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Sulla riforma del Senato
di G. G.
Ha sollevato un certo rumore, e anche critiche assai poco ricevibili, l’intervento di Giorgio Napolitano in Senato a sostegno della necessità della riforma costituzionale in itinere, che comprende anche quella relativa, appunto, al Senato, per la quale è stato fatto un passo decisivo. Napolitano ha semplicemente esercitato il suo diritto-dovere di componente dell’assemblea di Palazzo Madama. Non è detto che si debba essere sempre o in tutto d’accordo con lui, ma contestargli la necessità di una riforma costituzionale è un po’ troppo, e sconfina nel campo di pregiudizi e avversioni personali molto più che politiche.
Nella scia delle considerazioni di Napolitano, come sempre equilibrate e pertinenti, ecco intanto qualche ulteriore riflessione sul mutamento costituzionale che si opera col nuovo Senato.
Com’è noto, l’esigenza prima della riforma è stata la necessità di ovviare ai numerosi e gravi inconvenienti del bicameralismo perfetto adottato nella vigente costituzione: lungaggini, duplicazioni infruttuose o peggio, adito offerto a giochi politici poco limpidi, costo finanziario gravoso e ingiustificato di tali inconvenienti.
Certo, quel bicameralismo non era nato per caso o per insipienza dei costituenti del 1946-48. Si usciva dal lungo tunnel di una dittatura che aveva portato al disastro del 1945 e si voleva garantire che per il futuro leggi e riforme subissero il vaglio di esami parlamentari molto accurati e ponderati, e non soggiacessero a condizionamenti ritenuti più facili nel caso di parlamenti unicamerali. Si può capire che, a tanta distanza dal 1945, e venuta meno anche l’atmosfera della “guerra fredda”, che aveva mantenuto il timore di colpi di mano parlamentari pericolosi per un regime di libertà, il bicameralismo perfetto sia apparso una bardatura pesante e superflua.
Ciò detto, può essere forse non inutile rievocare le tipologie storiche del bicameralismo, che – detto un po’ alla buona – si riducono, in sostanza, a tre casi. C’è il caso dell’affiancamento di una seconda assemblea rappresentativa dei cittadini comuni alle assemblee di origine medievale che rappresentavano i ceti privilegiati della società (è soprattutto il caso inglese della camera dei Signori, i
Lords, affiancata da quella dei Commoners, i comuni cittadini, e non i municipi, come molti ancora danno l’impressione di ritenere; e in ciò anche una delle radici della denominazione di “camera alta” e “camera bassa” nel linguaggio, almeno una volta, corrente) . Un secondo caso è quello che, nel passaggio dall’assolutismo tradizionale ai regimi costituzionali, fece sentire il bisogno di un duplice esame parlamentare degli atti legislativi e di governo al fine sia di evitare colpi di mano e reazioni, al limite, anche emotive (il ricordo della Convenzione francese del 1793 durò moltissimo tempo a ridursi, se non proprio a spegnersi) pregiudizievoli della saggezza politica o addirittura del regime di libertà; sia di controllare in particolare, con una più meditata seconda lettura delle leggi, gli eccessi della spesa e i disastri delle finanze pubbliche a cui possono spingere la demagogia o il gioco di interessi particolari o altri fattori più casuali (e questo è il caso di pressoché tutti gli ordinamenti costituzionali succedutisi in Europa o di imitazione europea dalla rivoluzione francese in poi). Il terzo caso è quello, per lo più, del costituirsi di Stati federali o confederali, nei quali una delle camere rappresentava le varie unità politiche federate e l’altra, invece, la generalità dei cittadini della federazione consultati elettoralmente come tali e non come cittadini dei singoli membri dell’unione (basta pensare agli Stati Uniti o alla Svizzera).
Si tratta, naturalmente, di una tipologia che ha tutti gli inconvenienti teorici e storici propri delle schematizzazioni di fenomeni complessi, dalla fisionomia molteplice, eterogenea, riluttante a ogni classificazione univoca in questo o quel tipo di schema. Si aggiunga che nei diversi casi sono innumerevoli i modi di diversificare le funzioni di ciascuno dei rami di un parlamento bicamerale, rispondenti, tuttavia, sempre, alle ragioni permanenti di una distinzione funzionale tra organi costituzionali fondamentali quali sono i rami del parlamento in un regime di libertà.
Nel nuovo Senato italiano non sembra abbastanza chiaro in quale misura prevalga qualcuno dei tre tipi indicati e in quale misura essi vi siano integrati o fusi. Le discussioni che hanno accompagnato il laborioso varo della riforma non hanno portato molta luce al riguardo. A riforma fatta, le possibili critiche (ad esempio: pochi hanno davvero capito come sono scelti i senatori e pensano che non vi sia vera elezione; oppure: i tempi di applicazione della riforma non hanno considerato la varia scadenza dei consigli regionali attuali in rapporto a prossime elezioni parlamentari, per cui le nuove norme si applicherebbero appieno solo ai consigli scaduti e rinnovati prima di tali eventuali prossime elezioni al Parlamento ) appaiono destinate a spegnersi via via. Per ora, è chiaro soltanto che l’ordinamento costituzionale italiano – secondo un’esigenza agitata da decennii sia in dottrina che nella pubblicistica politica – abbandona il bicameralismo perfetto durato finora e istituisce un bicameralismo parziale e diversificato nelle sue due componenti. Sarà poi la prassi, il modo come si farà vivere il nuovo ordinamento, ben più che il relativo testo legislativo, a darci un reale apprezzamento delle virtù e dei vizi della riforma. Le istituzioni (per parafrasare Ernesto Sestan) possono essere innocenti o addirittura virtuose, ma innocenti è assai frequente che non siano coloro che le adottano, le praticano e se ne servono molto di più di quanto servano ad esse.
