e le mani per diventare la quinta grande monarchia che cambierà l’attuale sistema politico del mondo».
Tempo e mani: cioè, tempo e attività, i due elementi che tuttora, con i necessari adattamenti si possono ritenere fondamentali per una visione dei problemi di sviluppo dei paesi latino-americani.
Il confronto tra le colonie britanniche e quelle spagnole doveva, però, necessariamente fondarsi soprattutto sui loro diversi regimi.
«In America [ossia negli attuali Stati Uniti] – scriveva a sua volta nel 1781 Thomas Pownall, che fu governatore del Massachussetts – tutti gli abitanti sono liberi ed è concessa la naturalizzazione a tutti coloro che desiderino diventare americani, e hanno una totale libertà di seguire lo stile di vita che si sono scelti, o utilizzare qualunque mezzo per avere dalla vita ciò che il talento permette loro[…]. Là ogni uomo ha la libera e piena disponibilità delle proprie forze, e può ottenere il reddito e il potere che la sua volontà riesce a conquistare, c’è un’attività senza sosta; e una continua lotta di volontà che aguzza l’ingegno ed esercita le menti. Essi sono animati dallo spirito di una Nuova Filosofia, la loro vita è tutta una serie di sperimentazioni; e alzandosi sulle alture del progresso al pari delle parti più illuminate d’Europa, si muovono come aquile, che fanno i loro primi tentativi di volo da una posizione dominante».
Questo confronto non era inesatto, né era incompleto. Lo schiavismo alimentato con la tratta dei negri dall’Africa era una realtà che si ritrovava, uguale nelle colonie francesi e inglesi dei Caraibi e in tutta la parte meridionale delle tredici colonie che formarono gli Stati Uniti. Le divisioni di classe non vi erano meno forti, e a lungo le ex tredici colonie e alcuni dei primi Stati che ad esse si unirono rimasero società a forte connotazione oligarchica.
Tuttavia la differenza c’era. Si veda la ricostruzione di José Luis Abellán [La idea de América, Ediciones Istmo, Madrid, 1972, pp. 78-82 e 83]. Quello di Abellán è un tentativo di ricostruzione apprezzabile. Non è tuttavia l’unico, ma, salvo errore, non si può dire che disponiamo ancora di chiare e buone sintesi sull’idea di se stesse che avevano le colonie americane della Spagna dal secolo XVII in poi, quando esse cominciarono ad assumere una personalità ormai definita e ad elaborare una loro specifica coscienza storica e politica. L’attenzione degli storici a questo riguardo si è concentrata soprattutto sui secoli XIX e XX, cioè a partire dal momento in cui le colonie si trasformarono, prima o poi, nelle attuali nazioni indipendenti dell’America Latina.
Allo stesso modo non abbiamo ancora una visione soddisfacente dello sviluppo dell’espansione coloniale spagnola. Sembra quasi che tutto si sia concluso con Cortés e con Pizarro, ma si sa che non fu così, e l’ampliamento dei territori spagnoli ancora nel secolo XVIII fu un processo importante e di grande portata.
Dobbiamo, dunque, ancora andare più a fondo nello studio di quel grande fatto della storia del mondo che fu l’impero spagnolo dagli inizi del XVI agli inizi del XIX secolo.
Ciò premesso, che cosa ci può suggerire un confronto di questo vasto mondo transoceanico col Mediterraneo? Nel nostro caso, quando si dice Mediterraneo, si deve intendere innanzitutto e soprattutto il Mediterraneo spagnolo, che fu poi, fuori della Spagna, l’Italia.
Anche in tutto il resto del Mediterraneo vi sono stati fenomeni amplissimi di colonizzazione e di successiva emancipazione e conquista dell’indipendenza. Bisogna, però, saper resistere alle tentazioni di un facile e universale comparativismo. Innanzitutto nel Mediterraneo, su più di metà delle sue rive, c’è l’Islam. In secondo luogo, vi si sono succedute dominazioni diverse, prima quella ottomana, poi quelle di Francia, Inghilterra e, in piccola parte, Italia. In terzo luogo, si tratta di paesi che hanno tutti storie millenarie, con molti periodi di fioritura e di eclissi. In quarto luogo, e in connessione con quanto abbiamo detto, la loro facies culturale e linguistica è assai diversa, e contrasta con la grande unità linguistica e storico-culturale che la Spagna ha lasciato alla sua America.
Questi elementi di diversità pesano anche sul confronto fra America spagnola e Italia spagnola. Tuttavia, l’impero spagnolo, se non fu una realtà politico-istituzionale unitaria, certamente fu uno spazio fortemente legato al suo centro spagnolo, a Madrid; ed ebbe, quindi, lo stesso quadro di riferimento contestuale in tutte le sue parti.