Ciò premesso, che senso avrà la composizione regionale e municipale del nuovo Senato (74 consiglieri regionali e 21 sindaci) dal punto di vista della rappresentanza degli interessi territoriali? Già si parla della disponibilità che si offre di una sede in cui questi interessi (compressi – si dice – dallo Stato unitario) potranno essere tutelati in maniera ben più specifica e intransigente che finora; di una tribuna di esibizione e di affermazione delle particolarità (non vogliamo dire particolarismi) regionali. Lo dicono quei crociati della rottura dell’unità nazionale che sono i leghisti, oggi peraltro piuttosto malridotti, malgrado l’assiduo vociare di Salvini. Lo dicono tutti i “sudisti”, che parlano già di una tribuna dalla quale debbono parlare uniti tutti i senatori meridionali. Lo dicono i fanatici delle consultazioni in rete per i quali vale il verbo espresso in loco da chiunque e comunque. Lo dicono altri.
Ebbene, c’è un equivoco che è bene dissolvere subito. I nuovi senatori sono eletti su base regionale e municipale, ma non rappresentano, in punta di diritto, le Regioni e i municipi. Rappresentano, infatti, anch’essi come la Camera dei deputati, a ogni titolo la nazione nella sua totalità e lo Stato; ed è quindi in questo quadro generale che, com’è poi sempre accaduto sia in Senato che nell’altra Camera, si debbono prospettare gli interessi particolari e locali. E, del resto, le competenze lasciate al nuovo Senato difficilmente consentirebbero di fare altro. Il fatto, però, di essere espressi da rappresentanti legati al territorio in maniera ancora più diretta e specifica che finora potrà dare ai legittimi e naturali interessi locali un’inflessione nuova, che certo gioverà di più a una loro miglior considerazione.
Trasformare il nuovo Senato in una sorta di piazza delle agitazioni e rivendicazioni regional-municipali è, quindi, un’idea tanto poco realistica quanto poco opportuna. Il localismo è, del resto, una grande forza dell’ordinamento politico, ma è funzionale e fisiologico ad esso, e anche a se stesso, solo se non va contro la logica degli interessi generali propri di ogni struttura e ordinamento politico, fino a quando, naturalmente, regge il fondamento etico-politico su cui una struttura e un ordinamento si reggono. Se poi è questo fondamento che si vuol mettere in discussione, allora la questione è diversa, e bisogna dirlo (ma l’inconcludente, ormai quasi trentennale, esperienza della Lega Nord dovrebbe ammonire sulla saldezza dell’unità italiana, malgrado tutti i suoi vistosi punti di debolezza e di insoddisfacente tenuta).
Infine, è anche ovvio che il varo della contestata riforma segni un innegabile successo del governo, che, al costo di correzioni, tutto sommato marginali, del testo che aveva proposto, conferma la sua capacità di tenere su una maggioranza abbastanza sicura, nonostante la tanto reclamizzata opposizione interna al PD. E in questo caso, poi, il successo è accresciuto dall’iniziativa presa dall’opposizione di destra e 5 Stelle di presentare diecine di milioni di emendamenti. La cosa sarebbe in sé ridicola, e ha tutti i numeri per figurare come l’invenzione di un giornale satirico o comico o per bambini, oppure di uno di quegli showmen che vivono del mestiere di dileggiare, fra tutte le figure sociali, quasi esclusivamente quella del politico, con criteri ed effetti discutibili, oltre che fatalmente destinati all’inefficacia per overdose e assuefazione del pubblico, sicché sul terreno finisce poi col restare, ancor più che il cadavere del politico satireggiato o di chi lo prende in giro, il cadavere della politica stessa.
Qui lo notiamo, però, soprattutto per esprimere l’impressione che con opposizioni facili a queste tecniche (se tali si possono definire) davvero sciocche di lotta parlamentare il governo può dormire certamente sonni più tranquilli. L’inconsistenza tecnica e politica dell’uso dell’emendamento come ariete per abbattere le mura di Gerico della maggioranza attesta, infatti, una sostanziale carenza o povertà di idee e un’incapacità di proposta politica che giovano solo, come si è detto, ai sonni del governo, mentre i sonni del governo non dovrebbero mai essere del tutto o davvero o troppo tranquilli, non per effetto dell’azione di una truppa di guastatori parlamentari come quella che si è vista in Senato fra settembre e ottobre, ma per la effettiva concretezza e la necessaria vivacità che la dialettica politica e sociale nella quale il governo agisce deve sempre mantenere perché l’asticella del
quid faciendum sia sempre tenuta al più alto e qualificato livello possibile.
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