In varii casi si è parlato di questo impero come una federazione di realtà politiche diverse. Questo concetto di federazione è del tutto fuori luogo. L’impero spagnolo fu davvero un impero ed ebbe nella grande aristocrazia castigliana il suo vertice politico e sociale. Non fu un impero che schiacciasse le sue dipendenze e ne annullasse la personalità giuridica, storica e politica. Si è parlato perciò di monarquía compuesta. Questo vale, però, senz’altro per i possedimenti europei della Corona. Per quelli americani la questione era diversa. E ciononostante le singole circoscrizioni dell’impero americano divennero, al più tardi nel secolo XVII, come abbiamo già detto, centri di formazione di specifiche realtà politiche, sociali e culturali, costituenti i nuclei delle future nazioni ispano-americane.
Per l’Italia spagnola la discussione storica continua a vertere sulle conseguenze dell’appartenenza alla Spagna, che per lunga tradizione hanno visto nel fiscalismo e nel complessivo sistema di governo spagnolo la causa determinante del sottosviluppo in particolare del Mezzogiorno e delle isole italiane. Ma in tutta Italia e in America questo è ugualmente vero? Diversità di destini (Lombardia, Argentina etc.). Rimane la cappa delle esigenze imperiali che era un metro della metropoli spagnola (a parte malgoverno, lusso, cattivi costumi, etc. ripresi nei Promessi Sposi). Anche la storia economica è meno parallela di quel che farebbe pensare la comune appartenenza a Madrid (R. Romano, diverse congiunture).
Tutto ciò non significa che il confronto e il coordinamento dell’impegno storiografico tra Atlantico spagnolo e Mediterraneo spagnolo sia una impresa vana o impossibile. È vana e impossibile se si intendono il confronto e il coordinamento come una omogeneità di situazioni e di problemi, unificati dal riferimento alla Spagna. Diventano, invece, non solo possibili, ma grandemente fecondi se l’unità spagnola è concepita come unità nella diversità; e se la diversità viene studiata non come impulso a una inerte distinzione fra elementi disparati, ma viene concepita e si trasforma in un elemento di approfondimento dell’analisi specifica di ciascun elemento o parte del confronto, e in una riproposizione del quadro unitario secondo un paradigma storico più realistico e significativo.





Nota bibliografica

Oltre a G. Galasso, Nell’Europa dei secoli d’oro. Aspetti, momenti e problemi dalle “guerre d’Italia alla Grande Guerra”, Napoli, Guida, 2012 (in particolare i capitoli: 1. L’Europa dei secoli d’oro; 3. Le relazioni internazionali nell’età moderna; 4. Imperi europei moderni); e oltre a rinviare a J. H. Elliott, Empires of the Atlantic World. Britain and Spain in America. 1492-1830, London - New Haven (Ct), Yale Univeristy Press, 2006, la cui ampia e accurata bibliografia fornisce una più che soddisfacente informazione al riguardo; ci limitiamo a segnalare come riferimenti essenziali per le riflessioni qui esposte alcune opere di carattere più generale, che hanno segnato il cammino della discussione in materia nella seconda metà del secolo XX e anni successivi:
Historia de España, dir. M. Tuñon de Lara, Tomo V, J-P Le Flem, J. Pérez, J-M Pelorson, J. M. Lòpez Piñero, J. Fayard, La frustración de un imperio. 1476-1714, Barcelona, Editorial Labor, 1984; Storia Universale Feltrinelli, vol. 29, D. K. Fieldhouse, Gli imperi coloniali dal XVIII secolo, Milano, Feltrinelli, 1967; H. Kamen, Empire How Spain Became a World Power. 1492-1763, New York, Harper Collins Publishers, USA, 2003; A. Musi, L’Europa moderna fra imperi e stati, Milano, Guerini 2006; H.-H. Nolte, Weltgeschichte Imperien, Religionen und Systeme, 15.-19. Jahrhundert. Wien-Köhn, Weimar, 2005; A. Pagden, Lords of all the World. Ideologiesof empire in Spain, Britain and France, New Haven, Yale University Press, 1995; R. Pieper, Die Vermittlung Einer Neuen Welt. Amerika in Nachrichtennetz des Habsburgischen Impeirums. 1493-1598, Mainz am Rhein, Zabern, 2000; M. Rowdon, The Spanish terror, Spanish Imperialism in the Sixteenth Century, London, Constable, 1974; R.A. Stradling, Europe and the decline of Spain, New York, Harper Collins, 1992; La successione degli imperi e delle egemonie nelle relazioni internazionali<, edd. D. Foraboschi e S.M. Pizzetti, Intr. E. Gabba, Milano, Unicopli, 2003; Viejos y nuevos imperios. España y Gran Bretaña. S. XVII-XX, edd. I. Burdiel, R. Church, Episteme, Valencia, 1998; G.J. Walker, G.J., Spanish Politics and Imperial Trade. 1700-1789, Bloomington and London, Indiana University Press, 1979.
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